Macchine # 1

(uso capitalistico)

L’economia borghese non nega affatto che dall’uso capitalistico delle mac­chine provengano anche inconvenienti temporanei – certo, in quanto i lavora­tori colpiti lasciano questo mondo “temporale” ... Ma per essa è impossibile adoprare le macchine in modo differente da quello capitalistico. La trasposi­zione delle forze produttive sociali del lavoro in proprietà materiali del capita­le è talmente radicata nell’immaginazione che i vantaggi del macchinismo, dell’applicazione della scienza, delle invenzioni, ecc., vengono concepiti in questa loro forma alienata come nella loro forma necessaria, e quindi visti come proprietà del capitale. Il capitalista che impiega una macchina non ha bisogno di capirla, e tuttavia nella macchina la scienza realizzata appare di fronte ai lavoratori come capitale. Tutte le forze produttive sociali del lavoro si rappresentano come forze produttive del capitale. Nell’un caso, il lavoratore complessivo combinato (il corpo lavorativo socia­le) appare come soggetto dominante, e l’automa meccanico appare come og­getto; nel­l’altro, l’automa stesso è il soggetto, e i lavoratori sono solo coordi­nati ai suoi organi incoscienti quali organi coscienti e insieme a quelli sono subordinati alla forza motrice centrale. Il primo caso vale per qualsiasi appli­cazione del macchinario su larga scala, l’altro caratterizza la sua applicazione capitalistica e quindi il moderno sistema di fabbrica. A Ure piace quindi rap­presentare la macchina centrale, da cui parte il movimento, non solo come au­toma ma come autocrate. Ma che il capitale si sia impossessato del processo lavorativo non cambia nulla alla natura generale del processo medesimo, che riguarda il valore d’uso delle macchine.

Questo assurdo scambiare un dato rapporto sociale di produzione che si rap­presenta in oggetti, in cose, per una proprietà naturale materiale di queste stesse cose, balza agli occhi sfogliando il primo dei migliori manuali di eco­nomia politica. Si elencano gli elementi del processo lavorativo amalgamati con gli specifici caratteri sociali che a un dato stadio di sviluppo storico essi possiedono. Questa illusione degli economisti è un metodo molto comodo per fare del capitale un elemento naturale immutabile dell’esistenza umana. Se si applica a tali elementi generali l’etichetta di capitale, nella fiduciosa convinzione che “qualcosa resta pur sempre appiccicato”, si è bell’e “dimo­strato” che l’esistenza del capitale è una legge naturale eterna della produzio­ne umana: che un Kirghiso con un coltello è un capitalista alla stessa stregua del sig. Rothschild, che Greci e Romani celebravano l’eucarestia perché beve­vano vino e mangiavano pane, che una sedia a quattro gambe ricoperta di vel­luto diviene un trono per la natura del suo valore d’uso. Per lo stesso motivo, nel cervello del padrone, il macchinario e il suo monopolio del medesimo so­no inseparabilmente uniti. E qui sta il punto culminante dell’apologetica degli economisti! Dato che, se­condo costoro, le contraddizioni e gli antagonismi delle macchine sono inse­parabili dal loro uso capitalistico, dunque tali contraddizioni e antagonismi non esistono. È indubitabile che le macchine in sé non siano responsabili di ciò. Non occorre un acume particolare per comprendere che le macchine pos­sono nascere solamente in antitesi al lavoro vivo, in quanto proprietà altrui e potere ostile ad esso contrapposti; ossia che esse gli si devono contrapporre come capitale. Ma è altrettanto facile capire che le macchine non cesseranno di essere agenti della produzione sociale quando, per esempio, diventeranno proprietà dei lavoratori associati. Ogni cosa oggi sembra portare in sé la con­traddizione. Macchine, dotate del meraviglioso potere di ridurre e potenziare il lavoro umano, fanno morire l’uomo di fame e l’ammazzano di lavoro.

Le conquiste della tecnica sembrano ottenute a prezzo della loro stessa natura. Perfino la pura luce della scienza sembra poter risplendere solo sullo sfondo tenebroso dell’ignoranza. Poiché dunque le macchine, considerate in sé, ab­breviano il tempo di lavoro mentre, adoprate capitalisticamente, prolungano la giornata lavorativa; poiché le macchine in sé alleviano il lavoro e adoprate capitalisticamente ne aumentano l’intensità; poiché in sé sono una vittoria dell’uomo sulla forza della natura e adoprate capitalisticamente soggiogano l’uomo mediante la forza della natura; poiché in sé aumentano la ricchezza del produttore e usate capitalisticamente lo pauperizzano, ecc., gli economisti borghesi dichiarano semplicemente che la considerazione delle macchine in sé dimostra con la massima precisione che tutte quelle tangibili contraddizio­ni sono una pura e semplice parvenza dell’ordinaria realtà, ma che in sé, e quindi anche nella teoria, non ci sono affatto. Così risparmiano di doversi ul­teriormente lambiccare il cervello; e per giunta addossano ai loro avversari la sciocchezza di combattere non l’uso capitalistico delle macchine, ma le mac­chine stesse. Ci vogliono tempo ed esperienza affinché i lavoratori apprendano a distingue­re le macchine dal loro uso capitalistico, e quindi a trasferire i loro attacchi dal mezzo materiale di produzione stesso alla forma sociale di sfruttamento di esso. Soltanto dopo l’introduzione delle macchine i lavoratori combattono proprio il mezzo di lavoro stesso, ossia il modo materiale di esistenza del ca­pitale. Si rivoltano contro questa forma determinata del mezzo di produzione come fondamento materiale del modo capitalistico di produzione. La distru­zione in massa di macchine offrì, sotto il nome di movimenti dei Luddisti, il pretesto per violenze ultrareazionarie da parte del governo. Come macchina, il mezzo di lavoro diviene subito concorrente del lavoratore stesso.

L’autovalorizzazione del capitale mediante la macchina sta in rapporto diretto col numero dei lavoratori dei quali la macchina distrugge le condizioni di esi­stenza. Tutto il sistema della produzione capitalistica poggia sul fatto che il lavoratore vende la sua forza-lavoro [<=] come merce. La divisione del lavoro ren­de unilaterale questa forza-lavoro, facendone una abilità del tutto particolariz­zata di maneggiare uno strumento parziale. Appena il maneggio dello stru­mento è affidato alla macchina, si estingue il valore d’uso e con esso il valore di scambio della forza-lavoro. Il lavoratore diventa invendibile, come certo denaro fuori corso. Ci sono due tendenze che s’incrociano continuamente: da un lato, impiegare meno lavoro possibile per produrre la stessa o una maggiore quantità di mer­ci, per produrre lo stesso o un maggiore plusvalore; dall’altro, impiegare un numero di lavoratori più grande possibile, benché più piccolo possibile in rap­porto alla quantità delle merci da essi prodotte. L’una tendenza scaraventa sul lastrico i lavoratori e rende sovrabbondante la popolazione, l’altra l’assorbe di nuovo e allarga in senso assoluto la “schiavitù salariale”, cosicché il lavorato­re oscilla sempre nella sua sorte e tuttavia non se ne libera mai. Perciò il lavoratore considera lo sviluppo delle forze produttive del suo pro­prio lavoro come a lui ostile, e con ragione; d’altro lato, il capitalista lo tratta come un elemento da allontanare continuamente dalla produzione.

Quella fi­gura indipendente ed estraniata che il modo di produzione capitalistico confe­risce in genere alle condizioni di lavoro e al prodotto del lavoro nei riguardi del salariato, si evolve perciò con le macchine in un antagonismo completo. Quindi con esse si ha per la prima volta la rivolta brutale del lavoratore contro il mezzo di lavoro. Il mezzo di lavoro schiaccia l’operaio. Tuttavia la macchina non agisce soltanto come concorrente strapotente, sem­pre pronto a rendere “superfluo” il lavoratore salariato. Il capitale la proclama apertamente e consapevolmente potenza ostile al lavoratore e come tale la maneggia. Essa diventa l’arma più potente per reprimere le insurrezioni pe­riodiche dei lavoratori, gli scioperi, ecc. contro la autocrazia del capitale. Appena la macchina operatrice compie senza assistenza umana tutti i movi­menti necessari per la lavorazione della materia prima, ed ha ormai bisogno soltanto dell’uomo a cose fatte, si ha un sistema automatico di macchine, che però è sempre suscettibile di elaborazione nei particolari. Un sistema di mac­chine, sia che poggi sulla semplice cooperazione di macchine operatrici omo­genee, sia che poggi su una combinazione di macchine eterogenee, costitui­sce, in sé e per sé, un solo grande automa. Solo nella grande industria l’uomo impara a fare operare su larga scala, come una forza naturale, gratuitamente, il prodotto del suo lavoro passato e già oggettivato. Quindi la grande industria dovette impadronirsi del proprio caratte­ristico mezzo di produzione, la mac­china stessa e produrre macchine mediante macchine. Solo a questo modo es­sa creò il proprio sostrato tecnico adeguato e cominciò a muoversi da sola.

Mediante la sua trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone al lavoratore durante lo stesso processo lavorativo quale capita­le, quale lavoro morto che domina e succhia fino all’ultima goccia la forza-lavoro viva. La scissione fra le potenze mentali del processo di produzione e il lavoro manuale, la trasformazione di quelle in poteri del capitale sul lavo­ro, si compie nella grande industria edificata sulla base delle macchine. L’a­bilità parziale dell’operaio meccanico individuale, svuotato, scompare come un infimo accessorio dinanzi alla scienza, alle immani forze naturali e al lavo­ro sociale di massa, che sono incarnati nel sistema delle macchine e che con esso costituiscono il potere del “padrone”. Ogni lavoro alla macchina richiede che il lavoratore sia addestrato molto pre­sto affinché impari ad adattare il proprio movimento al movimento uniforme e continuativo di una macchina automatica. In quanto il macchinario com­plessivo stesso costituisce un sistema di molteplici macchine che operano si­multaneamente e combinate, anche la cooperazione basata su di esso richiede una distribuzione di differenti gruppi operai fra le differenti macchine. Ma ta­le funzionamento elimina la necessità di consolidare questa distribuzione. Al­la gerarchia di operai specializzati subentra quindi nella fabbrica automatica la tendenza dell’eguagliamento ossia del livellamento dei lavori da compiersi dagli addetti al macchinario. Questa divisione del lavoro è puramente tecnica.

Nella fabbrica sviluppata domina la continuità dei processi particolari. In sé e per sé il mezzo di lavoro diventa un perpetuum mobile industriale che conti­nuerebbe ininterrottamente a produrre, se non si imbattesse in determinati li­miti naturali dei suoi “aiutanti” umani: la loro debolezza fisica e la loro volon­tà a sé. Come capitale e in quanto tale la macchina automatica ha consapevo­lezza e volontà nel capitalista; il mezzo di lavoro è quindi animato dall’istinto di costringere al minimo di resistenza il limite naturale dell’uomo, riluttante ma flessibile, resistenza diminuita anche dall’apparente facilità del lavoro alla macchina. Il capitale quale mezzo di sfruttamento della forza-lavoro assume una forma ancor più schifosa. Dalla specialità di tutt’una vita, consistente nel maneggia­re uno strumento parziale, si genera la specialità di tutta una vita, consistente nel servire una macchina parziale. Del macchinario si abusa per trasformare il lavoratore stesso, fin dall’in­fanzia, nella parte di una macchina parziale. Così, non solo si diminuiscono notevolmente le spese necessarie alla riprodu­zione del lavoratore, ma allo stesso tempo si completa la sua assoluta dipen­denza dall’insieme della fabbrica, quindi dal capitalista.

Il lavoro alla macchina intacca in misura estrema il sistema nervoso, soppri­me l’azione molteplice dei muscoli e confisca ogni libera attività fisica e mentale. La stessa facilitazione del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro l’operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro. È fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica in quanto non sia soltanto processo lavorativo ma anche processo di valorizzazione del capitale, che non è il lavoratore ad adoprare la condizione del lavoro ma, vi­ceversa, la condizione del lavoro ad adoprare il lavoratore; ma questo capo­volgimento viene ad avere soltanto con le macchine una realtà tecnicamente evidente. Qui, come dappertutto, si deve distinguere fra maggiore produttività [<= #1] dovuta allo sviluppo del processo sociale di produzione e la maggiore produt­tività [<= #3] dovuta al suo sfruttamento capitalistico.

Si pone così la trasformazione della grandezza estensiva in grandezza di gra­do, ossia grandezza intensiva. Dal momento, dunque, in cui un aumento della produzione di plusvalore mediante il prolungamento della giornata lavorativa è precluso, il capitale si getta a tutta forza e con piena consapevolezza sulla produzione di plusvalore relativo mediante un accelerato sviluppo del sistema delle macchine. Allo stesso tempo subentra un cambiamento nel carattere del plusvalore relativo. Generalmente il metodo di produzione del plusvalore re­lativo consiste nel mettere il lavoratore in grado di produrre di più con lo stes­so dispendio di lavoro e nello stesso tempo mediante l’aumento della forza produttiva del lavoro. Diversamente stanno però le cose non appena l’accorciamento forzato della giornata lavorativa [<=], con l’enorme impulso che dà allo sviluppo della forza produttiva e all’economizzazione delle condizioni di produzione, impone al salariato un maggiore dispendio di lavoro in un tempo invariato, una tensione più alta della forza-lavoro, un più fitto riempimento dei pori del tempo di la­voro, cioè una condensazione del lavoro a un grado che si può raggiungere solo entro i limiti della giornata lavorativa accorciata. Questo comprimere una massa maggiore di lavoro entro un dato periodo di tempo conta ora per quello che è, cioè per una maggiore quantità di lavoro. A fianco della misura del tempo di lavoro quale “grandezza estesa” si presenta ora la misura del suo grado di condensazione. Adesso, l’ora più intensa della giornata lavorativa contiene tanto lavoro ossia forza-lavoro spesa quanto l’ora più porosa della giornata lavorativa di prima o anche di più. È ovvio che con il progresso del sistema meccanico e con l’esperienza accu­mulata da una classe particolare di operai meccanici aumenti spontaneamente la velocità e con essa l’intensità del lavoro.

In tal modo il prolungamento del­la giornata lavorativa procede di pari passo con la crescente intensità del la­voro. Se le macchine sono il mezzo più potente per aumentare la produttività del lavoro ossia per accorciare il tempo di lavoro necessario alla produzione di una merce, in quanto depositarie del capitale esse diventano, nelle indu­strie di cui si impadroniscono direttamente, il mezzo più potente per prolun­gare la giornata lavorativa al di là di ogni limite naturale. Ma non appena diventa obbligatorio per legge l’accorciamento della giorna­ta lavorativa, il quale in un primo tempo crea la condizione soggettiva della condensazione del lavoro, ossia la capacità del lavoratore di rendere “liquida” una quantità maggiore di forza-lavoro in un dato tempo, la macchina diventa nelle mani del capitale il mezzo obiettivo e sistematicamente applicato per estorcere una quantità maggiore di lavoro nel medesimo tempo. E questo av­viene in duplice maniera: mediante l’aumento della velocità delle macchine e mediante l’ampliamento del volume di macchinario da sorvegliare da uno stesso operaio, ossia mediante l’ampliamento del suo campo di lavoro. Il per­fezionamento nella costruzione del macchinario in parte è necessario per esercitare una pressione maggiore sui lavoratori, in parte accompagna sponta­neamente l’intensificazione del lavoro, perché il limite della giornata lavorati­va costringe il capitalista all’economia più rigorosa nei costi di produzione.

In quanto le macchine permettono di fare a meno della forza muscolare, esse diventano il mezzo per adoperare operai senza forza muscolare o con maggiore flessibilità [<=] (donne e fanciulli): questa è stata la prima parola d’ordine dell’uso capitalisti­co delle macchine! Questo potente surrogato del lavoro e dei lavoratori si è così trasformato sùbito in un mezzo per aumentare il numero dei lavoratori salariati, irreggimentando sotto l’imperio immediato del capitale tutti i mem­bri della famiglia proletaria, senza differenza di sesso e di età. Il lavoro coatto a vantaggio del capitalista confisca tutto il periodo di vita del lavoratore me­diante un’estensione smisurata della giornata lavorativa; il suo progresso, che consente di fornire in un tempo sempre più breve un prodotto in enorme au­mento, serve così da mezzo sistematico per rendere liquida una maggiore quantità di lavoro in ogni momento, ossia per sfruttare sempre più intensa­mente la forza-lavoro. L’insieme della fabbrica è precisamente l’aspetto più perfezionato di tale processo. Nell’uso del macchinario per la produzione di plusvalore vi è quindi una con­traddizione immanente, giacché quest’uso ingrandisce uno dei due fattori del plusvalore che fornisce un capitale di grandezza data, il tasso del plusvalore, soltanto diminuendo l’altro fattore, il numero dei lavoratori. È questa contrad­dizione che spinge a sua volta il capitale, senza che esso ne sia cosciente, al più violento prolungamento della giornata lavorativa per compensare la di­minuzione del numero relativo dei lavoratori sfruttati mediante l’aumento non solo del pluslavoro relativo ma anche di quello assoluto.

Se l’uso capitalistico del macchinario crea da un lato nuovi potenti motivi di un prolungamento smisurato della giornata lavorativa e rivoluziona lo stesso modo di lavorare e anche il carattere del corpo lavorativo sociale, in maniera tale da spezzare la resistenza a questa tendenza, dall’altro lato quest’uso pro­duce anche, in parte con l’assunzione al capitale di strati di lavoratori in pas­sato inaccessibili, in parte con il disimpegno dei lavoratori soppiantati dalla macchina, una popolazione lavoratrice sovrabbondante, costretta a lasciarsi dettar legge dal capitale. Da ciò quello strano fenomeno della storia dell’in­dustria moderna, per il quale la macchina butta all’aria tutti i limiti morali e naturali della giornata lavorativa. Da ciò il paradosso economico che il mezzo più potente per l’accorciamento del tempo di lavoro si trasforma nel mezzo più infallibile per trasformare tutto il tempo della vita del lavoratore e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale.

[k.m.]

(da Capitale, I.13,1-6, VI inedito, I.5,16, Teorie sul plusvalore, XVIII)

 

 

Macchine # 2

(produzione di plusvalore)

Come ogni altro sviluppo della forza produttiva del lavoro, il macchinario ha il compito di ridurre le merci più a buon mercato e abbreviare quella parte della giornata lavorativa che il lavoratore usa per se stesso, per prolungare quell’altra parte della giornata lavorativa che il lavoratore dà gratuitamente al capitalista: è un mezzo per la produzione di plusvalore [<=]. Poiché ogni prodotto delle macchine è più a buon mercato del prodotto a mano similare da esso soppiantato, ne segue questa legge assoluta: se la quantità complessiva dell’articolo prodotto a macchina rimane eguale alla quantità complessiva dell’articolo prodotto dalla manifattura o artigianalmente, che esso sostitui­sce, allora diminuisce la somma totale del lavoro che viene adoprato. L’au­mento di lavoro richiesto, a esempio, per la produzione dei mezzi di lavoro stessi, delle macchine, ecc., dev’essere minore della diminuzione di lavoro ef­fettuata dall’uso delle macchine. Cresce così la molteplicità dei rami della produzione sociale in cui l’uso delle macchine spinge la divisione sociale del lavoro incomparabilmente più in là di quanto non faccia la manifattura, perché aumenta in grado incomparabilmente più alto la forza produttiva delle industrie che esso conquista. Un’analisi comparativa dei prezzi di alcune merci prodotte artigianalmente o con lavoro di tipo manifatturiero coi prezzi delle stesse merci come prodotto delle macchine dà in generale il risultato che nel prodotto delle macchine la parte costitutiva del valore dovuta al mezzo di lavoro cresce relativamente, ma diminuisce in assoluto.

La differenza permane finché i costi di lavorazio­ne della macchina e quindi la parte costitutiva del valore da essa aggiunta al prodotto rimangono inferiori al valore che il lavoratore aggiungerebbe col suo strumento all’oggetto del lavoro. La produttività della macchina si misura quindi con il grado nel quale la macchina sostituisce la forza-lavoro umana. La produttività delle macchine è inversamente proporzionale alla grandezza dell’elemento costitutivo del valore da esse trasmesso al prodotto. Quanto più è lungo il periodo durante il quale esse funzionano, tanto maggiore è la massa di prodotti su cui si distribuisce il valore da esse aggiunto, e tanto minore è la parte di valore che esse aggiungono alla merce singola. Ma il periodo attivo di vita delle macchine è determinato evidentemente dalla durata della giorna­ta lavorativa [<=], ossia dalla durata del processo lavorativo giornaliero moltipli­cata per il numero delle giornate in cui esso si ripete. Data la proporzione nella quale le macchine trasferiscono valore nel prodotto, la grandezza di questa parte del valore dipende dalla grandezza di valore del­le macchine stesse. Tanto meno lavoro esse contengono, tanto minor valore aggiungono al prodotto; tanto meno valore esse cedono, tanto più sono pro­duttive e tanto più il servizio che fanno s’avvicina a quello delle forze natura­li. Ma la produzione di macchine per mezzo di macchine ne diminuisce il va­lore proporzionalmente alla loro estensione ed efficacia.

Considerata la macchina esclusivamente mezzo per ridurre più a buon merca­to il prodotto, il limite dell’uso delle macchine è dato dal fatto che la loro pro­duzione costi meno lavoro di quanto il loro uso ne sostituisca. Ma per il capi­tale questo limite trova un’espressione ancora più ristretta. Poiché il capitale non paga il lavoro adoperato, ma il valore della forza-lavoro usata, per esso l’uso delle macchine è limitato dalla differenza fra il valore della macchina e ii valore della forza-lavoro da essa sostituita. Il valore della forza-lavoro [<=] è determinato dal tempo di lavoro necessario non soltanto per mantenere il la­voratore singolo, ma anche da quello necessario per il mantenimento della sua famiglia. Le macchine, gettando sul mercato del lavoro tutti i membri della famiglia proletaria, distribuiscono su tutta la famiglia il valore della forza-lavoro dell’uomo, e quindi svalorizzano la forza-lavoro di quest’ultimo. Così le macchine allargano fin dal principio anche il grado di sfruttamento, assie­me al materiale umano da sfruttamento che è il più proprio campo di sfrutta­mento del capitale. Nei paesi di più antico sviluppo la macchina stessa produ­ce, per il suo uso in alcune branche d’industria, tale sovrabbondanza di lavoro in altre branche che la caduta del salario [<=] al disotto del valore della forza-lavoro impedisce l’uso delle macchine, e lo rende superfluo e spesso impossi­bile dal punto di vista del capitale, il guadagno del quale proviene di per sé dalla diminuzione non del lavoro adoprato ma da quella del lavoro pagato.

Il plusvalore non deriva dalle forze-lavoro sostituite dal capitalista con le macchine, bensì, viceversa, dalle forze-lavoro che egli impiega per il loro funzionamento. Il plusvalore nasce dalla parte variabile del capitale soltanto, e la massa del plusvalore è determinata da due fattori: ossia, dal tasso del plu­svalore e dal numero dei lavoratori impiegati simultaneamente. Data la dura­ta della giornata lavorativa, il tasso del plusvalore è determinato dalla propor­zione in cui la giornata lavorativa si scinde in lavoro necessario e in pluslavo­ro. Il numero dei lavoratori impiegati simultaneamente dipende a sua volta dalla proporzione in cui si trovano la parte variabile del capitale e quella co­stante. Ora è chiaro che l’industria meccanica, qualunque sia la misura in cui essa, mediante l’aumento della forza produttiva del lavoro, estenda il plusla­voro a spese del lavoro necessario, raggiunge questo risultato solo diminuen­do il numero dei lavoratori impiegati da un dato capitale. Essa trasforma una parte del capitale, che prima era variabile, ossia si trasformava in forza-lavoro viva, in macchinario, vale a dire in capitale costante che non produce plusvalore.

Ma le macchine producono plusvalore relativo non solo svalutando diretta­mente la forza-lavoro e riducendola più a buon mercato indirettamente, in quanto riducono più a buon mercato le merci che entrano nella sua riprodu­zione, ma anche trasformando, al momento della loro prima introduzione spo­radica, il lavoro impiegato dal possessore delle macchine in lavoro potenzia­to, aumentando il valore sociale del prodotto della macchine al di sopra del suo valore individuale e mettendo in tal modo il capitalista in grado di reinte­grare il valore giornaliero della forza-lavoro con una parte minore di valore del prodotto giornaliero. Le macchine riducono più a buon mercato e aumentano il prodotto nella bran­ca che conquistano e in un primo momento lasciano inalterata la massa di mezzi di sussistenza prodotta in altre branche dell’industria. Dunque la socie­tà possiede, prima e dopo la loro introduzione, altrettanti mezzi di sussistenza, o anche di più, per i lavoratori soppiantati. Ma l’assurdo dell’economia politica è questo: “I mezzi di sussistenza consumati precedentemente dai lavoratori licenziati continuano tuttavia a esistere e si trovano anche dopo sul mercato. D’altro lato si trova del pari sul mercato la loro manodopera. Dall’una parte, dunque mezzi di sussistenza (e perciò di pagamento) per lavoratori, capitale variabile in potenza, dall’altra lavoratori disoccupati. Esistono quindi i fon­di per metterli in movimento. E conseguentemente troveranno occupazione”: è mai possibile che si farfugli un nonsense tale da far rizzare i capelli?

Un risultato delle macchine è di ingrandire il plusvalore e insieme la massa di prodotti nella quale esso si presenta, e dunque di ingrandire, assieme alla so­stanza di cui si nutrono la classe dei capitalisti e le sue appendici, questi stessi strati della società. La crescente loro ricchezza e la diminuzione relativamente costante del numero dei lavoratori richiesti per la produzione dei mezzi di sussistenza di prima necessità, generano un nuovo bisogno di lusso e insieme nuovi mezzi per soddisfarlo. Una parte maggiore del prodotto sociale si tra­sforma in plusprodotto, e una parte maggiore del plusprodotto viene riprodot­ta e consumata in forme raffinate e variate. In altre parole: cresce la produzio­ne di lusso. La raffinatezza e la varietà dei prodotti deriva anche e nella stessa misura dalle nuove relazioni col mercato mondiale create dalla grande indu­stria. Lo straordinario aumento raggiunto dalla forza produttiva nelle sfere della grande industria, accompagnato com’è da un aumento, tanto in estensione che in intensità, dello sfruttamento della forza-lavoro in tutte le restanti sfere della produzione, permette di adoprare improduttivamente (cioè, come lavoro improduttivo [<=]) una parte sempre mag­giore della classe [<=] lavoratrice, e quindi di riprodurre specialmente gli antichi schiavi domestici sotto il nome di “classe dei servitori”, come domestici, ser­vi, lacchè, ecc. sempre più in massa. Che edificante risultato dello sfruttamen­to capitalistico delle macchine!

[k.m.]

(da Capitale, I.13,1-6, VI inedito, I.5,16, Teorie sul plusvalore, XVIII)

 

 

Male e bene

L’antitesi di male e bene si muove esclusivamente sul piano morale [<=]e quindi su un piano appartenente alla storia umana, e qui le verità di ultima istanza sono estremamente rare. Da popolo a popolo, da epoca a epoca, le idee di bene e di male si sono cambiate in tal misura da essere arrivate spesso addirittura a contraddirsi. Ma, qualcuno obietterà, pure il bene non è male e il male non è bene; se male e bene vengono confusi insieme, cessa ogni moralità e ciascuno può fare o non fare ciò che vuole. Ma, tuttavia, la cosa non si sbriga così facilmente. Se la cosa fosse così semplice, non ci sarebbe davvero nessuna disputa sul bene e sul male, ciascuno saprebbe che cosa è il bene e che cosa è il male. Ma come stanno oggi le cose? Quale morale ci si predica oggi? C’è anzitutto la morale cristiano-feudale, tramandata dai tempi passati della fede che, a sua volta, si divide in cattolica e protestante, e non ci mancano ancora altre suddivisioni, dalla gesuitica cattolica e dalla ortodossa protestante sino a una duttile morale illuminata. Accanto vi figura la morale borghese moderna e a sua volta, accanto a questa, la morale proletaria dell’avvenire, cosicché passato, presente e futuro, solo nei paesi più progrediti dell’Europa, offrono tre grandi gruppi di teorie morali che vigono contemporaneamente e l’una accanto all’altra. Ora, quale è la vera? Quanto a validità assoluta, nessuna singolarmente presa; ma certo sarà in possesso del maggior numero di elementi che promettono di essere duraturi, quella morale che rappresenta nel presente il rovesciamento del presente, il futuro, e quindi la morale proletaria.

Noi respingiamo ogni pretesa di imporci una qualsiasi dogmatica morale come legge etica eterna, definitiva, immutabile nell’avvenire, col pretesto che anche il mondo morale avrebbe i suoi princìpi permanenti, che stanno al di sopra della storia e delle differenze tra i popoli. Affermiamo per contro che ogni teoria morale sinora esistita è, in ultima analisi, il risultato della condizione economica della società di quel tempo. E come la società si è mossa sinora sul piano degli antagonismi di classe, così la morale è stata sempre una morale di classe [<=], o ha giustificato il dominio e gli interessi della classe dominante, o, diventata la classe oppressa sufficientemente forte, ha rappresentato la rivolta contro questo dominio e gli interessi futuri degli oppressi. Che così all’ingrosso si sia avuto un progresso tanto per la morale quanto per tutti gli altri rami della conoscenza umana, è cosa su cui non è possibile nessun dubbio. Ma non abbiamo ancora superato la morale di classe. Una morale che superi gli antagonismi delle classi e le loro sopravvivenze nel pensiero, una morale veramente umana è possibile solo a un livello sociale in cui gli antagonismi delle classi non solo siano superati, ma siano anche dimenticati per la prassi della vita.

[f.e.]

(da Anti-Dühring, I.IX)

 

 

Manifesto

(partito comunista)

Programma pratico e teorico, piattaforma politica commissionata dalla Lega dei comunisti tedeschi nel 1947 a Marx e Engels: tale programma, che si pro­poneva di gettare le basi per l’unità internazionale di un movimento operaio alla conquista della propria coscienza di classe [<=], va oltre le dinamiche storiche del secolo scorso, passando attraverso tutte le forme di lotta ancora da attuare. Nonostante la sua apparente semplicità, è opera di difficile comprensione perché presuppone già acquisite categorie e una concezione materialistica della storia, secondo cui “la storia di ogni società sinora esistita è storia di lot­te di classi”. Ne riproponiamo ai militanti una lettura, accompagnata da una falsariga per le riflessioni utili a contrastare oggi i risorgenti fascismi, confi­dando anche noi nello “sviluppo della classe operaia che [deve] necessaria­mente scaturire dall’azione comune e dalla discussione”, nel 1848 solo avvia­ta, e che va portata avanti da tutti coloro che si riconoscono nel dilagare mon­diale della subalternità salariata.

Il Manifesto è pertanto da riguardare come: a) documento storico della con­flittualità sociale storicamente determinata (nel 1848), b) sintesi di conoscen­za del reale e princìpi di teoria politica, c) progetto per l’azione storica futura, da sottoporre alla continua verifica del divenire delle trasformazioni materia­li. Ancora oggi, il testo propone come prioritario l’obiettivo di costituirsi qua­le canale soggettivo per l’attuazione oggettiva delle forme coscienziali e di lotta, sedimentatesi nelle fasi alterne delle vittorie e sconfitte di un secolo e mezzo, da rielaborare però alla luce dei risultati conseguiti. Oggi ancora, il Manifesto pone, accanto alla conquista teorica da parte dei comunisti (che, consapevoli, non hanno ceduto all’ideologia del “crollo del comunismo”, vec­chia quanto il comunismo [<=] stesso) dell’irriducibile verità del modo di produ­zione capitalistico, la necessità di renderla lotta vivente nel corpo in espansio­ne della proletarizzazione mondiale in atto. La chiarificazione teorica dell’obiettivo marxengelsiano, punto di partenza per l’autodeterminazione cosciente di chi vive la condizione materiale dell’oppressione di classe, ha come effetto – e non ne è il presupposto – di spazzare via ogni falsa coscienza (ideologie utopistiche, religiose, ecc.) che il sistema produce per occultare il cancro interno dello sfruttamento arbitrario e violento sul lavoro altrui.

Il Manifesto fa di tale chiarificazione: i) l’eviden­ziarsi del compiuto generarsi oggettivo, entro il sistema, del proletariato indu­striale della metà dell’800, in quanto classe autonoma, ma contemporanea­mente, anche, ii) la premessa di una lotta le cui determinazioni di classe van­no ricercate e ridefinite dalla classe stessa, entro le forme del dominio che il capitale va mutando nel corso del processo storico in fieri. I cenni di passaggio storico – a es., dal feudalesimo al capitalismo – sono deli­beratamente indicativi dell’intersezione inscindibile, ma non generica, dei di­versi piani dell’azione umana (economica, sociale, ideologica, giuridica, ecc.) nel tempo, esplicabili nella rappresentazione teorica che pone la centralità della categoria economica a rispecchiamento della gerarchia reale di quei di­versi piani delle società, basate sull’appropriazione del lavoro altrui. Inoltre, la verità nuda che il capitale svela rendendo superflui gli orpelli feudali, è la dissoluzione dialettica del superamento del modo di produzione feudale per l’affermarsi e generalizzarsi del lavoro salariato come nuova forma economi­ca dominata. Quella nudità però se tende a dare il disgusto della feudalità, rende impudicamente, epperò concretamente, visibile la categoria dell’utile nel capitale, costretto da se stesso al divoramento del mondo intero, ridotto a solo mercato [<=]. Questa verità capitalistica (che verrà continuamente soggetta a tutte le mistificazioni!), schiacciata sotto il peso della sua stessa ricchezza materiale, dovrà annullarla il nuovo superamento dialettico che nel ‘48 segna simbolicamente solo il suo atto di nascita. Superamento attuabile dalle “armi” del proletariato? Questa è l’indicazione nel Manifesto.

Le forme storiche reali della categoria aperta della proletariz­zazione mondiale, andranno individuate storicamente dalla coscienza comuni­sta emancipata – cioè dalla teoria scientifica – a partire da quella che fa capo ai nomi di Marx ed Engels. Invece di essere letto con gli occhi catturati solo dall’immediatezza degli eventi del ‘48, a mo’ di ricetta per ingessare la sto­ria, il Manifesto apre un orizzonte prospettico. La concisione espressiva è funzionale a incisività e ampliamento quantitativo dell’impegno politico pro­letario, cui è espressamente diretto, non certo alla “semplificazione” – di mo­da oggi – dell’inequivocabile dinamica storica che si proietta nel “proletari di tutti i paesi, unitevi!”. La borghesia produce proletari nella materialità delle condizioni produttive e tecnologiche che ne determinano l’asservimento sociale e politico. Il processo unitario, di concentrazione e organizzazione borghese richiede, la funzionalità e cioè subalternità proletaria agli obiettivi dominanti. La differenziazione ne­gativa da questi costituirà la crescita politica e umana del proletariato stesso. La maggioranza espropriata è posta come condizione oggettiva dinamica per la frantumazione del sistema borghese, mentre la condizione soggettiva (a es. “deve farla finita prima con la sua propria borghesia”) è inscritta nella proget­tualità di un dover essere, come destinazione e lotta. Implicita, quindi, la cor­ruzione della coscienza proletaria (le cui modalità appaiono oggi determinate e non terminate), a partire dall’inglobamento nel capitale della forza-lavoro e di tutte le sue rappresentazioni regolatrici [si pensi, in Italia, agli accordi di luglio 1993!].

La relazione tra proletari e comunisti è la relazione tra oggetto e soggetto, co­sciente. La coscienza qui è scienza del reale appropriata, per la conquista di un potere in quanto abolizione dei rapporti proprietari privati (borghesi), sto­ricamente determinati. Tale potere, inscritto nello sviluppo delle forze produt­tive scippate dal capitale e dalla sua organizzazione statale alla società, è il ri­sultato di un tendere soggettivato, impegno dei singoli espropriati, a restituire alla società stessa – di cui si riconoscono prodotto e attività rivoluzionaria – la ricchezza da lei prodotta nella forma storica epperò transeunte del capitale. Il lavoro vivo del proletariato continua ad aumentare lavoro morto, ora per ac­crescere il capitale, nel comunismo per accrescere la qualità della vita a van­taggio di tutta la società. Denunciare la falsa coscienza dell’utopismo o con­servatorismo socialista – delle armonizzazioni neocorporative [<=], diremmo noi oggi – e indicare concreti obiettivi rivoluzionari: questi i compiti della critica comunista rivolta alla propria organizzazione, soggetta anch’essa ai rovesci della lotta di classe.

L’analisi, poi, delle potenzialità rivoluzionarie indicate, che non si sono rea­lizzate storicamente, non deve indurre alla facile lettura dell’“errore” teorico per cui Marx è da buttare, o meglio “revisionare”. Si tratta invece della casua­lità storica (in cui agisce con esiti non necessari la lotta di classe [<=]), le cui ten­denze i rivoluzionari cercano di individuare per influenzarne il corso. Le sconfitte dànno conto dello sviluppo impraticabile delle contraddizioni epoca­li, per una conoscenza ex post, comunque preziosa, di quelle più progressive o soltanto più feconde per la transizione. Le condizioni oggettive dell’unifica­zione del mercato mondiale consentono oggi l’internazionalizzazione oggetti­va della classe proletarizzata in vaste articolazioni. La sua unione politica – in opposizione a tutte le differenze strumentali – è la grande potenzialità sogget­tiva che i comunisti devono ancora verificare, senza tentare scorciatoie inade­guate al percorso della storia. È questa sola – con la sua portata di soggettività emancipata – che deciderà quando segnare le ultime ore anche per i padroni. La sfida lanciata un secolo e mezzo fa nel Manifesto è ancora aperta. Lo con­ferma la fretta che i padroni hanno nel dichiararla chiusa, fin d’allora, da quando hanno cominciato a narrare la favola della “crisi del marxismo”, per minarne scientificità analitica e forza dissolutrice dei cardini dello sfrutta­mento.

[c.f.]

 

 

Manipolazione

(da Guantánamo alle barzellette in tv)

La tradizione ebraica conserva la ripugnanza a misurare un uomo col metro, poiché si misurano i morti – per la bara. È ciò di cui godono i manipolatori del corpo. Essi misurano l’altro, senza saperlo, con lo sguardo del costruttore di bare. Sono interessati alla malattia, spiano già, durante il pranzo, la morte del commensale, e il loro interesse per tutto ciò è razionalizzato solo fragilmente con la sollecitudine per la sua salute. Il linguaggio tiene il passo con loro. Esso ha risolto la passeggiata in movimento e il vitto in calorie, un po’ come la foresta viva si dice legno (bois, wood) nel francese e inglese corrente. La so­cietà riduce, col tasso di mortalità, la vita a un processo chimico.

Nella diabolica umiliazione dei prigionieri nei campi di concentramento, che il moderno carnefice aggiunge, senza motivo razionale, al martirio, esplode la rivolta non sublimata, e tuttavia rimossa, della natura proibita. Essa colpisce, in tutto il suo orrore, il martire dell’amore, il presunto criminale sessuale e libertino, poiché il sesso è il corpo non ridotto, l’espres­sione, ciò a cui essi, in segreto, anelano disperatamente. La vittima rappresenta per lui la vita che ha superato la scissione; essa dev’essere spezzata, e l’universo essere solo polvere e astratto potere.

I padroni fascisti di oggi [Reagan, Bush, Berlusconi, ...] non sono tanto superuomini quanto funzioni del loro stesso apparato pubblicitario, punti d’incrocio delle stesse reazioni di milioni. Se nella psicologia delle masse odierne il capo non rappresenta più tanto il padre quanto la proiezione collettiva e dilatata a dismisura del­l’io impotente di ogni singolo, le persone dei capi corrispondono effettivamente a questo modello. Non per nulla hanno l’aria di parrucchieri, attori di provincia e giornalisti da strapazzo. Una parte della loro influenza morale deriva proprio dal fatto che essi, come di per sé impotenti, e simili a chiunque altro, incarnano – in sostituzione e in rappresentanza di tutti – l’intera pienezza del potere, senza essere perciò nient’altro che gli spazi vuoti su cui il potere è venuto a posarsi. I capi sono diventati completamente ciò che erano già stati sempre, un poco, in tutto il corso della storia borghese: attori che recitano la parte di capi. Nella lotta contro il fascismo non è il compito meno importante quello di ridurre le immagini gonfiate dei capi alla misura della loro nullità. Almeno nella somiglianza fra il barbiere ebreo e il dittatore il film di Chaplin ha colto qualcosa di essenziale.

Il posto della scienza nella divisione sociale del lavoro [<=] è facilmente riconoscibile. Essa deve accumulare fatti e nessi funzionali di fatti nella massima quantità possibile. L’ordina­mento dev’essere chiaro e perspicuo, dovendo consentire alle singole industrie di trovare subito la merce intellettuale richiesta nell’as­sortimento voluto. La filosofia ufficiale serve alla scienza, deve contribuire, come una specie di taylorismo dello spirito, a migliorare i suoi metodi produttivi, a razionalizzare l’accumulazione delle conoscenze, a evitare lo spreco di energia intellettuale. Ha il suo posto nella divisione del lavoro come la chimica o la batteriologia. Sarchiano, dal terreno della scienza, la gramigna dialettica, che altrimenti potrebbe crescere alta.

In contrasto coi suoi amministratori, la filosofia rappresenta – fra le altre cose – il pensiero che non capitola di fronte alla vigente divisione del lavoro e non si lascia prescrivere da essa i propri compiti. L’esistente non costringe gli uomini solo con la violenza fisica e gli interessi materiali, ma anche con la strapotenza della suggestione. La filosofia non è sintesi, base o coronamento della scienza, ma lo sforzo di resistere alla suggestione, la decisione della libertà intellettuale e reale. La divisione del lavoro, come si è formata sotto il dominio, non viene per questo ignorata.

La filosofia non fa che penetrare la menzogna per cui sarebbe inevitabile. Non lasciandosi ipnotizzare dalla strapotenza che – per prima cosa – dev’essere compresa al di fuori del­l’incantesimo che esercita. Quando i funzionari, che l’industria mantiene nei suoi ressorts intellettuali, nelle università, nelle chiese e nei giornali, chiedono alla filosofia la tessera dei suoi principî, con cui essa legittima le sue ricerche, essa viene a trovarsi in un imbarazzo mortale. Essa non riconosce norme o fini astratti, che si presterebbero ad applicazione in contrasto coi fini e con le norme vigenti. La sua libertà dalla suggestione dell’esi­stente consiste proprio in ciò, che essa accetta gli ideali borghesi: quelli che sono ancora proclamati – e sia pure in forma alterata – dagli esponenti dell’attuale stato di cose, o quelli che sono ancora riconoscibili come significato oggettivo delle istituzioni, tecniche e culturali, a dispetto di ogni manipolazione. Essa crede che la divisione del lavoro esiste per gli uomini e che il progresso conduce alla libertà: e proprio per questo entra facilmente in conflitto con la divisione del lavoro e col progresso. Essa presta una voce alla contraddizione di credenza e realtà e si attiene così strettamente al fenomeno temporalmente condizionato. Per essa il massacro su scala colossale non conta, come per il giornale [o la tv], più della liquidazione di alcuni ricoverati. Essa non antepone l’intrigo dell’uo­mo politico che si mette d’accordo coi fascisti a un modesto linciaggio, i turbini di réclame dell’industria cinematografica all’intimo annuncio di un cimitero. Non ha nessuna particolare inclinazione per ciò che è “grande”. Essa è ad un tempo estranea al­l’esistente e capace di comprenderlo intimamente. La sua voce appartiene all’oggetto, ma senza che questo lo voglia; è la voce della contraddizione, che, senza di essa, non si farebbe udire, ma trionferebbe muta.

Per il consumatore non rimane più nulla da classificare che non sia già stato anticipato nello schematismo della produzione. Non solo i tipi di ballabili, divi, [tele o] radiodrammi ritornano ciclicamente come entità invariabili, ma il contenuto specifico dello spettacolo, ciò che apparentemente muta, è in realtà dedotto da quelli. I particolari diventano fungibili. Clichés bell’e pronti si possono impiegare a piacere qua o là, sono interamente definiti, ogni volta, dallo scopo che assolvono nello schema complessivo. Confermarlo, mentre lo compongono, è tutta la loro vitalità.

Si può sempre capire subito, in un film, come andrà a finire, chi sarà ricompensato, punito o dimenticato; per non parlare della musica leggera, dove l’orecchio esercitato può indovinare la continuazione fin dalle prime battute del motivo e provare un senso di felicità quando arriva effettivamente. Il numero medio di parole della short story è quello e non si può toccare. Anche le gags, gli effetti e le battute sono calcolati come l’im­pal­catura in cui si situano. Vengono amministrati da esperti speciali, e la loro limitata varietà si lascia ripartire, in linea di massima, nell’ufficio. L’in­dustria culturale si è sviluppata insieme al primato dell’effetto, della trovata, dell’exploit concreto e tangibile, del particolare tecnico, sull’ope­ra nel suo insieme, che, un tempo, era la portatrice dell’idea ed è stata liquidata insieme con essa.

Sotto il monopolio [<=] privato della cultura accade realmente che “la tirannide lascia libero il corpo e investe direttamente l’anima.”. Chi non si adegua è colpito da un’impotenza economica che si prolunga nel­l’impo­tenza intellettuale dell’isolato. Una volta escluso dal giro, è facile convincerlo d’insufficienza. L’in­dustria culturale rimane pur sempre l’indu­stria del divertimento. Il suo potere di disposizione e di controllo sui consumatori è mediato dall’amusement: il prolungamento del lavoro nell’epo­ca del tardo capitalismo. La meccanizzazione ha acquistato un potere così grande sull’uomo che utilizza il suo tempo libero e sulla sua felicità, che egli non è più in grado di apprendere e di sperimentare altro che le copie e le riproduzioni dello stesso processo lavorativo. Ciò che si imprime realmente negli animi è una sequenza automatizzata di operazioni prescritte. Al processo lavorativo nella fabbrica e nell’ufficio si può sfuggire solo adeguandosi ad esso nell’ozio.

Il piacere del divertimento si irrigidisce in noia, poiché, per poter restare piacere, non deve costare altri sforzi, e deve quindi muoversi strettamente nei binari delle associazioni consuete. Lo spettatore non deve lavorare di testa propria; il prodotto gli prescrive ogni reazione: non in virtù del suo contesto oggettivo (che si squaglia, appena si rivolge alla facoltà pensante), ma attraverso una successione di segnali. O­gni connessione logica, che richieda, per essere afferrata, un certo respiro intellettuale, è scrupolosamente evitata.

[m.h. - t.a.]

(da Max Horkheimer - Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, 1947)

 

 

Materie prime

(imperialismo, monopoli)

La caratteristica fondamentale del modernissimo capitalismo è costituita dal dominio delle leghe monopolistiche dei grandi imprenditori. Tali monopoli sono specialmente solidi allorché tutte le sorgenti di materie prime passano nelle stesse mani. Abbiamo visto lo zelo con cui le leghe internazionali dei capitalisti si sforzano, a più non posso, di strappare agli avversari ogni possibilità di concorrenza, di accaparrare le miniere di ferro e le sorgenti di petrolio, ecc.

Soltanto il possesso coloniale assicura al monopolio, in modo assoluto, il successo contro ogni eventualità nella lotta con l’avversario, perfino contro la possibilità che l’avversario si trinceri dietro qualche legge di monopolio statale. Quanto più il capitalismo è sviluppato, quanto più la scarsità di materie prime è sensibile, quanto più acuta è in tutto il mondo la caccia alle sorgenti di materie prime, tanto più disperata è la lotta per la conquista delle colonie.

Senza dubbio i riformisti borghesi, e fra di essi in primo luogo i kautskiani di oggi, tentano di svalutare l’impor­tanza di questi fatti rilevando che “si potrebbero” avere le materie prime sul libero mercato senza la “costosa e pericolosa” politica coloniale, e che “si potrebbe” aumentare immensamente l’offerta di materie prime con il “semplice” miglioramento dell’a­gricoltura in generale. Ma simili rilievi, ben presto, non diventano altro che panegirici e imbellettamenti del­l’imperialismo, giacché essi sono possibili in quanto non tengono conto della più importante caratteristica del capitalismo moderno: i monopoli.

Il libero mercato appartiene sempre più al passato, ed è sempre più ridotto dai sindacati e dai trust monopolistici, mentre il “semplice” miglioramento dell’agricoltura richiede che siano migliorate le condizioni delle masse, elevati i salari e ridotti i profitti. Dove esistono, fuori che nella fantasia dei soavi riformisti, trust capaci di curarsi della situazione delle masse, anziché di conquistare colonie?

Per il capitale finanziario sono importanti non solo le sorgenti di materie prime già scoperte, ma anche quelle eventualmente ancora da scoprire, giacché ai nostri giorni la tecnica fa progressi vertiginosi, e terreni oggi inutilizzabili possono domani essere messi in valore, appena siano stati trovati nuovi metodi (e a tal fine la grande banca può allestire speciali spedizioni di ingegneri, agronomi, ecc.) e non appena siano stati impiegati più forti capitali. Lo stesso si può dire delle esplorazioni in cerca di nuove ricchezze minerarie, della scoperta di nuovi metodi di lavorazione e di utilizzazione di questa o quella materia prima, ecc. Da ciò nasce inevitabilmente la tendenza del capitale finanziario ad allargare il proprio territorio economico, e anche il proprio territorio in generale.

Nello stesso modo che i trust capitalizzano la loro proprietà valutandola due o tre volte al di sopra del vero, giacché fanno assegnamento sui profitti “possibili” (ma non reali) del futuro e sugli ulteriori risultati del monopolio, così il capitale finanziario, in generale, si sforza di arraffare quanto più territorio è possibile, comunque e dovunque, in cerca soltanto di possibili sorgenti di materie prime, con la paura di rimanere indietro nella lotta furiosa per l’ultimo lembo della sfera terrestre non ancora diviso, per una nuova spartizione dei territori già divisi.                                                                                                                              [v.l.]

 

 

Mediazione

Nel linguaggio [<=] corrente, per mediazione si intende l’attività svolta al fine di far concludere un affare in maniera conveniente alle varie parti in causa. Este­so dal campo degli affari a quello politico-sindacale, il termine mediazione viene usato sia per l’attività lobbistica, clientelare e mafiosa, tesa al procac­ciamento di posti, nomine, incarichi e appalti (più o meno “tangenziali”), sia per il sotterraneo lavorìo che conduce a compromessi, variamente sordidi e di basso livello storico, prevalentemente conclusi passando sopra la testa di co­loro che sono i reali interessati. Un cospicuo esempio abbastanza recente di “mediazio­ne”, in questo senso volgare ed errato, è offerto dall’ultimatum di Ciampi (quando era ministro del tesoro) per addivenire al “miracoloso” accordo sul costo del lavoro tra gli altri due angoli della triade neocorporativa [<=], padroni e sindacato. Ma lì, appunto, non vi era più nulla da “mediare”, essendo il protocollo governativo del luglio 1993 già il risultato reite­rato di lunghi anni di una gestazione, ben altrimenti mediata, che appare quale espressione di identità raggiunta.

Pur sapendo da Lenin che il “compromesso” in politica può rappresentare (in particolari e limitate circostanze di stallo nella lotta di classe [<=]) una scelta sag­gia, la giusta e dura critica comunista [<=] all’accezio­ne volgare di compromesso – inteso piuttosto quale svendita o liquidazione, come esso è praticato da rifor­mismo, revisionismo, opportunismo e ogni altra sorta di perdita di principî, che l’hanno rabbassato a mero cedimento al dominio borghese (al punto da “destreggiarsi” nell’appoggio a “sinistri” candidati ai posti di sceriffo-sindaco e quant’altro uninominalmente vada diffondendosi) – ha condotto però spesso alla posizione estremamente infantile di non comprendere l’azione rivoluzio­naria [<=], in quanto relazione di diversi, come un lungo processo storico che, pro­prio per ciò, richiede mediazioni.

Per parafrasare Hegel, si può dire che essa – in quanto espressione di un “sa­pere” di massa – è quindi mediata in quanto “assoluta verità della coscienza [<=]”. D’altronde – diceva il vecchio – “non v’ha nulla, nulla né in cielo né nella na­tura né nello spirito né dovunque si voglia, che non contenga tanto l’immedia­tezza quanto la mediazione, cosicché queste due determinazioni si mostrano come inseparate e inseparabili”. Tale concetto di mediazione, pertanto – lungi dal rappresentare una perdita del carattere di classe [<=] e della corrispondente capacità autonoma di lotta – non rappresenta altro che lo sviluppo della conoscenza scientifica, da parte del proletariato comunista, dello stato delle contraddizioni e della trasformazione dei rapporti di forza [<=] tra le classi ed entro le classi [<=]. È dunque la conoscenza del­le condizioni oggettive e soggettive della dinamica del processo, prima che della morta forma del risultato, che può imporre da un lato, e suggerire dall’altro, nella prassi rivoluzionaria l’esperimento di numerosi termini medi – “mediazioni”, appunto – capaci di accompagnare la trasformazione storica in corso.

[gf.p.]

 

 

Mercato

L’espressione economia di mercato trova un uso generalizzato nel gergo gior­nalistico e in quello politico come sinonimo di economia capitalistica. Tutta­via proprio quest’uso è fonte di grande mistificazione. Utilizzare così questa categoria significa fermarsi all’apparenza dei fenomeni economici in una so­cietà capitalistica. Non a caso Marx inizia il Capitale con queste parole: “La ricchezza delle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce”. Quello che è il punto d’inizio dell’analisi marxiana è il punto fi­nale cui giunge l’economia politica moderna, espressa nel senso comune dall’uso della categoria economia di mercato al posto di modo di produzione capitalistico.

La mistificazione risiede nel fatto che così scompaiono le differenze specifi­che fra le diverse forme ed epoche della produzione sociale. Anzi scompare ancora prima la percezione della produzione, come elemento centrale per de­finire una forma sociale. Se per economia di mercato si intende una economia in cui le merci vengono scambiate tramite il denaro, gli unici attori sociali economicamente rilevanti rimangono i venditori e i compratori. Si cerca così di as­solutizzare la superficiale impressione che il momento dello scambio delle merci sia quello socialmente centrale, e che la finalità dominante della società sia quella del consumo. Da qui deriva l’enfasi sulla figura del consumatore come “sovrano” del mercato. Naturalmente i consumatori (come i cittadini) fra loro sono tutti eguali (se non per il trascurabile particolare che la quantità di denaro a loro disposizione non è la stessa!). Tutto ciò significa che la produzione di merce [<=], che pure è necessaria affinché ci sia qualcosa da scambiare, non viene indagata. Si insinua, subdolamente, la falsa rappresentazione che si tratti di una produzione semplice di merci.

Que­sta forma di produzione è quella che storicamente precede quella capitalisti­ca: riguarda la produzione artigiana e del contadino indipendente. In essa il carattere fondamentale è la produzione di valori d’uso (oggetti utili) per altri, a cui vengono venduti mediante uno scambio. Ora questa caratteristica per­mane certamente nella produzione capitalistica, ma ad essa si aggiunge l’ac­quisto della merce forza-lavoro [<=] sul mercato, dal cui uso, all’interno della pro­duzione, si trae un profitto. Se si omettono queste differenze specificamente capitalistiche, si usa una categoria comune (“economia di mercato”) alla pro­duzione artigiana ed agricola delle antiche nazioni commerciali, alle piccole attività artigiane odierne, alla produzione in una società socialista (dove la produzione di merci “semplici” permane, sia pure a uno stadio più elevato). Appare evidente che una tale generi­cità mal si presta a definire la società capitalistica in cui viviamo. Tuttavia il suo uso specifico nel caso dei paesi ex socialisti è estremamente istruttivo. Per i capitalisti queste società per diventare “libere economie di mercato” deb­bono soddisfare alcuni requisiti fondamentali: creare un libero (con libertà di licenziamento) mercato del lavoro, ripristinare la libertà d’impresa (ossia ac­quistare e usare mezzi di produzione e forza-lavoro), e consentire all’impren­ditore la libera appropriazione del “suo” frutto (i profitti). Quindi si fa uso di una categoria impropria – libertà [<=] del mercatoper occultare i caratteri specifici, propri, della produ­zione capitalistica.

Ci sembra che lo scopo fondamentale di questa operazione sia quello di na­scondere alla coscienza collettiva [<=], dei venditori di forza-lavoro che debbono subirne gli effetti deleteri, i reali connotati della società in cui si trovano a vivere e lavo­rare. Se essi sono in possesso di quella particolare merce (la forza-lavoro ap­punto) che debbono vendere, per poter acquistare le merci necessarie a so­pravvivere, sono anch’essi attori del mercato (venditori e consumatori come tutti gli altri). Il fatto che la merce che loro vendono sia del tutto particolare (ovvero fonte del profitto) viene completamente oscurato. Ma ancora più gra­ve è il fatto che tale oscurità avvolga la coscienza [<=] di coloro, come gli espo­nenti politici dell'’asinistra democratica”, che si candidano a rappresentare gli interessi dei lavoratori. Infatti le loro ripetute professioni di fede nell’econo­mia del libero mercato appaiono, nelle intenzioni, un puerile tentativo di in­graziarsi il favore dei capitalisti, tentativo lungamente perseguito dal sociali­smo utopistico ottocentesco e poi dalla socialdemocrazia novecentesca con scarso successo. Mentre, nella realtà, non sono altro che espressione della su­balternità culturale, e quindi anche di linguaggio [<=], alla borghesia capitalistica. In­fatti è un mistero come si possa modificare una realtà sociale che non si rie­sce neanche più a capire, a meno che non la si voglia conservare accontentan­dosi di qualche superficiale intervento “estetico”.

[o.l.]

 

 

Mercato mondiale # 1

(scambio ineguale)

La ripartizione del plusvalore [<=], e il movimento della circolazione [<=] mediante il quale essa si compie, oscurano la forma fondamentale semplice del processo di accumulazione. Per analizzare quest’ultimo con esattezza è necessario prescindere, provvisoriamente, da tutti quei fenomeni che occultano il funzionamento interiore di codesto movimento. La grandezza del plusvalore limita la somma delle parti in cui esso si può suddividere, e che è già data prima di questa suddivisione. Ma il fatto che non vi sia qui un limite determinato e regolato da leggi per la ripartizione del profitto medio non sopprime il suo limite. Quando una merce è venduta sopra o sotto il suo valore, ne risulta soltanto una diversa ripartizione del plusvalore. Come questa ripartizione avvenga, è una questione in sé e per sé puramente empirica, che appartiene al regno della casualità, come la ripartizione in parti disuguali delle percentuali del profitto comune di un’impresa tra i diversi soci, in conseguenza di varie circostanze esterne: ciò non esercita nessuna influenza sui limiti di questo profitto. Nell’effettivo processo di circolazione le trasformazioni coincidono con l’effettiva concorrenza, con lo scambio delle merci sopra e sotto il loro valore, sicché per il singolo capitalista il plusvalore da esso personalmente realizzato dipende non meno che dal vicendevole raggiro che dal diretto sfruttamento del lavoro.

La rendita (o il plusprofitto) di monopolio deve costituire sempre, sia pure indirettamente, ameno una parte del plusvalore di altre merci che vengono scambiate con quella merce che ha un prezzo di monopolio. Il tasso del profitto aumenta, sia se la merce venduta al di sotto del suo valore costituisce un elemento del capitale costante, sia se entra come articolo del consumo individuale, nella parte del valore che è consumata come reddito. Dal fatto che il profitto può stare al di sotto del plusvalore – cioè che il capitale può scambiarsi con profitto senza valorizzarsi in senso stretto – consegue che non soltanto i capitalisti individuali, ma intere nazioni, possono continuamente scambiare reciprocamente, persino ripetere continuamente lo scambio su scala sempre più vasta, senza per questo trarne un profitto uniforme. Una nazione può costantemente appropriarsi di una parte del pluslavoro dell’altra senza dar nulla in cambio, anche se non nella stessa misura dello scambio tra capitalista e lavoratore.

Il capitale commerciale non crea né valore né plusvalore, ma è unicamente il mezzo che permette la loro realizzazione. Abbiamo a che fare con un capitale che partecipa al profitto senza partecipare alla sua produzione. Perciò, poiché il capitale commerciale stesso non produce plusvalore alcuno, è chiaro che il plusvalore a esso attribuito, sotto la forma di profitto medio, costituisce una parte del plusvalore creato dal capitale produttivo complessivo. Tuttavia, poiché la fase della circolazione del capitale industriale costituisce, precisamente come la produzione, una fase del processo di riproduzione, il capitale che funziona autonomamente nel processo di circolazione deve dare un profitto: qualora esso fosse superiore a quello del capitale industriale, una parte di quest’ultimo si trasformerebbe in capitale commerciale. Nessun capitale incontra minori difficoltà del capitale commerciale a mutare la sua destinazione.

Le spese di circolazione si presentano in parte come spese che provengono da altri agenti di circolazione, in parte come spese che sono inerenti alla specifica attività. Qualunque possa essere la natura di queste spese di circolazione (pura attività commerciale, somme che provengono dai processi di produzione complementari, ecc.) esse presuppongono sempre un capitale supplementare anticipato nell’acquisto di tali mezzi. Questo elemento di costo entra interamente come elemento addizionale, ma solo come un elemento che costituisce un valore nominale, poiché esso non costituisce alcuna effettiva aggiunta di valore alla merce. Tutto questo capitale supplementare entra nella formazione del tasso generale del profitto.

Il tempo di lavoro, che queste operazioni richiedono, viene impiegato in operazioni necessarie nel processo di riproduzione del capitale, ma non aggiunge valore alcuno. Per quanto riguarda il capitale complessivo sociale ciò significa in realtà che una parte di questo capitale viene richiesta per operazioni secondarie che non entrano nel processo di valorizzazione, e che questa parte del capitale sociale deve di continuo essere riprodotta a tal fine. Il prolungamento dell’operazione di circolazione rappresenta una perdita di tempo per il capitalista industriale. Per il capitalista individuale e per tutta la classe [<=] dei capitalisti industriali ne risulta una diminuzione di profitto, che si verifica a ogni aggiunta di capitale addizionale.

La massa del profitto dipende anche dalla massa di capitale impiegata nella circolazione, ed è tanto maggiore quanto maggiore è il lavoro non pagato dei suoi salariati. Come il lavoro non pagato degli operai crea direttamente plusvalore per il capitale produttivo [<=], così il lavoro non pagato dei lavoratori del commercio procura al capitale commerciale una partecipazione a quel plusvalore, ed è quindi la fonte del profitto di quest’ultimo.

A misura che la scala della produzione si allarga, si accrescono le operazioni che devono di continuo venire eseguite per la circolazione del capitale industriale. È necessario per questo impiegare lavoratori che costituiscono l’ufficio vero e proprio, classe di salariati meglio pagati, il cui lavoro è qualificato, superiore al lavoro medio; ma a parte alcune eccezioni, la forza-lavoro di queste persone si deprezza con il procedere della produzione capitalistica: il loro salario diminuisce mentre il loro rendimento si accresce. L’aumento di questo lavoro è sempre la conseguenza, mai la causa dell’aumento del plusvalore. Tali lavoratori rendono, non perché producano direttamente plusvalore, ma perché contribuiscono a diminuire le spese della realizzazione del plusvalore, nella misura in cui compiano un lavoro in parte non pagato.

La spesa che la loro remunerazione implica, quantunque fatta nella forma di salario [<=], si distingue dal capitale variabile che viene sborsato per l’acquisto di lavoro produttivo. Essa, infatti, aumenta le spese dei capitalisti industriali, la massa del capitale da anticipare, senza accrescere direttamente il plusvalore. È infatti spesa fatta per pagare lavoro che viene unicamente impiegato nella realizzazione di valore già creato. Come qualsiasi altra spesa, anche questa diminuisce il tasso di profitto, in quanto il capitale anticipato (denominatore) aumenta, ma non il plusvalore (numeratore). Il capitalista industriale cerca quindi di ridurre al minimo queste spese. [Esse dànno luogo a una specie di divisione del lavoro; in quale misura presuppongano il profitto, si vede tra l’altro dal fatto che spesso una parte di questi salari, col loro accrescersi, viene pagata con percentuali sul profitto].

Il livellamento del tasso di plusvalore viene ostacolato da molteplici attriti locali, pur se esso si viene sempre più attuando col procedere della produzione capitalistica e con la subordinazione a essa di tutti i rapporti economici. È necessario esaminare anzitutto la diversità tra i tassi nazionali di plusvalore, e quindi del grado di sfruttamento del lavoro; successivamente, su queste basi, paragonare la differenza dei tassi nazionali del profitto.

I capitali investiti all’estero possono offrire un tasso di profitto più elevato soprattutto perché in tal caso fanno concorrenza a merci che vengono prodotte da altri paesi a condizioni meno favorevoli: il lavoro che non è pagato come lavoro di qualità superiore viene invece venduto come tale e sfruttato più intensamente. Il paese maggiormente favorito riceve una quantità di lavoro superiore, nonostante che questa differenza, come del resto avviene in ogni scambio tra lavoro e capitale, vada a vantaggio solo di una determinata classe. In quanto, dunque, il tasso del profitto è più elevato, esso può accompagnarsi a un livello inferiore dei prezzi.

La caduta tendenziale del tasso di profitto è collegata con un aumento tendenziale del tasso di plusvalore, ossia del grado di sfruttamento del lavoro: tali tendenze non sono che forme particolari dell’espressione capitalistica della crescente produttività [<=] del lavoro. È un punto di vista puramente nazionale, nonostante le variazioni del corso dei cambi, chiudere risolutamente gli occhi davanti al fatto che, se la banca del paese egemone in periodi di crisi [<=] eleva il tasso di interesse, tutte le banche degli altri paesi fanno lo stesso: e il grido d’allarme viene lanciato in Europa, domani risuona in America e dopodomani altrove.

Il paese più ricco si procura ossigeno facendo appello alla bancarotta contro i suoi concorrenti. Per quanto riguarda l’importazione e l’esportazione, si deve notare che in tutti i paesi, che vengono coinvolti uno dopo l’altro nella crisi generale, vi è stata una sovraimportazione e una sovraesportazione, ossia una sovraproduzione [<=] stimolata dal credito. Per ognuno di essi i prezzi erano esageratamente elevati e il credito aveva avuto un’espansione troppo forte. E lo stesso collasso colpisce tutti. Questo deflusso valutario è semplicemente un fenomeno, non la causa della crisi; l’ordine di successione in cui tutti i paesi vengono colpiti indica semplicemente quando è venuto per essi il loro turno di essere coinvolti nella crisi, il momento della resa finale dei conti.

Che il denaro funzioni come mezzo di circolazione o come mezzo di pagamento dipende dalla forma dello scambio delle merci. Ma è indifferente il carattere del processo di produzione da cui esse provengono; come merci [<=] esse operano sul mercato, come merci esse entrano sia nel ciclo del capitale industriale, sia nella circolazione del plusvalore in esso contenuto: è dunque il carattere onnilaterale della loro origine, l’esistenza del mercato come mercato mondiale che contrassegna il processo di circolazione del capitale industriale. Ciò che vale per le merci straniere vale per il denaro straniero; come il capitale-merce di fronte a esso opera solo come merce, così di fronte a quello questo denaro opera solo come denaro; il denaro qui opera come moneta mondiale [<=]. È una questione di denaro, non di mezzo di circolazione, e nemmeno di capitale, poiché ciò che è richiesto non è il capitale, che è indifferente alla forma particolare in cui esiste, bensì il valore nella forma specifica di denaro.

Una parte determinata di capitale deve sempre trovarsi sotto forma di capitale monetario [<=] potenziale, ossia sotto forma di riserve di mezzi d’acquisto, riserve di mezzi di pagamento, capitale monetario non impiegato in attesa di investimento. Il continuo movimento della parte del capitale che esiste come denaro, ma è separato dalla funzione stessa di capitale, dà luogo a lavoro speciale e a spese corrispondenti – funzioni eseguite a favore di tutta la classe capitalistica da una categoria di agenti o di capitalisti che ne fanno la loro operazione esclusiva, ossia le concentrano nelle loro mani.

Sono gli scambi internazionali che hanno in un primo tempo sviluppato il “commercio di denaro”, costringendo chi acquista in paesi stranieri a convertire la moneta dei loro paesi in moneta locale e viceversa, oppure in moneta mondiale. Di qui ha origine l’attività del cambio, che deve essere considerato come uno dei fondamenti “naturali” del commercio moderno di denaro. Diventando moneta mondiale, la moneta nazionale perde il suo carattere locale. [Il fluire e rifluire del denaro da una sfera di circolazione nazionale [<=] a un’altra sono causati unicamente dalla svalutazione della moneta nazionale, sono estranei alla circolazione del denaro in quanto tale, e rappresentano una semplice correzione “spontanea” di deformazioni volute per “ragioni di stato”].

Con la formazione necessaria del credito, come mezzo per attuare il livellamento del tasso di profitto, uno dei principali costi di circolazione – rappresentato dal denaro stesso – viene economizzato (d’altro lato, il credito permette di distanziare ancora di più le operazioni di acquisto e vendita, e serve quindi di base alla speculazione [<=]). In un sistema di produzione in cui tutto il meccanismo del processo di produzione riposa sul credito, deve evidentemente prodursi una crisi. A prima vista sembra quindi che la crisi, nel suo complesso, sia una crisi creditizia e monetaria, trattandosi della convertibilità dei titoli in denaro. Se, per la maggior parte, i titoli rappresentano acquisti e vendite reali, esse hanno tuttavia assunto un’estensione di gran lunga superiore al bisogno sociale e sono in definitiva la base di tutta la crisi.

Una massa enorme di questi titoli rappresenta soltanto affari truffaldini che vengono ora finalmente a galla e scoppiano, o rappresentano speculazioni fatte con capitali altrui e non riuscite, o ancòra capitali-merce deprezzati e del tutto invendibili, oppure riflussi che non possono più attuarsi. In quanto questi titoli obbligazionari circolano in borsa come capitale monetario, il loro prezzo diminuisce con l’aumento dell’interesse [<=] monetario; esso diminuisce inoltre a causa della mancanza generale di credito, che costringe il loro proprietario a svenderli in massa sul mercato per procurarsi denaro. Per le azioni, questo prezzo diminuisce, in parte a causa della riduzione del loro rendimento, in parte perché le imprese che esse rappresentano hanno troppo spesso carattere fittizio. Tutto questo sistema artificiale di ampliamento del processo di riproduzione non può naturalmente essere risanato per il fatto che una banca fornisca in “carta” a tutti gli speculatori il capitale che fa loro difetto. Del resto qui si presenta tutto deformato, perché in questo “mondo di carta” non appaiono mai il prezzo reale e i suoi reali elementi, ma soltanto denaro sonante, valute, banconote, titoli, ecc. Questa deformazione è soprattutto visibile in quei centri in cui confluiscono tutte le operazioni finanziarie, cosicché il processo nel suo insieme sfugge alla comprensione, ed è meno sensibile invece nei centri di produzione.

Fin dall’inizio le grandi banche, agghindate di denominazioni nazionali, non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipar loro denaro. Non bastava che la banca desse con una mano per aver restituito di più con l’altra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione fino all’ultimo centesimo che aveva dato: ciò dimostra che effetto facesse l’improvviso emergere di quella genìa di bancocrati, finanzieri, redditieri, mediatori, agenti di cambio e lupi di borsa.

Molto divertente è vedere come queste persone considerino in realtà il denaro pubblico come loro proprietà, e credano di avere diritto alla costante convertibilità dei titoli da essi posseduti: è còmpito del legislatore e della banca centrale – essi dicono – far sì che tali titoli siano sempre convertibili, eliminare per legge la possibilità che essi possano diventare inconvertibili. Può accadere che un qualsiasi singolo capitalista possa ritirare dalla circolazione diversi miliardi in titoli e sottrarre così il denaro al mercato, “creando un imbarazzo di estrema gravità”!

Con i debiti pubblici [<=] è sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde una delle fonti dell’accumulazione di questo o quel popolo. Parecchi capitali che oggi si presentano negli Usa senza fede di nascita sono sangue di bambini che solo ieri è stato capitalizzato altrove. Il sovraccarico d’imposte non è un incidente, ma anzi è il principio.

Il sistema protezionistico è stato un espediente per fabbricare fabbricanti, per espropriare lavoratori indipendenti, per capitalizzare i mezzi di produzione e di sussistenza, per abbreviare con la forza il trapasso dal modo di produzione antico a quello moderno. Sistema coloniale, debito pubblico, peso fiscale, protezionismo, guerre commerciali, ecc., tutti questi rampolli del periodo della manifattura crescono come giganti nel periodo d’infanzia della grande industria. 

[k.m.]

(le pagine di Marx sono tratte soprattutto dal Capitale e alcune dai Lineamenti; specificamente: KI. 13,7; 20; 24,6; 25 – K.II. 4; 14 – K.III 2; 5; 8; 14; 17; 19; 20; 22; 27; 30; 33; 38; 41; 49; 50; 51 – LF.VII,59ss.)

 

 

Mercato mondiale # 2

(contraddizioni interimperialistiche)

Nella società capitalistica la guerra [<=] non è altro che uno dei metodi della concorrenza [<=] capitalista, quale si e­splica sul piano dell’economia mondiale. Perciò, la guerra è una legge immanente di una società che produce sotto la pressione delle cieche regole di un mercato mondiale dallo sviluppo caotico, e non di una società che disciplini coscientemente il processo di produzione e di scambio.

Internazionalizzazione della vita e­conomica non significa internazionalizzazione degli interessi capitalistici. L’internazionalizzazione della vita economica può inasprire, e inasprisce difatti al massimo grado, l’antagoni­smo esistente tra gli interessi dei vari gruppi “nazionali” della borghesia [<=]. Il vero è che lo sviluppo degli scambi commerciali internazionali non implica affatto un rafforzamento della “solidarietà” tra i gruppi che vi sono interessati: al contrario, può essere accompagnato da una esasperazione della concorrenza, da una lotta per la vita o la morte.

Lo stesso si può dire dell’esporta­zione del capitale [<=]. Anche in questo campo, non si ha sempre una “coinci­denza di interessi”: anzi, la concorrenza per la conquista di aree di investimento del capitale può diventare estremamente acuta. Solo in un caso si può parlare, con certezza, di solidarietà di interessi: nel caso, cioè, di una compartecipazione o cofinanziamento, ossia quando si costituisce una proprietà [<=] collettiva di capitalisti di vari paesi su uno stesso oggetto, grazie al possesso comune di titoli azionari. In tal caso si forma una vera e propria “Internazionale dell’Oro”, dove non c’è solo dell’affinità, ma addirittura una identità di interessi. Però, accanto a questo processo, lo sviluppo economico crea automaticamente anche una tendenza, inversa, alla nazionalizzazione degli interessi capitalistici, e l’intera società umana, sotto il pesante giogo del capitale mondiale, paga a questa contraddizione il suo tributo di inauditi tormen­ti, di sangue e di vergogna.           

[n.b.]

(da Imperialismo ed economia mondiale)

 

 

Merce

“La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione ca­pitalistico si presenta come una immane raccolta di merci e la merce singo­la si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce. La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, p. es. il fatto che essi provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia non cambia nulla. Il corpo della merce stesso, come il ferro, il grano, il diamante, ecc., è quindi un valore d’uso, ossia un bene. I valori d’uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, qua­lunque sia la forma sociale di questa. Nella forma di società che noi dobbia­mo considerare, i valori d’uso costituiscono insieme i depositari materiali del valore di scambio. Ma, se si prescinde dal valore d’uso dei corpi delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro. Non è rimasto nulla di questi all’infuori di una medesima spettrale oggettività, d’una semplice concrezione di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di forza lavorativa umana senza riguardo alla forma del suo dispendio. Queste cose rappresentano ormai soltanto il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza-lavoro umana, è accumulato lavoro umano. Come cristalli di questa so­stanza sociale ad esse comune, esse sono valori, valori di merci.

Una cosa può essere valore d’uso senza essere valore. Il caso si verifica quando la sua utili­tà per l’uomo non è ottenuta mediante il lavoro: aria, terreno vergine, praterie naturali, legna di boschi incolti, ecc. Una cosa può essere utile e può essere prodotto di lavoro umano senza essere merce. Chi soddisfa con la propria pro­duzione il proprio bisogno, crea sì valore d’uso, ma non merce. Per produrre merce, deve produrre non solo valore d’uso, ma valore d’uso per altri, valore d’uso sociale. E non solo per altri semplicemente. Per divenire merce il pro­dotto deve essere trasmesso all’altro, a cui serve come valore d’uso, mediante lo scambio. E, infine, nessuna cosa può essere valore, senza essere oggetto d’uso. Cose che in sé e per sé non sono merci, p. es., coscienza, onore, ecc., dai loro possessori possono essere considerate in vendita per denaro e così ri­cevere la forma di merce, mediante il prezzo loro attribuito”. Così Marx spiega – fin dalle primissime righe della prima sezione del primo libro del Capitale – quale sia il carattere dominante della merce nella “forma di società che noi dobbiamo considerare”: poiché sapere per prima cosa con quale oggetto reale si ha a che fare è il solo modo scientificamente corretto di procedere nell’analisi e nella comprensione di ciò che si vuole spiegare, ed eventualmente trasformare. Altrimenti ci si rifugia nel peggiore romantici­smo, acconciandosi a coccolarsi in un’autoipnosi, consolatoria forse, ma fru­strante per quanto si palesa essere imbelle e incapace di produrre qualsiasi cambiamento nel senso sognato e desiderato. Né potrebbe essere altrimenti, giacché quando si combatte un nemico sconosciuto, o pure se si cerca sempli­cemente di sfuggirgli, si fa un fracasso senza costrutto, confondendo mulini a vento con giganti mostruosi, e perdendo così ogni determinazione effettiva­mente conflittuale, o perfino contrattuale.

Gli è che in questi (ultimi) tempi l’“asinistra” non di classe – più o me­no avvitata nel “nuovismo”, ma altresì radicata in una fondamentale pregressa e datata ignoranza tradizionale del marxismo – si sta producendo in sortite vieppiù preoccupanti. Le categorie elementari semplici, sopra ricordate, che Marx espresse intorno alla merce, sono assolutamente ignorate. Da più parti, infatti, la forma di merce, che si presenta nella società in cui predomina il modo di produzione capitalistico, viene unilateralmente rimossa. Allora, c’è chi sogna di fuoriuscire-dal-mercato, verosimilmente da sé solo o con pochi amici; chi, perciò, ritiene di poter produrre valori-d’uso-immediati (e non già nelle accezioni previste ampiamente da Marx stesso), magari pel tramite di lavori-socialmente-utili (o necessari o dilettevoli), presumibilmente rinchiu­dendosi con i pochi amici di cui sopra in una sorta di “riserva indiana” auto­ghettizzante (come se essere “utile”, nell’accezione che a ciò è conferita dalla società esistente, che è la sola accezione che abbia senso, non fosse condizio­ne essenziale di ogni lavoro che produce merci); chi, ancora, presume di sé grande saggezza asserendo, tanto perentoriamente quanto imprudentemente, che il capitale ormai produce merce-senza-valore-d’uso; o chi, infine, col conforto dei sogni di tanti più numerosi amici, proclama ad alta voce che questo o quell’altro (salute, istruzione, casa, ecc.) non è merce – ciurlando deontologicamente con una negazione ontologica, af­fatto illusoria e volontaristica, laddove al più occorrerebbe esprimersi som­messamente con un dover non dover essere, di cui peraltro si richiede argo­mentata motivazione scientifica sulla base della conoscenza preliminare della realtà delle cose da considerare.

È dunque questa l’ignoranza dei caratteri fondamentali semplici della merce. In nome di quest’ignoranza è dato leggere – sempre più sovente su giornali, riviste, documenti e manifesti, in un crescendo che muove da toni ovattati, e in qualche misura parzialmente giustificabili – che “l’istruzione non è una merce”, “la salute non è una merce”, e poi ancora “la casa non è una merce”, fino al culmine con “il lavoro non è una merce”. Che tutte codeste determi­nanti basilari della ricchezza sociale non nascano come merce è fin troppo ovvio: ma, allora, nemmeno il pane o il sale della vita. E che dunque tutte esse, in epoca moderna, nelle società in cui domina il modo di produzione capitalistico, non lo siano diventate o non lo diventino crescente­mente è molto meno ovvio. E non solo, poiché è anche profondamente errato. Sull’istruzione [<=] in quanto tale, a es., soprattutto nella sua forma pubblica, si può dire che essa sia una ricchezza per la collettività, che rientra in larga misura nella rubrica delle condizioni generali della produzione, di cui lo stato si fa carico per conto del capitale quando questo non è ancora in grado di sopportarne gli oneri in confronto ai vantaggi che può trarne. Ma già quando il capitale stesso ha urgenza e capacità tali per passare alla formazione diretta di forza-lavoro [<=] variamente qualificata per le proprie necessità, la trasformazione dell’istru­zione in merce è cosa fatta: a fronte della qual cosa, storicamente necessaria, il proletariato proprietario della forza-lavoro medesima può solo, prendendo coscienza [<=] di questa realtà, rivendicare nel salario sociale [<=], quale valore di riproduzione della propria capacità di lavoro, quanto gli occorre per riportare giornalmente senza problemi sul mercato [<=] quella pe­culiare “merce” [Brecht notava con sarcasmo che perfino per diventare buoni marxisti, prima della guerra, non bastavano 25 mila marchi-oro, circa 200 mln di lire attuali!]. Tutto ciò senza contare che, anche per l’istruzione fornita dal­lo stato, non è affatto indifferente per le famiglie di lavoratori la spesa, a essa collegata, in “merci” necessarie all’uopo (libri, trasporti, accessori vari ecc., oltre alle tasse di iscrizione e al mancato guadagno per eventuali lavori che si potrebbero fare nel tempo corrispondente).

Un ragionamento analogo, e ancor più “mercificato” va fatto, e saputo, a proposito della salute, laddove l’esten­sione dell’attività capitalistica alla vendita di prestazioni sanitarie, oltreché di medicinali e di altri materiali medicali, è sotto gli occhi di tutti. Dunque oc­corre solo rivendicare qualità e accessibilità di tali servizi, sia includendo an­che quegli oneri nei costi di riproduzione della forza-lavoro sia imponendo prezzi politici per siffatte “merci”. Il delirio diventa preoccupante quando il sogno, piccolo-borghese, per la “ca­sa” fa fuggire l’“asinistra” di fronte alla realtà di una delle merci più appetite dal capitale: e la faccenda non è recente, se il povero Engels ha polemizzato a lungo e invano sulla questione delle abitazioni. Cosicché, negando unilateral­mente alla casa il carattere di merce di sussistenza, cade ogni lotta per ottene­re il potere d’acquisto necessario alla bisogna, e si lasciano i proletari in balìa di prezzi di acquisto o di affitto assolutamente insostenibili. Il massimo di oniricità – ma su tale tema occorre soffermarsi dettagliatamente, nonostante le ripetute volte in cui esso è già stato da noi affrontato – si raggiunge sulla pre­tesa negazione del lavoro (ossia della forza-lavoro) come merce: per sembrar più “umani” si nega ai lavoratori, addossandone le colpe al contratto di lavoro [<=], l’unico loro valore, fonte di ricchezza.

[gf.p.]

 

 

Microcredito

(macrosfruttamento)

Da sempre il “rimedio” alla povertà sociale è stato l’elemosina. Inoltre, come il capitalismo ha stabilizzato il debito pubblico, privata ha invece custodito la ricchezza, e conseguentemente la facoltà di dare o avere credito. Questa, nella storia, la società organizzata dal dominio di classe. Il rimedio ad uno strappo è sempre un rammendo, o una toppa (vedi le varie “tasse sui poveri”). Ma se il tessuto è liso, lo strappo diventa uno squarcio e compromette quello per intero. Magari, quella fenditura locale sta a preannunciare un cedimento globale. Non solo nel­l’analogia, o in astratto.

Al cimitero londinese, sull’epitaffio della tomba di Robert Owen, tra gli altri indubbi meriti menzionati, si può leggere il fine delle sue azioni: l’aspirazione ad “un più elevato stato sociale mediante la composizione degli interessi tra capitale e lavoro”. La costante che ha animato il socialismo “utopistico” può riassumersi con le sue stesse parole: “Mia intenzione ... era quella di mutare le condizioni di vita della gente, le cui circostanze esercitavano un’influenza negativa sul carattere dell’intera popolazione ... La comunità era consegnata allo squallore e il vizio e l’immoralità erano mostruosamente in estensione”.

Di qui i tentativi delle riforme sociali tra cui, per ciò che qui interessa, la cooperazione, l’auto aiuto etico, la fiducia nell’altro, (nell’“honor system” in cui però si riversava “easy money”), l’“Equitable labor exchange” (ele, il cui presupposto si fondava su uno scambio equo di prodotti, basati sul principio di lavoro a fronte di lavoro), l’“Equitable banks of exchange” (i cui “buoni-lavoro” però trovavano accettazione solo all’interno dell’ele), ecc.

Circa due secoli più tardi, il premio Nobel per la pace Muhammad Yunus si pregia di affermare: “Nel 1977 non avevamo nessuna idea di come gestire una banca dei poveri. Dovevamo imparare tutto da zero” [M. Yunus, Il banchiere dei poveri, Feltrinelli, Milano 1998]. Sembra proprio una disdicevole ignoranza dello sviluppo capitalistico nella storia europea o, al contrario, un furbesco ricavare dall’insegnamento di questo, negato a parole, la ricetta speciale della massificazione del credito nel secolo xx e xxi. Il doveroso riferimento a Owen cerca di ristabilire una distanza tra gli intenti, sinceri e generosamente umanitari, di quello che fu il socialismo ottocentesco – fallito – e la sua appropriazione di facciata, ma “ragionevolmente” capitalistica, a mascheramento di profitti e interessi bancari.

La Grameen bank (sorta in Bangladesh negli anni ’80, unitamente a Fondi etici in Usa e Gran Bretagna), da 42 persone cui nel ’76 furono prestati 27 $, conta oggi più di 7 milioni di clienti e 2.000 mrd $ di movimento; è inoltre diventata la seconda banca in Bangladesh oltre ad essere presente in ben 57 Paesi. Eppure questa “banca dei poveri” si comporta esattamente all’opposto delle altre banche – dichiara Yunus. Al posto di grandi crediti li fornisce minimi (il massimo dichiarato è di 20 mila $, il medio di 309 $), non chiede garanzie né avalli ma si basa sulla “fiducia”, presta preferenzialmente a donne (94% o 95%) invece che a uomini, non trae profitti ma consente a un reddito più proficuo, non ha a che fare con il capitale finanziario ma con il “capitale umano”, risponde a bisogni sociali, si batte contro le imprese basate sulla cupidigia e per la riduzione dell’intervento statale, si autodefinisce tra pubblico e privato, come “settore privato guidato dall’impegno sociale”, ecc.

I poveri – assicura Yunus – hanno imparato a muoversi in una logica di mercato; non sono loro, ma noi che andiamo incontro ai bisognosi. Attraverso questi viene così a maturarsi un nuovo “diritto umano”: l’“inalienabile” diritto al credito, dal quale poi si ottiene un “profitto individuale e collettivo”. Un arcano, in questo sistema!

Con la “rivoluzione” del microcredito, si vorrebbe mostrare che il vero obbiettivo è l’eradi­cazione della povertà, non il profitto. Alcuni, da beneficiari, vengono inseriti in qualità di azionisti con i loro depositi, con cui la banca si finanzia. La Grameen è ora una holding “cui fanno capo diciassette istituzioni nei campi delle comunicazioni, dell’informatica, dell’abbi­gliamento, dell’istruzione” [cfr. in rete la Repubblica].

Progetti di microfinanziamenti sono ora inseriti anche all’interno della Banca Mondiale, e tale strumento è diffuso in oltre un centinaio di nazioni sul modello della Grameen. Questa, quale garanzia di copertura dei prestiti, si serve dei “gruppi di solidarietà” (in genere del villaggio in cui viene erogato il credito, pena la non erogazione di ulteriori prestiti ad altri, in caso di mancata restituzione). Il recupero crediti sembra si aggiri sul 98%, il più alto del mondo. Il criterio basilare, è quello per cui anche un poverissimo (si escludono dal “diritto” di cui sopra solo quelli che vivono con 1 $ al giorno) ha la possibilità di “sviluppare ricchezza”.

Ciò che pudicamente si omette è che a creare ricchezza è sempre la forza-lavoro libera – con qualsivoglia livello di sussistenza – e che una quota, anche se minima di questa, viene appropriata in questo caso dal creditore munifico sotto forma d’interesse, anche se minimo. Non a caso si insiste sulla conquista dell’autonomia microimprenditoriale o del lavoro indipendente (chi ottiene un prestito che “mandi i figli a scuola”, “non faccia o subisca ingiustizie”, ecc.). Solo la libera vendita della propria forza-lavoro garantisce la libera (da ogni obbligo) requisizione del mini-plusvalore prodotto, ma in quantità tanto più estensibili quanto più aumentano i poveri-laboriosi del mondo. Se il capitale non può non produrre sempre più poveri, questi devono pur costituire una risorsa sempre più in crescita! Yunus ha trovato questa “scorta” di forza-lavoro sociale, disponibile all’ipersfruttamento da parte degli usurai, o schiava di sé stessa, e l’ha arruolata nei più modesti canoni dello sfruttamento capitalistico, compatibile con una sussistenza minima già garantita dalla regolazione sociale. Compatibile cioè con il recupero crediti “ragionevolmente” possibile. L’arcano del suo “non sfruttamento” allora – come Yunus ama proclamare – va confrontato con l’incremento vertiginoso del suo capitale monetario e delle sue filiali mondiali.

Altre strutture di microfinanza legate a microattività potenziali o già in atto sono operative mediante ong, onlus, organizzazioni senza fini di lucro, istituti di carità, governi, agenzie ecc. Attraverso questi istituti si viene a conoscenza delle condizioni di vita e del miglioramento possibile dei poveri, affetti dalla “sindrome della dipendenza da aiuto”, cui si provvede con meccanismi redistributivi. In questi ed altri programmi di “lotta alla povertà”, viene a registrarsi un incremento di siffatte istituzioni, che però lasciano inalterato l’obiettivo propostosi. Il miglioramento obiettivo, dovuto al microcredito, di alcune situazioni singole o di piccoli gruppi con investimento lavorativo, non incide infatti sulle cause strutturali della povertà, che continuamente viene riprodotta. Se cioè per alcuni singoli è possibile un minimale o parziale miglioramento dei livelli di sussistenza, ciò rientra sempre nel continuo fluttuare o stagnare del loro essere esercito di riserva lavorativa, con “un massimo tempo di lavoro e un minimo di salario” [Marx, Il capitale, I, 3] proprio della “sovrappopolazione relativa” prodotta dalle leggi capitalistiche. La vera utilità della microfinanza  è riservata invece al capitale, che con esso razionalizza in modo capillare la sua accumulazione di plusvalore. Ad esempio, nella predisposizione della itticoltura in Bangladesh (1986), di cui Yunus va fiero, con la sottrazione di risorse idriche all’abbandono – e quindi a disastri ambientali - o alla gestione inefficiente di mafie locali, è stato realizzato un investimento profittevole, unitamente ad un aumento delle risorse alimentari sociali. L’eliminazione degli sprechi, di una ricchezza cioè appropriata senza reinvestimento produttivo, e acquisita invece entro il meccanismo di un’autovalorizzazione costante, ha permesso l’estensione del mercato capitalistico funzionale a un’addizionale accumulazione di plusvalore altrimenti irrecuperabile. L’obiettivo dichiarato di Yunus fu infatti quello di sviluppare un’economia di mercato vincente. Anche il microcredito, in altri termini, è costretto a migliorare condizioni di vita sociale nella misura in cui il suo unico fine è l’ap­propriazione di plusvalore, fin dove possibile. Non il contrario.

Casi in cui è possibile una verifica di quanto detto si hanno nelle motivazioni che sconsigliano l’erogazione dei crediti, laddove questi non impegnerebbero direttamente i beneficiari in attività lavorative, bensì servirebbero a combattere il degrado sociale o ambientale. Un solo esempio emblematico: in Etiopia, dove su quasi 75 milioni di abitanti  circa il 50% (al 2004) vive sotto la soglia di povertà, la Yessaca saving and credit cooperative ha avviato nel ’97 una serie di corsi formazione, con assistenza economica e logistica per ragazzi, con l’obiettivo di poter rendere autonomi e autosufficienti i beneficiari, una volta usciti dal programma [cfr. Rapporto dello studio di fattibilità (3.7. 2006) per l’implementazione di un programma per la cooperativa Yessaca]. Nonostante il fine di questa cooperativa, non è risultato essere il credito l’obiettivo della stessa. La valorizzazione degli individui, la loro socializzazione (ragazzi di strada), la mancanza di competenze dei componenti (ragazzi tra i 15 e i 24 anni), la predefinizione di regole statutarie, l’uso dei prestiti per il consumo, la mancanza di cultura del credito e quindi l’incapacità di restituzione dello stesso entro tempi pattuiti, ecc., hanno determinato il fallimento del programma con decisione di non effettuare più prestiti.

Nel febbraio 1997, a Washington, 3000 persone provenienti da 137 paesi si sono riunite in un vertice mondiale del microcredito. Nella dichiarazione entusiasta di Hillary Clinton, promotrice del “rapporto di interconnessione e di interdipendenza degli esseri umani”, è utile sottolineare la sua valutazione del microcredito che “si ripercuote beneficamente sull’intera comunità, creando un fertile terreno perché la democrazia possa vivere e prosperare, e perché la gente possa avere la speranza nel futuro”.

Latouche, nell’Economia senza giustizia (2003), mostra l’involuzione civile e sociale  delle società opulente, in cui quindi appare sempre più necessario un cambiamento di tendenza. L’economia di “Comunione” – con tutte le finanze etiche e commercio equo e solidale – vengono visitate come progetti di mistificazione per “anime belle”, funzionali alla rassicurazione delle coscienze, ma nei fatti interni ai meccanismi di mercato “oggettivamente disumani” – nel senso di cui sopra, con finalità esclusivamente volte alla realizzazione di profitti – anche se soggettivamente agiti con intenzionalità solidaristiche. Queste però contribuiscono comunque a trasporre su piani morali e ideali quanto invece attiene alla necessità materiale di “leggi” economiche, immodificabili alla sola luce della buona volontà. Con l’economista Robert Pollin si può concludere che nei due paesi Bangladesh e Bolivia a più alto tasso di successo del microcredito, la povertà rimane ai primi livelli del pianeta. Il premio Nobel assegnato a Yunus (1,4 milione di $) sembra sia il premio alla sua lotta al neoliberismo. Da quando il Fmi e la Banca mondiale hanno reso il microcredito un vero e proprio impero, questo è stato definito un “macro-racket”. L’indebitamento ha raggiunto tassi molto alti e le sanzioni per le inadempienze sono selvagge. I cittadini indebitati vengono lasciati soli dai rispettivi governi e spesso si rivolgono di nuovo agli usurai per ripagare i debiti contratti con le banche. La nuova industria del microcredito, sorta dal bisogno sociale, di questo si nutre agli ordini di un profitto privato, generatore di nuovo impoverimento sociale.

[c.f.]

 

 

Militarismo

(guerra e classe operaia)

Già il congresso di Bruxelles del­l’Internazionale, nell’anno 1868, indica misure pratiche per impedire la guerra. Nella sua risoluzione è detto fra l’altro: “che i popoli possono già attualmente limitare il numero delle guerre, opponendosi a coloro che le guerre le fanno e dichiarano: che questo diritto spetta in modo particolare alle classi operaie, che sono quasi le sole che vengono chiamate al servizio militare e che per questa ragione sono le sole che possano dare una sanzione; che a tale scopo esse hanno a disposizione un mezzo pratico, legale e di immediata realizzazione; che la società non potrebbe infatti continuare a vivere se la produzione venisse a cessare per qualche tempo. I lavoratori-produttori non avrebbero quindi che da cessare di produrre per rendere impossibili ai governi personali e dispotici di porre in atto le loro imprese; il congresso di Bruxelles dell’Associazione internazionale dei lavoratori dichiara di protestare energicamente contro la guerra e invita tutte le sezioni dell’associazione nei singoli paesi, come pure tutte le società operaie e le organizzazioni operaie senza distinzione, ad agire con il massimo impegno onde evitare una guerra tra popolo e popolo che, al giorno d’oggi, in quanto guerra fatta fra lavoratori, quindi fratelli e cittadini, sarebbe da ritenersi una guerra civile. Il congresso raccomanda ai lavoratori specialmente la sospensione del lavoro nel caso che nei loro rispettivi paesi scoppiasse una guerra”.

Lascio da parte le altre numerose risoluzioni della vecchia internazionale e passo al congresso della nuova Internazionale. Il congresso di Zurigo del 1893 dichiarava: “La posizione dei lavoratori nei confronti della guer­ra è nettamente definita dalle conclusioni del congresso di Bruxelles sul militarismo. La socialdemocrazia rivoluzionaria internazionale deve opporsi in tutti i paesi e con tutte le sue forze alle brame schiavistiche della classe dominante; rinsaldare sempre più fermamente il legame di solidarietà tra i lavoratori di tutti i paesi; operare senza tregua per l’eliminazio­ne del capitalismo che divide l’uma­nità in due campi nemici e aizza i popoli gli uni contro gli altri. Con il superamento del dominio di classe scom­pare anche la guerra. La caduta del capitalismo è la pace del mondo”.

Il congresso di Londra del 1896 dichiara: “Soltanto la classe operaia può avere la seria volontà e conseguire il potere di stabilire la pace nel mondo. A tale scopo chiede:

- contemporanea abolizione degli eserciti permanenti in tutti gli Stati e istituzione dell’armamento popolare;

- istituzione di un tribunale arbitrale internazionale, le cui decisioni abbiano forza di legge;

- decisione definitiva su guerra o pa­ce direttamente da parte del popolo, nel caso che i governi non intendessero accettare la decisione del tribunale arbitrale”.

Il congresso di Parigi del 1900 consiglia specialmente come mezzo pratico di lotta contro il militarismo “che i partiti socialisti intraprendano ovun­que l’educazione e l’organizza­zione dei giovani allo scopo di combattere il militarismo e proseguano nello sforzo con il massimo fervore”.

Mi permettano ancora di riportare un passo importante della risoluzione del congresso di Stoccarda del 1907, nel quale è raccolta con grande plasticità tutta una serie di misure pratiche da prendersi da parte della socialdemocrazia nella lotta contro la guerra. È detto: “In realtà, a partire dal congresso internazionale di Bruxelles il proletariato ha intrapreso le più svariate forme  di azione nella sua lotta instancabile contro il militarismo con crescente energia e successo, rifiutando i mezzi per l’armamen­to di terra e di mare, tentando di democratizzare l’organizzazione militare, nell’intento di evitare lo scoppio di guerre o di farle cessare, nonché in quello di sfruttare gli squilibri della società provocati dalla guerra a vantaggio della liberazione della classe operaia: così specialmente l’accordo dei sindacati inglesi e francesi dopo l’incidente di Fasciola, per assicurare la pace e il ristabilimento di amichevoli relazioni tra Francia e Inghilterra; l’atteggiamento dei partiti socialisti al parlamento tedesco e a quello francese nel corso della crisi marocchina; le manifestazioni avvenute allo stesso scopo a opera dei socialisti francesi e tedeschi; l’azione comune dei socialisti austriaci e italiani che si riunivano a Trieste per evitare un conflitto tra i due Stati; inoltre, l’in­tervento energico delle masse operaie socialiste svedesi al fine di impedire un attacco alla Norvegia; da ultimo l’eroico sacrificio e le lotte di massa degli operai e dei contadini socialisti di Russia e Polonia per opporsi alla guerra scatenata dallo zarismo, per farla cessare e per utilizzare la crisi per la liberazione del paese e delle classi lavoratrici.

Tutti questi sforzi testimoniano la potenza crescente del proletariato e il suo crescente impulso ad assicurare il mantenimento della pace mediante interventi decisivi”.

[r.l.]

(da Rosa Luxemburg, Autodifesa –

 per l’accusa di incitazione alla diserzione, II sezione penale del Tribunale di Francoforte, febbraio 1914)

 

 

 

Miseria dell’economia #1
(il metodo)

Gli economisti hanno un singolare modo di procedere. Non esistono per essi che due tipi di istituzioni, quelle dell’arte e quelle della natura. Le istituzioni del feudalesimo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. E in questo gli economisti assomigliano ai teologi, i quali pure stabiliscono due sorta di religioni. Ogni religione che non sia la loro è un’invenzione degli uomini, mentre la loro è una emanazione di Dio. Dicendo che i rapporti attuali – i rapporti della produzione borghese – sono naturali, gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall’influenza del tempo. Sono leggi eterne che debbono sempre reggere la società. Così c’è stata storia, ma ormai non ce n’è più. C’è stata storia perché sono esistite istituzioni feudali e perché in queste istituzioni feudali si trovano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese, che gli economisti vogliono spacciare per naturali e quindi eterni. Anche il feudalesimo aveva il suo proletariato: i servi della gleba, in cui erano racchiusi i germi della borghesia. Anche la produzione feudale aveva elementi antagonistici; che, se si vuole, possono essere ben designati come il lato buono ed il lato cattivo del feudalesimo, senza pensare che è quello cosiddetto cattivo che finisce sempre con l’avere il sopravvento. È, il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta. Se all’epoca del regime feudale gli economisti, entusiasmati dalle virtù cavalleresche, dalla bella armonia fra i diritti e i doveri, dalla vita patriarcale delle città, dalle condizioni prospere dell’industria domestica nelle campagne, dallo sviluppo del­l’in­­dustria organizzata in corporazioni, e corpi dei consoli e maestri d’arte, ecc., infine da tutto ciò che costituisce il lato buono del feudalesimo, si fossero posti il problema di eliminare tutto ciò che offusca questo quadro – servitù, privilegi, anarchia – che sarebbe avvenuto? Sarebbero stati annullati tutti gli elementi che costituivano la lotta e si sarebbe soffocato in germe lo sviluppo della borghesia. Insomma, si sarebbe posto l’assurdo problema di eliminare la storia.
Quando la borghesia l’ebbe vinta, non vi fu più questione né del lato buono né di quello cattivo del feudalesimo. Ad essa andarono le forze produttive che si erano sviluppate per mezzo suo sotto il regime feudale. Tutte le vecchie forme economiche, le relazioni di diritto civile loro corrispondenti, lo stato politico che era l’espressione ufficiale dell’antica società civile, vennero spezzati. Così, per ben giudicare la produzione feudale, è necessario considerarla come un modo di produzione fondato sull’antagonismo. Bisogna mostrare come la ricchezza veniva prodotta all’interno di questo antagonismo, come le forze produttive si sviluppavano di pari passo all’antagonismo delle classi, come una di queste classi, il lato cattivo, l’inconveniente della società, andasse sempre crescendo finché le condizioni materiali della sua emancipazione non furono pervenute al punto di maturazione. Non è tutto ciò sufficiente per dire che il modo di produzione, i rapporti in cui si sviluppano le forze produttive, sono tutt’altro che leggi eterne, ma corrispondono invece a un grado di sviluppo determinato degli uomini e delle loro forze produttive, e che un mutamento sopravvenuto nelle forze pro­duttive degli uomini comporta necessariamente un mutamento nei loro rapporti di produzione? Poiché innanzi tutto importa non essere privati dei frutti della civiltà, delle forze pro­duttive acquisite, è necessario infrangere le forme tradizionali nelle quali quelle sono state prodotte. Da questo momento, la classe rivoluzionaria diviene conservatrice.
La borghesia ha inizio con un proletariato che a sua volta è un resto del proletariato dei tempi feudali. Nel corso del suo sviluppo storico, la bor­ghesia svolge necessariamente il suo carattere antagonistico, che al­l’inizio si trova ad essere più o meno dissimulato, non esiste che allo stato latente. A misura che la borghesia si sviluppa, si sviluppa nel suo seno un nuovo proletariato, un proletariato moderno; si sviluppa una lotta fra la classe proletaria e la classe borghese, lotta che, prima di essere sentita dalle due parti, individuata, valutata, compresa, ammessa e infine proclamata ad alta voce, non si manifesta, all’inizio, che attraverso conflitti parziali e momentanei, attraverso episodi di sovversivismo. D’altra parte, se tutti i membri della moderna borghesia hanno i medesimi interessi in quanto formano una classe contrapposta a un’altra, han­no però interessi opposti, antagonistici, in quanto si trovano gli uni contrapposti agli altri. Questa opposizione di interessi deriva dalle condizioni economiche della loro vita borghese. Di giorno in giorno diventa dunque più chiaro che i rapporti di produzione entro i quali si muove la borghesia non hanno un carattere unico, semplice, bensì un carattere duplice; che negli stessi rapporti entro i quali si produce la ricchezza, si produce altresì la miseria; che entro gli stessi rapporti nei quali si ha sviluppo di forze produttive, si sviluppa anche una forza produttrice di repressione; che questi rapporti producono la ricchezza borghese, ossia la ricchezza della classe borghese, solo a patto di annientare continuamente la ricchezza di alcuni membri di questa classe, e a patto di dar vita a un proletariato ognora crescente. Più il carattere antagonistico viene in luce, più gli economisti, i rappresentanti scientifici produzione borghese, entrano in contraddizione con le loro stesse teorie; e nascono diverse scuole.
Abbiamo così gli economisti fatalisti, che nella loro teoria sono indifferenti a ciò che essi chiamano gli inconvenienti della produzione borghese, come lo sono, nella pratica, i borghesi di fronte alle sofferenze dei proletari, che li aiutano ad acquistare le loro ricchezze. In questa scuola fatalista vi sono i classici e i romantici. I classici, come Adam Smith e Ricardo, rappresentano una borghesia che, lottando ancora contro i resti della società feudale, opera solo per epurare i rapporti economici dai residui feudali, per aumentare le forze produttive e dare un nuovo impulso all’industria e al commercio. Il proletariato, che partecipa a questa lotta, assorbito in questo lavoro febbrile, non ha che sofferenze accidentali, passeggere, che esso stesso considera come tali.
Gli economisti come Adam Smith e Ricardo, che sono gli storici di ques­t’epoca, hanno soltanto la missione di dimostrare come si acquisti la ricchezza entro i rapporti di produzione borghesi, di formulare in secondo luo­go questi rapporti in categorie, in leggi, di dimostrare infine quanto que­ste leggi, queste categorie, siano, per la produzione delle ricchezze, superiori alle leggi e alle categorie della società feudale. La miseria, ai loro occhi, non è che il dolore che accompagna ogni parto, nella natura come nell’industria.
I romantici appartengono alla nostra epoca, in cui la borghesia si trova in diretta opposizione al proletariato, in cui la miseria si produce con un’ab­bon­danza pari alla ricchezza. Gli economisti posano allora a fatalisti annoiati, che, dall’alto della loro posizione, gettano un superbo sguardo di disdegno sugli uomini-macchine che fabbricano le ricchezze. Essi ripetono tutte le spiegazioni già date dai loro predecessori, ma l’indiffe­renza, che per questi era ingenuità, diviene in loro civetteria.
Viene appresso la scuola umanitaria, che si prende a cuore il lato cattivo degli attuali rapporti di produzione. Questa scuola cerca, per scarico di coscienza, di trovare almeno dei palliativi ai contrasti reali: deplora sinceramente le miserevoli condizioni del proletariato, la concorrenza sfrenata dei borghesi fra loro; consiglia agli operai di essere sobri, di lavorare bene e di mettere al mondo pochi figli; raccomanda ai borghesi di mettere nella produzione un ardore ponderato. Tutta la teoria di questa scuola si basa su interminabili distinzioni fra la teoria e la pratica, fra i princìpi e i risultati, fra l’idea e l’attuazione, fra il contenuto e la forma, fra l’essenza e la realtà, fra il diritto e il fatto, fra il lato buono e quello cattivo.
La scuola filantropica poi è la scuola umanitaria perfezionata. Essa nega la necessità dell’antagonismo; vuol fare di tutti gli uomini dei borghesi; vuole realizzare la teoria, per quel tanto che essa si distingue dalla pratica e non racchiude antagonismi. È superfluo dire che nella teoria è facile fare astrazione dalle contraddizioni che si incontrano ad ogni istante nella realtà. Questa teoria sarebbe dunque la realtà idealizzata. I filantropi vogliono insomma conservare le categorie che esprimono i rapporti borghesi, senza l’antagonismo che li costituisce e che ne è inseparabile. Essi credono di combattere sul serio la prassi borghese e sono più borghesi degli altri.
Come gli economisti sono i rappresentanti scientifici della classe borghese, così i socialisti e i comunisti sono i teorici della classe proletaria. Finché il proletariato non si è ancora sufficientemente sviluppato per costituirsi in classe, e di conseguenza la lotta del proletariato con la borghesia non ha ancora assunto un carattere politico, e finché le forze produttive non si sono ancora sufficientemente sviluppate in seno alla stessa borghesia, tanto da lasciar intravedere le condizioni materiali necessarie all’af­francamento del proletariato e alla formazione di una società nuova, que­sti teorici non sono che utopisti, i quali, per soddisfare i bisogni delle classi oppresse, improvvisano sistemi e rincorrono le chimere di una scienza rigeneratrice. Ma a misura che la storia progredisce e con essa la lotta del proletariato si profila più netta, essi non hanno più bisogno di cercare la scienza nel loro spirito; devono solo rendersi conto di ciò che si svolge davanti ai loro occhi e farsene portavoce. Finché cercano la scienza e costruiscono solo dei sistemi, finché so­no all’inizio della lotta, nella miseria non vedono che la miseria, senza scorgerne il lato rivoluzionario, sovvertitore, che rovescerà la vecchia società. Ma quando questo lato viene scorto, la scienza prodotta dal movimento storico – e al quale si è associata con piena cognizione di causa – ha cessato di essere dottrinaria per divenire rivoluzionaria.

[k.m.]

 

Miseria dell’economia #2
(antitesi e tesi, antidoto e ipotesi)

Proudhon è un altro dottor Quesnay. È il Quesnay della metafisica dell’e­conomia politica. Ora la metafisica, la filosofia tutta intera, si riassume, secondo Hegel, nel metodo. Vediamo ora a quali modificazioni Proudhon sottopone la dialettica di Hegel applicandola all’economia politica. Per lui, per Proudhon, ogni categoria economica ha due lati, l’uno buono, l’altro cattivo. Egli si prospetta le categorie come il piccolo borghese si prospetta i grandi uomini della storia: Napoleone è un grand’uomo; ha fatto molto di bene, ma ha fatto anche molto di male. Il lato buono e il lato cattivo, il vantaggio e lo svantaggio presi assieme formano, per Proudhon, la contraddizione in ogni categoria economica. Tutto il problema da risolvere consiste nel conservare, il lato buono, eliminando quello cattivo.
La schiavitù è una categoria econo­mica come un’altra, dunque anche es­sa ha i suoi due lati. Così la schiavitù, essendo una categoria economica, è sempre stata nelle istituzioni dei popoli. I popoli moderni non hanno saputo fare altro che mascherare la schiavitù nel loro proprio paese e l’hanno imposta senza maschera al nuovo mondo. A che ricorrerà Proudhon per salvare la schiavitù? Egli porrà il problema: conservare il lato buono di questa categoria economica, eliminare il cattivo.
Hegel non ha problemi da porre: non possiede che la dialettica. Proudhon, della dialettica di Hegel, non possiede che il linguaggio. Il movimento dialettico proprio di Proudhon è la distinzione dogmatica del bene e del male. Prendiamo per un istante il medesimo Proudhon come categoria. Esaminiamo il suo lato buono e il suo lato cattivo, i suoi vantaggi e i suoi inconvenienti. Ciò che costituisce il movimento dialettico è la coesistenza dei due lati contraddittori, la loro lotta e il loro passaggio in una nuova categoria. Basta porsi il problema di eliminare il lato cattivo, per liquidare di colpo il movimento dialettico. Al posto della categoria, che si pone e si oppone a sé stessa per la sua natura contraddittoria, sta Proudhon che si infervora, si dibatte, si dimena fra i due lati della categoria.
Preso così in un ginepraio donde è difficile uscire con mezzi leciti, Proudhon spicca un vero e proprio salto che lo trasporta di colpo in una nuova categoria. È allora che al suo sguardo stupefatto si svela la serie nell’intelletto. Egli afferra la prima categoria che gli capita e le attribuisce arbitrariamente la proprietà di rimediare agli inconvenienti della categoria che vuole purificare. Così le tasse rimediano – a sentire Proudhon – agli inconvenienti del monopolio; la bilancia commerciale agli inconvenienti delle tasse; la proprietà fondiaria agli inconvenienti del credito.
Certo, dal momento che il processo del movimento dialettico si riduce al semplice procedimento di opporre il bene al male, di porre problemi che tendono all’eliminazione del male e a fornire una categoria come antidoto all’altra, le categorie non hanno più spontaneità; l’idea “non funziona più”; non ha più vita in sé. Non si pone, né si decompone più in categorie. La successione delle categorie è divenuta una sorta di impalcatura. La dialettica non è più il movimento della ragione assoluta. Non vi è più dialettica; tutt’al più c’è solo un po’ di morale allo stato puro.
Quando Proudhon parlava della serie nell’intelletto, della successione logica delle categorie, dichiarava positivamente di non voler fornire una storia secondo l’ordine dei tempi, ossia, secondo Proudhon, la successione storica nella quale le categorie si sono manifestate. Tutto, allora, secondo lui avveniva nell’etere puro della ragione. Tutto doveva derivare da questo etere per mezzo della dialettica. Ora che si tratta di mettere in pratica questa dialettica, la ragione gli vien meno. La dialettica di Proudhon prende in giro la dialettica di Hegel, ed ecco che Proudhon ci deve dire che l’ordine nel quale egli espone le categorie economiche non è più l’ordine nel quale esse si generano l’una dall’altra. Le evoluzioni economiche non sono più le evoluzioni della ragione stessa.
Che cosa ci dà allora Proudhon? La storia reale, ossia, secondo l’intendi­mento di Proudhon, la successione secondo la quale le categorie si sono manifestate nell’ordine dei tempi? No. La storia quale si svolge nell’idea stessa? Meno ancora. E allora, né la storia profana delle categorie, né la loro storia sacra! Quale è dunque la storia che egli ci dà? La storia delle sue proprie, private contraddizioni.
Ammettiamo con Proudhon che la storia reale, la storia secondo l’ordine dei tempi, sia la successione storica in cui le idee, le categorie, i princìpi si sono manifestati. Ogni principio ha avuto il suo secolo, per manifestarsi. Il principio d’autorità, per esempio, ha avuto l’xi secolo, mentre il principio dell’indi­vidualismo ha avuto il xviii secolo. Di conseguenza in conseguenza, era dunque il secolo che apparteneva al principio e non il principio al secolo. In altri termini era il principio a fare la storia e non la storia a fare il principio. Quando infine, per salvare sia i princìpi che la storia, ci si domanda perché il tale principio si sia manifestato nell’xi o nel xviii secolo piuttosto che nel tal altro, ci si trova necessariamente costretti a esaminare minuziosamente quali fossero gli uomini dell’xi secolo, quali quelli del xviii, quali fossero le rispettive necessità, le loro forze produttive, il loro modo di produzione, le materie prime della loro produzione, e quali fossero i rapporti fra uomo e uomo, risultanti da queste condizioni di esistenza. Ora, approfondire tutte queste questioni, non significa appunto fare la storia reale, profana, degli uomini in ciascun secolo, rappresentare questi uomini co­me gli autori e contemporaneamente gli attori del loro dramma? Ma dal momento che si rappresentano gli uomini come autori e come attori della loro storia, si è dunque ritornati esattamente, dopo un lungo giro, al vero punto di partenza, avendo abbandonato i princìpi eterni donde avevate preso le mosse.
Incamminiamoci con Proudhon per la via traversa. Ammettiamo che i rapporti economici, considerati come leggi immutabili, come princìpi eterni, come categorie ideali, siano anteriori agli uomini vivi e attivi; ammettiamo anche che queste leggi, che questi princìpi, queste categorie abbiano sonnecchiato fin dall’origine dei tempi “nella ragione impersonale dell’umanità”. Abbiamo già visto che con tutte queste eternità immutabili non c’è più storia, c’è tutt’al più la storia nell’idea, cioè la storia che si riflette nel movimento dialettico della ragione pura. Ma, dicendo che nel movimento dialettico le idee non si “differenziano” più, Proudhon ha annullato e l’ombra del movimento e il movimento delle ombre, per mezzo delle quali cose sarebbe stato almeno possibile creare un simulacro della storia. Invece egli imputa alla storia la sua impotenza personale.
“Non è dunque esatto dire”, afferma Proudhon filosofo, “che qualche cosa avviene, che qualche cosa si produce: nella civiltà come nell’universo tutto esiste, tutto agisce da sempre... Altrettanto avviene per tutta l’economia sociale” [vol. ii, p. 102]. Tanta è la forza creatrice delle contraddizioni che agiscono su Proudhon e lo fanno funzionare, che volendo spiegare la storia egli è costretto a negarla, volendo spiegare il susseguirsi dei rapporti sociali egli nega che qualche cosa possa avvenire, E volendo spiegare la produzione con tutte le sue fasi egli contesta che qualche cosa possa prodursi.
“La ragione umana non crea la verità”, che è nascosta nel fondo della ragione assoluta, eterna. Essa non può che svelarla. Dunque, essendo anche le categorie economiche verità scoperte, rivelate dalla ragione umana, dal genio sociale, esse sono egualmente incomplete e racchiudono il germe della contraddizione. Prima di Proudhon, il genio sociale non ha visto che gli elementi antagonistici – e non la formula sintetica – nascosti entrambi simultaneamente nella ragione assoluta. Ma poiché i rapporti economici non fanno che realizzare sulla terra queste verità insufficienti, queste categorie incomplete, queste nozioni contraddittorie, sono essi stessi contraddittori, e presentano due lati, l’uno buono e l’altro cattivo.
Come l’antitesi si trasforma in antidoto così la tesi diviene ora ipotesi. In Proudhon questo scambio di termini non ci può più sorprendere. La ragione umana, che è tutto meno che pura, poiché la sua visuale è limitata, incontra ad ogni passo nuovi problemi da risolvere. Ogni nuova tesi, che essa scopre nella ragione assoluta e che è la negazione della tesi precedente, diventa per essa una sintesi, che viene accettata abbastanza ingenuamente come la soluzione del problema in questione. Così questa ragione si dibatte in contraddizioni sempre nuove, finché, arrivata alla fine di tali contraddizioni, si accorge che tutte le sue tesi e sintesi non sono che ipotesi contraddittorie. Nella sua perplessità, la ragione umana, “il genio sociale, ritorna di colpo su tutte le sue posizioni anteriori e con una sola formula risolve tutti i suoi problemi”.
Questa formula unica, sia detto tra parentesi, costituisce la vera e propria scoperta di Proudhon. È il valore costituito. Le ipotesi si fanno solo in vista di uno scopo determinato. Lo scopo che si proponeva in primo luogo il genio sociale che parla per bocca di Proudhon era di eliminare ciò che vi è di cattivo in qualsiasi categoria economica, lasciandone solo il lato buono. Per lui il bene è il bene supremo, il vero scopo da raggiungere è l’egua­glianza. E perché il genio sociale si proponeva l’eguaglianza piuttosto che l’ineguaglianza, la fraternità, il cattolicesimo, o un qualsiasi altro principio? Perché l’“umanità ha realizzato successivamente tante ipotesi particolari solo in vista di una ipotesi superiore”, che è precisamente l’eguagli­anza. In altre parole: perché l’eguagli­anza è l’ideale di Proudhon. Egli immagina che la divisione del lavoro, il credito, la fabbrica, tutti i rapporti economici, insomma, siano stati inventati semplicemente a profitto dell’e­guaglianza, anche se hanno sempre finito per rivolgersi contro di essa.
Dal fatto che la storia e la finzione di Proudhon si contraddicono ad ogni pie’ sospinto, il nostro conclude che vi è contraddizione. Ma se contraddizione esiste, essa esiste solo tra l’idea fissa di Proudhon e il movimento reale. Siamo ormai al punto che il lato buono di un rapporto economico è sempre quello che afferma l’eguaglianza; il lato cattivo è quello che la nega e che afferma l’ineguaglianza. Ogni nuova categoria è un’ipotesi del genio sociale, per eliminare l’ineguaglianza generata dall’ipotesi precedente.
Riassumendo: l’eguaglianza è l’intenzione primitiva, la tendenza mistica, lo scopo provvidenziale che il genio sociale ha costantemente dinnanzi agli occhi, pur aggirandosi entro la cerchia delle contraddizioni economiche. Così la Provvidenza è la locomotiva che fa marciare tutto il bagaglio economico di Proudhon me­glio assai della sua ragione pura e nebulosa: ecco la grande parola di cui ci si serve oggi per spiegare il procedere della storia. In effetti la parola non spiega nulla. È tutt’al più una forma declamatoria, una maniera come un’al­tra di parafrasare i fatti. Proudhon vuole essere la sintesi. Ed è invece un errore composto. Vuole librarsi come uomo di scienza al disopra dei borghesi e dei proletari; e non è che il piccolo borghese, sballottato costantemente fra il capitale e il lavoro, fra l’economia politica e il comunismo.

[k.m.]
(Miseria della filosofia)

 

Miseria o povertà

(dalla fatalità alla coscienza)

“Beati voi, o poveri, ché vostro è il regno di Dio” [Luca, VI, 20]. Che la “povertà” si riferisca qui solo allo “spirito” [come in Matteo] od anche, e magari prevalentemente, allo stato sociale della carne, rimane incerto. La povertà, comunque, la mancanza, reclama il suo opposto, assoluto, in cui perdersi e conciliarsi. In un’altra vita però, questa beatitudine, in un altro “regno”. Nella cultura ebraica arcaica essa è talmente segno di una giustizia assente, che esige almeno la promessa di un riscatto, garante il divino. Povertà e male ineliminabile dalla storia sembrano qui coincidere; alla sua accettazione e sopportazione restano le sole virtù teologali: fede e speranza suffragate dalla carità.

Nell’illustrazione dell’arte drammatica Bertolt Brecht propone di togliere al naturalismo l’elemento fatalistico [Diari, 3.4.1941]. “Basta trattare povertà e stupidità non come dati di fatto ma considerando le loro connessioni e la possibilità di eliminarle”.

In questa concezione di un’umanità non più legata alla presenzialità del divino per farsi e giustificare sé stessa, ma ormai consapevole del proprio ruolo storico, è utile fare riferimento alle lezioni sulla filosofia del diritto di G.W.F. Hegel. Secondo quest’analisi – che già comprende quella di A. Smith relativa a La ricchezza delle nazioni – il grande principio caratterizzante il mondo moderno è lo “sviluppo autonomo delle particolarità”. Nell’analisi concettuale delle determinazioni materiali, consolidate e tramandate dall’assetto giuridico, si configura, unitamente a quelle particolarità, la sfera della proprietà privata. Questa, successivamente, va considerata in unità all’esproprio col quale costituisce l’intero, ossia la verità reale. Isolata, questa sfera è limitata, “astratta”, costituita com’è di bourgeois, ovvero di individui privati tutti immersi nei loro interessi particolari. A questo livello non c’è comunità politica – costituita invece dai citoyens, rappresentanti della libertà e universalità etica – e non c’è conciliazione. Lo spettacolo che ci si presenta è impressionante, dirà Hegel: da una parte la fame disperata e dall’altra “i mezzi che potrebbero porvi rimedio”; epperò di mezzo c’è un “abisso” insormontabile. “Questo abisso è il diritto, la cui contraddizione con il benessere non è una collisione meramente causidica, ma un’antitesi di sempre e di necessità presente, stridente in specie nella società sviluppata” [L. 1822-3: § 126].

L’individuo è sì fine a sé stesso, ma per l’appagamento dei suoi bisogni sono necessari anche altri, da cui dipende nella sempre maggior complessità relazionale soprattutto in una società evoluta. Rinunciare alla propria volontà particolare significa allora agire in conformità alle caratteristiche anche dell’altro, rimuovendo da sé il particolare. “Il processo della cultura nella società civile è questo asportare il particolare” [G.W.F. Hegel, Le filosofie del diritto (a cura di D. Losurdo)]. Abbandonata allo svolgersi materiale dei suoi meccanismi, la società civile moderna sviluppa la ricchezza e con ciò “un accrescimento altrettanto infinito dell’in­digenza”. “Quanto più aumenta il lusso, tanto più aumenta d’altro canto l’indigenza; ne vedremo in seguito l’ulteriore connessione”. Cadere in miseria è dunque un effetto di questo sviluppo, il povero non ha a che fare con la natura ma con “l’infinita resistenza dei proprietari”. “L’uno gode, l’altro soffre privazioni, ma l’accidentalità è solo parvenza”. Nelle apparenze operano solo individui. La scienza, al contrario (in questo caso l’eco­nomia politica), scopre leggi che riguardano “masse”, scorge “determinazioni universali” e “necessità”. Con due categorie fondamentali del l’economia politica, la “connessione” e la “mediazione”, si coglie che tutti i singoli, il collettivo, sono una cosa diversa che non i singoli stessi”. Per indagare allora le cause della miseria è necessario partire dalle “masse”, dalla totalità sociale in cui l’individuo è inscritto in quanto particolarità, o bisogno soggettivo la cui oggettivazione è l’appaga mento.

“L’uomo che muore di fame ha il diritto assoluto di violare la proprietà di un altro. Nell’estremo pericolo e nella collisione con la proprietà giuridica d’un altro, la vita ha un diritto necessario da pretendere, giacché, da un lato, sta l’infinita violazione del l’esistenza e con ciò la totale mancanza di diritto, e, dall’altro lato, soltanto la violazione d’una singola esistenza limitata della libertà”. L’assolutizzazione del diritto di proprietà ha “qualcosa di rivoltante per ogni uomo, e ciò per il fatto che l’uomo diventa privo di diritti allorché si pretende che dovrebbe qui rispettare il diritto limitato”.

Un uomo in condizioni di fame disperata è privato della totalità dei suoi diritti, non viene più riconosciuto come soggetto giuridico, come appunto avviene per chi subisce una violenza criminale o per lo schiavo. Ecco dunque che il potere politico deve intervenire per garantire “il diritto alla vita”, “se ci sono disoccupati, questi hanno il diritto di esigere che gli venga procurato lavoro”. “Non con una mera calamità naturale ha da lottare il povero nella società civile; la natura che il povero ha di fronte non è un mero essere, ma la mia volontà. Il povero si sente in rapporto con l’arbitrio, con l’umana accidentalità e in ultima analisi è rivoltante che venga messo in questo dissidio dall’arbitrio” [L, 1819-20: p. 195, ib.]

 Se la miseria è una questione sociale, si configura come “ingiustizia com messa ai danni di questa o quella classe” [L, 1824-5: § 244], non si tratta più di casualità legata a individui bensì di riproducibilità sociale di un sistema di classi. La povertà, come la ricchezza, si trasmette ormai per via ereditaria, e così la cultura, ed ogni altro controllo sulla propria vita. Così il povero viene programmaticamente costruito nell’impotenza sostanziale, nascosta dall’eguaglianza formale: “facilmente il povero perde la tutela giuridica; senza spendere soldi non è possibile ottenere giustizia, senza denaro non è possibile intentare un processo” [L, 1824-5: § 241].

Si fa strada però una chiarezza sempre maggiore. Alla “povertà ingenua”, che legava la sua condizione alla fatalità, subentra una “disposizione d’animo” che impara a chiamare diritto quello alla sussistenza, senza il quale si configura una violazione che a sua volta dà luogo al “risentimento”, poi all’“interiore ribellione contro i ricchi, contro la società, il governo” [L, 1824-5: § 244]. La povertà in quanto tale, come solo dato oggettivo, produce abiezione e degrado ma si trasmuta necessariamente in coscienza di rivendicazione.

Già in Shakespeare [cfr. Coriolano, scritto nel 1610 circa] è visibile il passaggio al “per sé”, all’attività consapevole: “Noi siamo i poveri cittadini; buoni i patrizi. Se ci avessero voluto concedere soltanto il loro superfluo – quando era ancora in buono stato – noi avremmo potuto credere che ci soccorrevano umanamente: ma essi ci trovavano fin troppo costosi. La magrezza che affligge, risultato della nostra miseria, è come l’inventario che stabilisce la loro ricchezza. La nostra miseria è profitto per loro. Rivendichiamolo con le nostre picche prima che diveniamo buoni a nulla. Gli Dei sanno che io parlo così, non già per sete di vendetta ma per fame di pane ... Essi [i patrizi] finora non si so no mai occupati di noi. Lasciano che noi soffriamo la fame mentre i loro granai rigurgitano di frumento. Fanno editti sull’usura per favorire gli usurai: giorno per giorno abrogano una di quelle leggi che furono stabilite a moderazione dei ricchi e giorno per giorno si occupano a promulgare statuti per incatenare ed opprimere i poveri. Se non ci divora la guerra ci divoreranno loro: e questo è tutto l’amore che essi hanno per noi!”.

Sarà Hegel – non più agli albori del capitalismo inglese, ma nella sua fase storica matura, ormai continentale – a parlare di “lotta per il riconoscimento” da parte di questa plebe cosciente di sé, della sua condizione privata della libertà, al pari della schiavitù. Nel concetto di plebe si annidano però ambigue identificazioni con le classi moderne. O è la bestialità, lo “strame”, la “canaglia” odiata da Coriolano – il sottoproletariato senza dignità – o il proletariato industriale parcellizzato e precarizzato capace pe rò di coscienza organizzata, ma sempre alle soglie del pauperismo, in cui la ricorrente assenza di lavoro ne minaccia la caduta.

Nel suo accrescersi – continua l’analisi hegeliana – il sistema dei bisogni accresce anche i mezzi del loro appagamento; il lusso, che necessariamente consegue, contiene in sé il momento della liberazione, l’uomo si comporta in modo universale e non è più in rapporto con l’immediata necessità naturale. Nel conformare il mondo esterno al suo bisogno, l’uo mo diviene reale e accresce la sua dipendenza da altri a loro volta dipendenti. Il lavoro diviene la mediazione fondamentale non solo con la natura e l’appagamento dei bisogni, ma anche per lo sviluppo della cultura, in quanto determinazione e padronanza di sé.

Storicamente il lavoro, soggetto a continuo mutamento, diviene “sempre più meccanico”, ottunde l’opera­io nelle sue abilità e ne degrada lo spirito. Come lo sviluppo della ricchezza genera la povertà, così quello delle forze produttive induce la disumanizzazione. Oggi, infine, ad ulteriore aggravio, quell’ottundimento appare rimosso da una proliferazione di desideri consumistici o fittizi (a negazione dei bisogni reali, parzialmente o debolmente percepiti), oggetto solo di nuovi affari privatamente appropriabili. È il circolo vizioso, o la “cattiva infinità”, del perpetuo accrescimento dei profitti sull’appagamento, ancorché fittizio, di bisogni indotti da modelli sociali cui corrispondere, non sostanziali per la vita. La miseria sposta geograficamente la sua “disperazione” in aree-senza-diritti, mentre in quelle storicamente coscienzializzate si aggiunge e si contrappone la nuova miseria della disacculturazione di ritorno.

I dati di Merrill Lynch che da decenni esaminano patrimoni, rilevano che la fascia di ricchi da oltre un milione di $ (800 mila €) cresce in percentuale maggiore nei paesi cosiddetti emergenti (Asia-Pacifico +7,3%, America Latina +9,7%, Medio Oriente +9,8%), piuttosto che nei paesi secolarmente dominanti (Usa +6,9%, Europa +4,5%). Questa maggiore crescita coincide con le aree a più basso reddito retributivo.

La “nuova” povertà si arricchisce di nuova impotenza a trasformarsi in attività organizzata, nella dispersa generalizzazione mondiale. Tutto lascia pensare a una coscienza plurima e poliforme in fieri, sul supporto di variegate esperienze storiche che, seppure possano essere asportate dalla memoria degli individui, non sono cancellabili da istituzioni, costumi, cose, realtà sociali, ecc. impossibili da far regredire. Proprio come inevitabili danni collaterali dello sviluppo, su cui tutte le forze privatizzate continuamente premono.                      

[c.f.]

 

 

Modo di produzione #1

(in generale)

Oggetto della nostra analisi è anzitutto la produzione materiale.

Il punto di partenza è costituito naturalmente dagli individui che producono in società – e perciò dalla produzione socialmente determinata degli individui. Il singolo e isolato cacciatore e pescatore con cui cominciano Smith e Ricardo, appartengono alle immaginazioni prive di fantasia che hanno prodotto le robinsonate del xviii sec. Quando si parla dunque di produzione, si parla sempre di produzione a un determinato livello di sviluppo sociale – della produzione di individui sociali. Da ciò potrebbe sembrare che, per parlare in generale della produzione, noi dovessimo o seguire il processo di sviluppo storico nelle sue diverse fasi, oppure dichiarare fin dall’inizio che abbiamo a che fare con una determinata epoca storica, e quindi a esempio con la moderna produzione borghese, che in effetti è il tema specifico della nostra analisi. Ma tutte le epoche della produzione hanno certi caratteri in comune, certe determinazioni comuni. La produzione in generale è un’astra­zione, ma un’astrazione che ha un senso, nella misura in cui mette effettivamente in rilievo l’elemen­to comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Tuttavia questo elemento generale, ovvero l’elemento comune che viene astratto e isolato mediante comparazione, è esso stesso qualcosa di complessamente articolato, che si dirama in differenti determinazioni.

Di queste, alcune appartengono a tutte le epoche; altre sono comuni solo ad alcune. Alcune determinazioni saranno comuni tanto all’epoca più moderna quanto alla più antica. Senza di esse sarà inconcepibile qualsiasi produzione; allora bisogna isolare proprio ciò che costituisce il loro sviluppo, ossia la differenza da questo elemento generale, mentre le determinazioni che valgono per la produzione in generale devono essere isolate proprio affinché per l’unità – che deriva già dal fatto che il soggetto, l’umanità, e l’oggetto, la natura, sono i medesimi – non venga poi dimenticata la diversità essenziale. In questa dimenticanza consiste appunto tutta la saggezza degli economisti moderni che dimostrano l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali esistenti. Un esempio di questa dimostrazione: nessuna produzione è possibile senza u­no strumento di produzione, non fos­s’altro questo strumento che la mano; nessuna produzione è possibile senza lavoro passato, accumulato, non fos­s’altro questo lavoro che l’a­bilità assommata e concentrata nella mano del selvaggio mediante l’eser­cizio ripetuto; il capitale è tra l’altro anche uno strumento di produzione, anche lavoro passato, oggettivato; dunque il capitale è un rapporto naturale eterno, universale. Ovverosia, a condizione che io tralasci proprio quell’elemento specifico che solo trasforma uno “strumento di produzione”, un “lavoro accumulato”, in un capitale.

Ogni produzione è un’appropria­zio­ne della natura da parte dell’indi­viduo, entro e mediante una determinata forma di società. In questo senso è una tautologia dire che la proprietà (l’appropriazione) è una condizione della produzione. Ma è ridicolo saltare da questo fatto a una determinata forma della proprietà, per esempio alla proprietà privata (il che per giunta suppone una forma antitetica, la non-proprietà, anch’essa come condizione).

La storia mostra piuttosto che la proprietà comune è la forma più originaria, una forma che, nella veste di proprietà comunale, svolge ancora per lungo tempo una funzione importante. L’economia borghese come mera forma storica del processo di produzione rinvia, al di là di se stessa, a precedenti modi storici di produzione. Non è necessario perciò, per enucleare le leggi dell’economia borghese, scrivere la storia reale dei rapporti di produzione. Ma l’esatta intuizione e deduzione di tali rapporti in quanto sono essi stessi sorti storicamente, conduce sempre a prime e­quazioni che rinviano ad un passato che sta alle spalle di questo sistema. Queste indicazioni, unite all’esatta comprensione del presente, offrono poi anche la chiave per intendere il passato – che è un lavoro a sé a cui pure speriamo di arrivare. Questa osservazione esatta porta d’altra parte a individuare anche dei punti nei quali c’è l’indizio di un superamento del­l’attuale forma dei rapporti di produzione – e quindi un presagio del futuro, un movimento che diviene. Se da una parte le fasi preborghesi si presentano come fasi soltanto storiche, cioè come presupposti superati, le attuali condizioni della produzione si presentano d’altra parte come condizioni che superano anche sé stesse e perciò pongono i presupposti storici per una nuova situazione sociale.

Le condizioni originarie della produzione (o, che è lo stesso, la riproduzione degli uomini, il cui numero aumenta attraverso il processo naturale dei due sessi; giacché questa riproduzione, se da un lato si presenta come appropriazione degli oggetti da parte dei soggetti, dall’altro si presenta altresì come formazione degli oggetti, come sottomissione degli oggetti a uno scopo soggettivo, come trasformazione di questi in risultati e ricettacoli dell’attività soggettiva) non possono essere originariamente prodotte esse stesse – essere cioè risultati della produzione. Non è l’unità degli uomini viventi e attivi con le condizioni naturali inorganiche del loro ricambio materiale con la natura, e per conseguenza la loro appropriazione della natura, che ha bisogno di una spiegazione o che è il risultato di un processo storico, ma la separazione di queste condizioni inorganiche dell’esistenza umana da questa esistenza attiva, una separazione che si attua pienamente soltanto nel rapporto tra lavoro salariato e capitale.

Proprietà significa dunque, originariamente, nient’altro che il rapporto dell’uomo con le condizioni naturali della produzione in quanto gli appartengono, in quanto sono sue, e in quanto sono presupposte con la sua propria esistenza; il rapporto con esse in quanto presupposti naturali di se stesso, i quali formano per così dire solo il prolungamento del suo corpo. Egli non ha, a rigore, un rapporto con le proprie condizioni di produzione; egli esiste bensì in duplice modo, soggettivamente in quanto uomo stesso, oggettivamente in queste condizioni naturali inorganiche della sua esistenza. Un grado determinato dello sviluppo delle forze produttive dei soggetti che lavorano — a cui corrispondono rapporti determinati tra questi e con la natura: ecco in che cosa si dissolve, in ultima istanza, sia la loro comunità, sia la proprietà, che su di essa si basa. Fino a un certo punto c’è riproduzione. Poi questa si rovescia in disgregazione. Originariamente, dunque, proprietà significa rapporto del soggetto che lavora (che produce) (e che si riproduce) con le condizioni della sua produzione o riproduzione in quanto gli appartengono. Essa avrà pertanto anche diverse forme secondo le condizioni di questa produzione. La produzione stessa ha per scopo la riproduzione del produttore in, e con, queste sue condizioni oggettive di esistenza. La questione che qui ci interessa in primo luogo è questa: il rapporto del lavoro col capitale, ossia con le condizioni oggettive del lavoro come capitale, presuppone un processo storico che dissolve le diverse forme in cui il lavoratore è proprietario o il proprietario lavora.        [k.m.]

 

 

Modo di produzione #2

(capitalistico e forme precedenti)

La questione che qui ci interessa in primo luogo è questa: il rapporto del lavoro col capitale, ossia con le condizioni oggettive del lavoro come capitale, presuppone un processo storico che dissolve le diverse forme in cui il lavoratore è proprietario o il proprietario lavora.
Dunque innanzitutto: 1) Dissoluzione del rapporto con la terra – col suolo – quale condizione naturale di produzione, con cui egli sta in rapporto come con la sua propria esistenza inorganica, laboratorio delle sue forze e dominio della sua volontà. Tutte le forme in cui si presenta questa proprietà presuppongono una comunità, i cui membri, pur se tra loro possono esistere differenze formali, in quanto suoi membri sono proprietari. La for­ma originaria di questa proprietà è pertanto la stessa proprietà comune diretta (forma orientale, modificata nella forma slava; sviluppata fino al­l’opposto, ma pur sempre base nascosta anche se contraddittoria nella proprietà antica e germanica). 2) Dissoluzione dei rapporti in cui egli figura come proprietario dello strumento. Come la forma suddetta di proprietà fondiaria presuppone una comunità reale, cosi questa proprietà del lavoratore sullo strumento presuppone u­na particolare forma di sviluppo del lavoro manifatturiero come lavoro artigiano; a questo è connesso il sistema delle corporazioni, ecc. (Qui il lavoro stesso è ancora per metà artigianale, per metà fine a se stesso; ecc. L’organizzazione dei maestri artigiani. Il capitalista stesso è ancora maestro. L’abilità particolare nel lavoro garantisce anche il possesso dello strumento, ecc. Ereditarietà quindi, in certo qual modo, della tecnica di lavoro, insieme con l’organiz­zazione del lavoro e lo strumento del lavoro. Le città medievali. Il lavoro è ancora lavoro personale; un determinato sviluppo autosufficiente di capacità unilaterali, ecc.). 3) Ambedue i casi implicano che egli prima di produrre possegga i mezzi di consumo necessari per vivere come produttore – durante la sua produzione, quindi prima del completamento di questa. Come proprietario fondiario egli appare provvisto direttamente del fondo di consumo necessario. Come maestro artigiano egli lo ha ereditato, guadagnato, risparmiato, e come garzone artigiano egli è dapprima apprendista, condizione questa in cui egli non figura ancora affatto come vero e proprio lavoratore autonomo, ma siede in modo patriarcale alla mensa del maestro. Come lavorante (effettivo), esiste una certa comunanza del fondo di consumo posseduto dal maestro. Anche se questo non è proprietà del lavorante, in virtù delle leggi della corporazione, delle sue tradizioni ecc. egli è per lo meno associalo al possesso, ecc. 4) Dissoluzione, d’altra parte, anche dei rapporti in cui gli stessi lavoratori, le stesse capacità di lavoro vive fanno ancora parte direttamente delle condizioni oggettive della produzione e come tali vengono appropriate – in cui cioè sono schiavi o servi della gleba. Per il capitale, condizione della produzione non è il lavoratore, ma solo il lavoro. Se può farlo compiere dalle macchine o addirittura dall’ac­qua, dall’aria, tanto meglio. E il capitale non si appropria del lavoratore, ma del suo lavoro – non immediatamente ma mediatamente attraverso lo scambio.

Questi sono ora, da un lato, i presupposti storici necessari per trovare il lavoratore come lavoratore libero, come capacità lavorativa priva di oggettività, puramente soggettiva, che si contrappone alle condizioni oggettive della produzione come alla sua non proprietà, come a proprietà altrui, a valore per se stante, a capitale. Da una parte si presuppongono processi storici che hanno posto una massa di individui di una nazione, ecc. nella condizione se non inizialmente di lavoratori effettivamente liberi, tuttavia di lavoratori che lo sono potenzialmente [d???µe?], la cui unica proprietà è la loro capacità lavorativa e la possibilità di scambiarla con valori esistenti; individui ai quali tutte le condizioni oggettive della produzione stanno di fronte come proprietà altrui, come loro non-proprietà, ma al tempo stesso scambiabili come valori, e pertanto appropriabili fino a un certo grado, mediante lavoro vivo. In tutti questi processi di dissoluzione si vedrà, a un esame più attento, che vengono dissolti rapporti di produzione in cui predomina il valore d’uso, la produzione per l’uso immediato; il valore di scambio e la sua produzione presuppone il predominio dell’altra forma.

Ciò che in primo luogo qui ci interessa è questo: il processo di dissoluzione, che trasforma una massa di individui di una nazione, ecc, in salariati d???µe? liberi – individui costretti solo dalla loro mancanza di proprietà a lavorare e a vendere il loro lavoro – presuppone d’altra parte non che le tradizionali fonti di reddito e, parzialmente, le condizioni di proprietà di questi individui siano scomparse, ma al contrario, che sia mutata soltanto la loro utilizzazione, che il loro modo di esistenza si sia trasformato, sia passato come libero fondo in altre mani, o anche in parte sia rimasto nelle stesse mani. Ma una cosa è chiara; il processo che ha separato una massa di individui dai loro tradizionali rapporti in un modo o nell’al­tro positivi con le condizioni oggettive del lavoro, che ha negato questi rapporti e così ha trasformato questi individui in lavoratori liberi, è lo stesso processo che ha liberato queste condizioni oggettive del lavoro – terra, materia prima, mezzi di sussistenza, strumenti dì lavoro, denaro, o tutto ciò insieme – dal loro tradizionale legame con gli individui che ne sono stati poi staccati. Lo stesso processo che ha contrapposto alle condizioni oggettive del lavoro la massa sotto forma di lavoratori, liberi, ha anche contrapposto ai lavoratori liberi queste condizioni sotto forma di capitale. Il processo storico è consistito nella separazione di elementi tradizionalmente uniti – il suo risultato non è pertanto la scomparsa di uno degli elementi, ma la comparsa di ciascuno di questi in una relazione negativa con l’altro – il lavoratore libero (potenzialmente) da una parte, il capitale (potenzialmente) dall’altra. La separazione delle condizioni oggettive al polo delle classi che sono state trasformate in lavoratori liberi deve presentasi altresì come una autonomizzazione di queste stesse condizioni al polo opposto.

Se si considera il rapporto tra capitale e lavoro salariato non come rapporto che già di per sé regola e domina la totalità della produzione, ma nella sua genesi storica – cioè se si considera la trasformazione originaria di denaro in capitale, il processo di scambio tra il capitale che esiste soltanto d???µe? da una parte, e i liberi lavoratori che esistono d???µe? dal­l’altra – allora si impone naturalmente quella semplice osservazione su cui fanno tanto chiasso gli economisti: che la parte che si presenta come capitale deve possedere le materie prime, gli strumenti di lavoro e i m­ezzi di sussistenza affinché il lavoratore possa vivere durante la produzione, prima cioè che questa sia compiuta. E ciò implica inoltre che deve esserci stata dalla parte del capitalista un’accumulazione – un’accumulazio­ne precedente al lavoro e non scaturita da esso – che lo mette in condizione di far lavorare il lavoratore, di mantenerlo efficiente, di mantenerlo come forza-lavoro viva. Questa azione del capitale, indipendente dal lavoro, non posta da esso, viene poi ulteriormente trasferita da questa storia della sua genesi al presente, viene trasformata in un momento della sua realtà e della sua efficienza, della sua autoformazione. Finalmente poi da ciò viene dedotto il diritto eterno del capitale ai frutti del lavoro altrui, o piuttosto il suo modo di guadagno viene sviluppato dalle semplici e “gi­uste” leggi dello scambio di equivalenti. La ricchezza esistente sotto for­ma di denaro può essere permutata con le condizioni oggettive del lavoro solo perché e se queste sono staccate dal lavoro stesso.

Le condizioni essenziali sono poste nel rapporto stesso così come si presenta originariamente: 1) da una parte, la presenza della forza-lavoro viva come mera esistenza soggettiva, separata dai momenti della sua realtà oggettiva, e perciò separata tanto dalle condizioni del lavoro vivo quanto dai mezzi di esistenza, dai mezzi di sussistenza, dai mezzi di autoconservazione della forza-lavoro viva; da un parte, dunque, la possibilità vivente del lavoro in questa assoluta astrazione; 2) il valore che si trova dal­l’altra parte, o lavoro oggettivato, deve essere un’accumulazione di valori d’uso, abbastanza grande da fornire le condizioni materiali non soltanto per la produzione dei prodotti o valori necessari a riprodurre o a conservare la forza-lavoro viva; ma anche per assorbire pluslavoro per fornirle il materiale oggettivo; 3) un libero rapporto di scambio – circolazione di denaro – tra le due parti; una relazione tra gli estremi basata sui valori di scambio – non su rapporti di signoria e di servitù; il che vuol dire, quindi, una produzione che non fornisce immediatamente i mezzi di sussistenza al produttore, ma è invece mediata dallo scambio, e che tanto meno può impossessarsi immediatamente del lavoro altrui, ma deve invece comprarlo dal lavoratore stesso, ottenerlo mediante lo scambio; infine 4) una delle due parti – quella che rappresenta le condizioni materiali del lavoro sotto forma di valori autonomi, per sé stanti deve presentarsi come valore e contemplare come scopo ultimo la creazione del valore, l’autovalorizza­zione, la creazione di denaro – e non immediatamente il godimento e la creazione di un valore d’uso.

Nella fase che precede la società capitalistica, il commercio domina l’in­dustria: il contrario avviene nella società moderna. Il commercio reagirà naturalmente più o meno sulle comunità che vi partecipano; sottometterà sempre più la produzione al valore di scambio, facendo dipendere sempre maggiormente godimenti e sussistenza dalla vendita, anziché dall’uso im­mediato dei prodotti. Esso dissolve con ciò gli antichi rapporti. Aumenta la circolazione monetaria. Si impadronisce non più semplicemente della eccedenza della produzione, ma a poco a poco investe la produzione stessa e sottomette al suo potere interi rami di produzione. Questo effetto dissolvente tuttavia dipende grandemente dalla natura delle comunità produttrici.

Lo sviluppo del commercio e del capitale commerciale orienta dovunque la produzione verso il valore di scambio, ne aumenta il volume, ne accresce la varietà e le imprime un carattere internazionale, trasforma il denaro in moneta mondiale. Il commercio esercita perciò dovunque un’azione più o meno disgregatrice sulle organizzazioni preesistenti della produzione, le quali, in tutte le loro diverse forme, sono principalmente orientale verso il valore d’uso. Quale efficacia abbia tuttavia questa azione disgregatrice sull’antico modo di pro­duzione, dipende soprattutto dalla solidità e dall’intima struttura di ques­t’ultimo. E dove sfoci questo processo di disgregazione, ossia quale nuovo modo di produzione si sostituisca all’antico, non dipende dal commercio, ma dal carattere stesso del vecchio modo di produzione. Nel mondo moderno esso sfocia nel modo capitalistico di produzione.

La struttura economica della società capitalistica è derivata dalla struttura economica della società feudale. La dissoluzione di questa ha liberato gli elementi di quella. Il produttore immediato, il lavoratore, ha potuto disporre della sua persona soltanto dopo aver cessato di essere legato alla gleba e di essere servo di un’altra persona o infeudato ad essa. Per divenire libero venditore di forza-lavo­ro, che porta la sua merce ovunque essa trovi un mercato, il lavoratore ha dovuto inoltre sottrarsi al dominio delle corporazioni, ai loro ordina-menti sugli apprendisti e sui garzoni e all’impaccio delle loro prescrizioni per il lavoro. Così il movimento storico, che trasforma i produttori in lavoratori salariati si presenta, da un lato, come loro liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e per i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dall’altro lato questi affrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali.

I capitalisti industriali, questi nuovi potentati, hanno dovuto per parte loro non solo soppiantare i maestri artigiani delle corporazioni, ma anche i signori feudali possessori delle fonti di ricchezza. Da questo lato l’ascesa dei capitalisti si presenta come frutto di una lotta vittoriosi tanto contro il potere feudale e contro i suoi rivoltanti privilegi, quanto contro le corporazioni e contro i vincoli posti da queste al libero sviluppo della produzione e al libero sfruttamento del­l’uomo da parte dell’uomo. Fanno epoca, dal punto di vista storico, tutti i rivolgimenti che servono di leva alla classe dei capitalisti in formazione; ma soprattutto i momenti nei quali grandi masse di uomini vengono stac­cate improvvisamente e con la forza dai loro mezzi di sussistenza e gettate sul mercato del lavoro come proletariato eslege. L’espropriazione dei produttori rurali, dei contadini e la loro espulsione dalle terre costituisce il fondamento di tutto il processo. Così la popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato.

Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non abbiano altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazio­ne del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sul lavoratore. Si continua, è vero, sempre a usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose il lavoratore può rimanere affidalo alle “leggi naturali della produzione”, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse.   [k.m.]

(C. i, 20; iii, 23. LF. m;iv;v)

 

Mondo

(critica della “globalizzazione”)

“L’essere che tutto abbraccia è unico. Nella sua autosufficienza esso non ha niente accanto a sé o sopra di sé. Associargli un secondo essere significa farlo diventare ciò che non è, cioè una parte o un elemento costitutivo di un tutto più ampio. Poiché noi distendiamo il nostro pensiero unitario, per così dire, come una cornice, niente di ciò che deve rientrare in questa unità di pensiero può contenere in sé una dualità. Ma niente può neppure sottrarsi a questa unità di pensiero. L’essenza di tutto il pensiero consiste nella riunione degli elementi della coscienza in una unità. Proprio l’unità puntuale della sintesi fa sorgere il concetto del mondo indivisibile e riconoscere l’universo, come già dice la parola, come qualche cosa in cui tutto è riunito in una unità”. Così Dühring.

“L’essere che tutto abbraccia è unico”. Se è una tautologia, semplice ripetizione nel predicato ciò che è già espresso nel soggetto, costituisce un assioma, qui ne abbiamo uno della più bell’acqua. Nel soggetto Dühring ci dice che l’essere abbraccia tutto e nel predicato afferma intrepido che allora niente è fuori di esso. Che colossale idea “creatrice di un sistema”! Creatrice di un sistema, infatti. Non sono ancora passate altre sei righe ed ecco che Dühring, per mezzo del nostro pensiero unitario, ha trasformato l’unicità dell’essere nella sua unità. Poiché l’essenza di tutto il pensiero consiste nell’attività sintetica unitaria, l’essere, appena viene pensato, viene pensato come unitario: il concetto del mondo è un concetto indivisibile; e poiché l’essere pensatoil concetto del mondo – è unitario, l’essere reale, il mondo reale, è parimenti un’unità indivisibile. Come arriviamo dall’unicità del­l’essere alla sua unità?

In generale col pensarlo nella nostra mente. L’es­sere unico diventa nel pensiero un essere unitario, un’unità ideale, non appena intorno a esso ten­diamo “il nostro pensiero unitario come una cornice”; infatti, l’essenza di tutto il pensiero consiste nella riunione di elementi della coscienza [<=] in un’unità: questa proposizione è semplicemente falsa. Il pensiero non può che raccogliere in un’unità quegli ele­menti del­la coscienza nei quali, o nei prototipi reali dei quali, questa unità esisteva già da prima. Se si sussume una spazzola da scarpe sotto l’unità “mammifero”, ci vuol altro perché  le crescano le mammelle. L’unità del­l’essere., ossia la legittimità del fatto che esso venga concepito nel pensiero come unità, è quindi proprio ciò che si doveva dimostrare.  

Il socialismo moderno, considerato nel suo contenuto, è anzitutto il risultato della visione, da una parte, degli antagonismi di classe, dominanti nella società moderna, tra possidenti e non possidenti, salariati e borghesi; dall’altra, dell’anarchia do­minante nella produzione. Dai grandi illuministi francesi del XVIII secolo, l’intelletto pensante fu applicato a tutto come unica misura. Era il tempo in cui – come dice  Hegel – il mondo ven­ne poggiato sulla testa, dapprima nel senso che la testa dell’uomo e i princìpi trovati dal suo pensiero pretendevano di valere come base di ogni azione e di ogni associazione uma­na; ma più tardi anche nel senso più ampio che la realtà che era in contraddizione con questi princìpi fu effettivamente rovesciata da cima a fondo. Tutte le forme sociali e politiche che fino allora erano esistite, tutte le antiche concezioni che si erano tramandate, furono gettate in soffitta come cose irrazionali.

Noi sappiamo ora che questo “re­gno della ragione” non fu altro che il regno della borghesia idealizzato, che la giustizia eterna trovò la sua realizzazione nella giustizia borghese [<=]; che l’eguaglianza andò a finire nella borghese eguaglianza davanti alla legge; che la proprietà borghese fu proclamata proprio come uno dei più essenziali diritti dell’uomo; e che lo stato [<=] conforme a ragione, il “con­tratto sociale” di Rousseau, si realizzò, e solo così poteva realizzarsi, come repubblica democratica borghese.

Ma, accanto all’antagonismo [<=] tra nobiltà feudale e borghesia, sussisteva l’antagonismo generale tra sfruttatori e sfruttati, tra ricchi oziosi e lavoratori poveri. E precisamente questa circostanza rendeva possibile ai rappresentanti della borghesia di ergersi a rappresentanti non soltanto di una classe [<=] particolare, ma di tutta l’u­manità sofferente. E c’è di più. Fin dalla sua origine la borghesia era affetta dall’antagonismo che le è proprio: non possono esserci capitalisti senza lavoratori salariati. E sebbene nel complesso la borghesia avesse il diritto di pretendere di rappresentare contemporaneamente, nella lotta con­tro la nobiltà, l’interesse delle diverse classi lavoratrici di quell’epoca, pure, in ogni grande movimento borghese, scoppiavano dei moti autonomi di quella classe che era la precorritrice più o meno sviluppata del proletariato moderno.

Gli illuministi vogliono liberare non una classe determinata, ma tutta l’umanità. Il mondo borghese, ordinato secondo i princìpi di questi illuministi è irrazionale e ingiusto e trova il suo posto nel secchio dell’im­mondizia. Questo modo di vedere è sostanzialmente quello di tutti i “so­cialisti”. Il “socialismo” è l’e­spres­sione dell’assoluta verità, del­l’assolu­ta ragione, dell’assoluta giustizia [<=] e basta che sia scoperto perché conquisti il mondo con la propria forza; poiché la “verità assoluta” è indipendente dal tempo, dallo spazio e dallo sviluppo storico dell’uomo, è un sem­plice caso quando e dove sia scoperta. Inoltre poi la verità, la ragione e la giustizia assolute a loro volta sono di­verse per ogni caposcuo­la; e poiché  la forma particolare che la verità, la ragione e la giustizia assolute assumono è a sua volta condizionata dal­l’intelletto soggettivo, dal­le condizioni di vita, dal grado di cognizioni e di educazione a pensare di ognuno di essi, in questo conflitto di assolute verità non c’è nessuna altra soluzione possibile se non che esse si elidano vicendevolmente.

Così stando le cose, non poteva allora venir fuori altro che una specie di socialismo medio eclettico, quale effettivamente regna fino a oggi nella testa della maggior parte dei lavoratori socialisti; una miscela che ammette un’infinita molteplicità di sfumature, e che risulta da ciò che hanno di meno incisivo le invettive critiche, i princìpi di economia e le rappresentazioni della società futura dei vari fondatori di sètte; miscela che si ottiene tanto più facilmente quanto più ai singoli elementi componenti, nel corso della discussione, vengono smussati gli angoli acuti della precisione, come ciottoli levigati nel torrente. Per fare del socialismo una scienza bisognava anzitutto farlo poggiare su una base reale.

[f.e.]

(da Anti-Dühring, Intro.1, I.4)

 

 

Moneta

(prezzi e circolazione)

La grandezza di valore della merce esprime un rapporto necessario, immanente al suo processo di formazione, con il tempo sociale di lavoro. Con la trasformazione della grandezza di valore in prezzo, questo rapporto necessario si presenta come rapporto di scambio di una merce con la merce denaro esistente fuori di essa. Però, in questo rapporto può trovare espressione tanto la grandezza di valore della merce, quanto il più o il meno, nel quale essa è alienabile in date circo­stanze. La possibilità di un’incon­gruenza quantitativa fra prez­zo e grandezza di valore, sta dun­que nella forma stessa di prezzo. E questo non è un difetto di tale forma, anzi al contrario ne fa la forma adeguata d’un modo di produzione, nel quale la regola si può far valere soltanto come legge della media della sregolatezza, operante alla cieca.

Data la somma di valore delle merci e data la velocità media delle loro metamorfosi, la quantità del denaro ossia del materiale monetario in corso, dipende dal suo proprio valore. L’illusione che i prezzi delle merci, viceversa, siano determinati dalla massa dei mezzi di circolazione, e questa massa sia determinata a sua volta dalla massa del materiale monetario che si trova in un dato paese, ha la sua radice, nei suoi primi sostenitori, nell’ipotesi assurda che entrino merci senza prezzo e denaro senza valore nel processo della circolazione, dove poi una parte aliquota del pastone di merci si scambierebbe con una parte aliquota del mucchio di metallo.

Il prezzo è il nome di denaro del lavoro oggettivato nella merce. L’equi­valenza della merce e della quantità di denaro il cui nome costituisce il prezzo della merce, è quindi una tautologia, come, in genere, l’espressio­ne relativa di valore di una merce è sempre l’espressione dell’equivalen­za di due merci. Ma se il prezzo, come esponente della grandezza di valore della merce, è esponente del suo rapporto di scambio col denaro, non ne segue l’inverso, che l’esponente del suo rapporto di scambio col denaro sia di necessità l’esponente della sua grandezza di valore.

Il prezzo, ossia la forma di denaro delle merci è, come loro forma di valore in generale, una forma distinta dalla loro forma corporea tangibilmente reale, quindi nella sua funzione di misura del valore il denaro come denaro è solo forma ideale ossia rappresentata; per questa operazione è usabile anche soltanto oro rappresentato e non c’è bisogno di nemmeno un grammo d’oro reale, per valutare in oro milioni di valori di merci. Questa circostanza ha provocato le teorie più pazzesche.

Benché solo il denaro ideale serva alla funzione di misura del valore, il prezzo dipende in tutto e per tutto dal materiale reale del denaro. Il valore, cioè la quantità di lavoro umano, viene espresso in una quantità ideale della merce denaro, la quale contiene altrettanto lavoro. Dunque, il valore riceve differentissime espressioni di prezzo a seconda che come misura di valore servono l’oro, l’argento o il rame, ossia il valore viene rappresentato in differentissime quantità d’oro, d’argento o di rame.

Quindi, per esercitare praticamente l’azione di un valore di scambio, la merce deve spogliarsi del suo corpo naturale, trasformarsi da oro soltanto rappresentato in oro reale. Accanto alla sua forma reale, la merce può avere nel prezzo forma ideale di valore, ossia forma rappresentata d’o­ro, ma non può essere insieme, a esempio, realmente ferro e realmente oro. Per darle un prezzo basta equipararle oro rappresentato. Con l’oro, la si deve sostituire affinché essa fornisca al suo possessore il servizio d’un equivalente generale.

I prezzi o quantità d’oro nei quali si sono idealmente trasformati i valori delle merci, vengono espressi nei nomi di moneta, cioè nei nomi di conto della scala oro validi per legge. Quindi, invece di dire che il quarter di grano è eguale a un’oncia d’oro, in Inghilterra si dirà che esso è eguale a 3 sterline, dieci scellini e dieci pence e mezzo. Così le merci si dicono quel che valgono coi loro nomi di denaro, e il denaro serve come moneta di conto tutte le volte che importa fissare una cosa come valore, quindi fissarla in forma di denaro. Il nome d’u­na cosa è per sua natura del tutto esteriore. Se so che un uomo si chiama Jacopo, non so nulla sull’uomo. Così nei nomi di denaro, lira sterlina, tallero, franco, ducato, scompare ogni traccia del rapporto di valore.

La confusione a proposito del significato arcano di questi segni cabalistici è tanto più grande per il fatto che i nomi di denaro esprimono insieme il valore delle merci e anche parti aliquote d’un peso di metallo, della scala denaro. Dall’altra parte, è necessario che il valore si evolva, a differenza dei variopinti corpi del mondo delle merci, fino a raggiungere tale forma non concettuale e materiale, ma anche semplicemente sociale.

La forma di prezzo implica l’aliena­bilità delle merci contro denaro e la necessità di tale alienazione. D’altra parte, l’oro funziona come misura di valore ideale soltanto perché si muove come merce denaro già nel processo di scambio. Si deve considerare tutto il processo dal lato della forma, cioè soltanto il cambiamento di forma ossia la metamorfosi delle merci funge da mediatrice nel ricambio organico sociale. L’imperfettissima comprensione di tale mutamento di forma, a parte la poca chiarezza a proposito dello stesso concetto di valore, è dovuta alla circostanza che ogni metamorfosi di una sola merce si compie nello scambio fra due merci, una merce in generale e la merce denaro. Se si tiene fermo soltanto a questo momento materiale, allo scambio di merce con oro, non si osserva proprio quel che si deve osservare, cioè quello che succede alla forma. Non si osserva che l’oro come pura e semplice merce non è denaro, e che le altre merci riferiscono se stesse, nei loro prezzi, all’oro come loro propria figura di denaro. Nella misura ideale dei valori sta dunque in agguato la dura moneta.

Poiché la moneta in certe sue determinate funzioni può essere sostituita con semplici segni di se stessa, è sorto l’errore ch’essa sia un semplice segno. D’altra parte, in tutto ciò c’era l’intuizione che la forma di denaro della cosa le sia esterna, e sia pura forma fenomenica di rapporti umani nascosti dietro di essa. In questo senso, ogni merce sarebbe un segno, poiché, come valore, sarebbe soltanto l’involucro materiale del lavoro umano speso per essa. Ma dichiarando puri segni i caratteri sociali che ricevono gli oggetti, ossia i caratteri oggettivi che ricevono le determinazioni sociali del lavoro sulla base d’un determinato modo di produzione, si dichiara contemporaneamente che essi sono il prodotto arbitrario della riflessione dell’uomo.

La carta moneta è segno d’oro, cioè segno di denaro. Il suo rapporto coi valori delle merci sta solo nel fatto che questi vengono espressi idealmente con le medesime quantità d’o­ro che sono rappresentate simbolicamente e visibilmente dalla carta. La carta moneta è segno di valore solo in quanto rappresenta quantità d’oro che sono anche quantità di valori, come tutte le altre quantità di merci. Si domanda perché l’oro possa essere sostituito con semplici segni di se stesso, senza alcun valore proprio. Esso è sostituibile a questo modo solo in quanto viene isolato o reso indipendente nella sua funzione di moneta o mezzo di circolazione.

Le monete d’oro sono semplici monete o mezzi di circolazione esattamente soltanto finché circolano realmente. Tuttavia, quel che non vale per la singola moneta d’oro, vale per la massa minima d’oro sostituibile con la carta moneta. Questa abita costantemente nella sfera della circolazione, funziona continuamente come mezzo di circolazione, ed esiste quindi soltanto come depositaria di questa funzione.

Il risultato della circolazione delle merci, che è la sostituzione di merce con altra merce, non appare quindi mediato dal cambiamento di forma delle merci, ma dalla funzione del denaro come mezzo di circolazione, che fa circolare le merci, le quali in sé e per sé sono immobili, che le trasporta dalla mano nella quale sono non-valori d’uso, nella mano in cui sono valori d’uso, e sempre in direzione opposta al suo proprio corso. D’altra parte, al denaro la funzione di mezzo di circolazione spetta soltanto perché esso è il valore delle merci, divenuto indipendente. Il suo movimento come mezzo di circolazione è quindi, di fatto, soltanto il movimento di forma proprio delle merci, il quale dunque si deve rispecchiare anche in maniera sensibile nel corso del denaro.

Dalla funzione del denaro come mezzo di circolazione sorge la sua figura di moneta. La parte di peso d’oro rappresentata nel prezzo ossia nel nome in denaro delle merci, deve presentarsi di contro ad esse, nella circolazione, come pezzo d’oro di identico nome, ossia moneta. Come già la definizione della scala di misura dei prezzi, la monetazione è affare che spetta allo stato.

Nelle differenti uniformi nazionali che oro e argento portano quando sono moneta, ma che poi tornano a svestire sul mercato mondiale, si fa luce la distinzione fra le sfere interne o nazionali della circolazione delle merci e la loro sfera generale, il mercato mondiale [<=]. La moneta divisionale appare accanto all’oro per il pagamento di frazioni della moneta d’oro minima; l’oro entra costantemente nella circolazione di dettaglio, ma ne viene con altrettanta costanza messo fuori mediante il cambio con moneta divisionale.

In stadi meno sviluppati della società civile, una gran parte delle merci verrà stimata ancora per un certo tempo nella misura di valore, ormai divenuto illusorio, antiquato. Intanto una merce infetterà l’altra mediante il suo rapporto di valore con essa, i prezzi dell’oro (o dell’argento) si conguaglieranno a poco per volta nelle proporzioni determinate dai loro stessi valori, finché in conclusione tutti i valori delle merci verranno stimati in corrispondenza al nuovo valore del metallo-denaro. Questo processo di conguaglio è accompagnato dall’aumento continuo dei metalli nobili, i quali affluiscono sostituendo le merci scambiate direttamente con essi. Quindi nella stessa misura che si generalizza la correzione dei prezzi delle merci, ossia che i valori delle merci vengono stimati a norma del nuovo valore del metallo – caduto e che continua a cadere fino a un certo punto – è già presente la massa supplementare di esso necessaria alla realizzazione della correzione stessa.

Se lo stesso corso del denaro separa il contenuto reale dal contenuto nominale della moneta, ossia separa la sua esistenza di metallo dalla sua esistenza funzionale, questo significa che in esso è latente la possibilità di sostituire il denaro metallico, nella sua funzione di moneta, con marche di altro materiale, ossia con simboli. L’esistenza di moneta dell’oro si separa completamente dalla sua sostanza di valore. Quindi cose che sono, relativamente, senza valore, cedole di carta, possono funzionare in vece sua come moneta. Nella carta moneta il carattere puramente simbolico di denaro salta agli occhi. La carta moneta statale a corso forzoso nasce direttamente dalla circolazione metallica.

In un processo che fa passare costantemente il denaro da una mano all’altra, è sufficiente anche la sua esistenza puramente simbolica. Per così dire, la sua esistenza funzionale assorbe la sua esistenza materiale. Riflesso dileguante oggettivato dei prez­zi delle merci, esso funziona ormai soltanto come segno di se stesso, e quindi può esser sostituito con segni. Solo che il segno del denaro ha bisogno di una sua propria validità oggettivamente sociale: e il simbolo cartaceo ottiene tale validità mediante il corso forzoso. Questa coercizione del­lo stato è valida solo all’interno di una sfera di circolazione circoscritta dai confini di una comunità, ossia interna; ma del resto, solo in essa il denaro si risolve completamente nella propria funzione di mezzo di circolazione o moneta, e può quindi ricevere nella carta moneta un genere di esistenza esternamente separato dalla sua sostanza metallica e puramente funzionale. Lo stato getta nel processo della circolazione, dal di fuori, cedole di carta sulle quali sono stampati nomi di denaro. Finché esse circolano realmente al posto della somma di oro dello stesso peso, nel loro movimento si rispecchiano soltanto le leggi del corso del denaro.

Una legge specifica della circolazione cartacea può sorgere soltanto dal suo rapporto con l’oro, in quanto essa è rappresentante di quest’ulti­mo. Tale legge è semplicemente questa: l’emissione di carta moneta deve essere limitata alla quantità nella quale dovrebbe realmente circolare l’oro (o l’argento) da essa simbolicamente rappresentato. Ma se oggi tutti i canali della circolazione vengono riempiti di carta moneta al pieno limite della loro capacità d’assor­bimento di denaro, domani essi potranno essere sovrappieni, in conseguenza delle oscillazioni della circolazione delle merci. Ogni misura è perduta.

Se la carta sorpassa la sua misura, cioè la quantità di moneta d’oro della medesima denominazione che potrebbe circolare, essa rappresenta entro il mondo delle merci, e astrazione fatta dal pericolo d’un discredito generale, ormai soltanto la quantità di oro determinata dalle sue leggi immanenti, e quindi anche l’unica che possa rappresentare. L’effetto è lo stesso che se si fosse alterato l’oro, nella sua funzione di misura dei prezzi. Gli stessi valori quindi che prima si esprimevano nel prezzo di una sterlina, si esprimono ora nel prezzo di due sterline.

[k.m.]

(da Karl Marx, Il capitale, I.2-3)

 

 

 

Moneta circolante

(forme, M3)

La moneta non è il denaro [=>], ma quest’ultimo fonda ogni forma monetaria, vera o finta che sia, metallica, cartacea (legale o forzosa), di conto, elettronica o pure virtuale in qualunque veste, presente futura o fittizia. E il denaro è tale in quanto corrisponda alla ricchezza reale prodotta; nel mo­do di produzione capitalistico è merce che sta di fronte ad altre merci. Ma trasformato in moneta, coniata da stati e istituzioni, assume una certa autonomia, almeno fino a quando l’ec­cesso di moneta forzosa e fittizia la consenta. Dopo di ciò, tuttavia, l’in­flazione cartacea sommerge tutto.

A causa della speculazione [=>], che promana dalle esigenze della circolazione, è il sistema capitalistico stesso che esige una crescente presenza di moneta circolante (in qualunque for­ma, reale o virtuale, in quantità o veloce ripetitività), con accresciuti rischi di instabilità. Allorché, come oggi, non esistono soltanto vere monete, è conseguenza che la “moneta”, emessa dallo stato o dalla banca centrale, si presenti in for­ma di banconote (delle monete metalliche non è più neppure il caso di parlare) o pure di un qualche “certificato” monetario (che è un tipo di denaro emesso da un organo privato o pubblico, o conto corrente di banche ordinarie). Ma solo queste due ultime entità rappresentano la massa monetaria (quantitativa e circolante) che costitui­sce la reale offerta di moneta emessa dall’istituto preposto, che per­ciò riesce facilmente a controllarla [per dati e definizioni cfr. Bce e wikipedia].

Dunque, insieme alla pura e semplice base monetaria (a volte indicata con M0, ma poco significativa e scarsamente utilizzata), la prima grandezza di riferimento reale per la moneta circolante, oltre alla moneta coniata o stampata, include anche le attività finanziarie che funzionano da mezzo di pagamento (come i depositi in conto corrente). Questa moneta “effettiva”, in quanto liquidità primaria, insieme alla primitiva base monetaria “vera”, è la grandezza statistica di base detta comunemente M1. In effetti l’istituto “pubblico” per la creazione di moneta si basa sul denaro reale avente a tutti gli effetti pratici “funzione di moneta”, e non sui titoli monetari aggiuntivi (di cui si dirà tra breve). L’of­ferta di moneta reale più la corrispondente li­quidità primaria in senso proprio, dunque, misura la quantità e la velocità della “moneta” effettivamente in circolazione e serve per soppesare qua­lità e limiti della politica monetaria rispetto al cosiddetto valore del denaro e ai prezzi delle merci.

Aggiungendo le grandezze monetarie intermedie – ossia tutte le altre attività finanziarie che possono circolare facilmente avendo quotazioni pressoché stabili (con scadenza fissa o più lunga, un paio d’anni, di quelle dei depositi in conto corrente, come a es. i depositi bancari, rimborsabili, a risparmio o altri che siano non trasferibili a vista) – si definisce, come M2, la cosiddetta liquidità secondaria.

Ep­però la questione più complicata si presenta con il terzo livello, quello più ampio detto convenzionalmente M3: che, oltre alle due precedenti voci, comprende anche tutte le altre attività finanziarie (che possono avere non solo la funzione di riserva di valore), come le operazioni cosiddette “pronti contro termine” (depositi vincolati attraverso compravendite fissate e differenziate nel tempo), le quote di “fondi di investimento” di vario tipo (fondamentalmente titoli derivati a termine) e i titoli del mercato monetario emessi da sedicenti istituzioni finanziarie. Quindi tale voce ampia è contraddistinta dall’offerta di titoli virtuali – secondari, ipocritamente det­ti spesso subprime, ossia ... “sottoprimari” – che gravano tutti, a gradi sempre crescenti, sulle medesime mo­nete reali messe in circolazione.

In quanto denaro virtuale (che esiste solo come titolo cartaceo, anche attraverso la cosiddetta “cartolarizzazione”, al posto del denaro fisico reale), esso offre uno spazio indefinito per la speculazione. In una fase di crisi produttiva reale del mercato mondiale, prolungata com’è quella attuale, le diverse regolamentazioni giuridiche ovviamente vigenti in ciascuno stato rivestono tuttavia un ruolo minore. La transnazionalità di un mercato mondiale ormai trasversale serve a garantire una mobilità “volatile” della speculazione sui titoli derivati in tutte le borse mondiali – non solo finanziarie ma anche mercantili, come energia alimenti e minerali dimostrano, pronte a subentrare nella speculazione dalla pura parvenza mo­netaria in crisi. Simili aspetti, pertanto, spiegano bene i motivi per cui in Usa la misurazione dell’indice M3 (in cui la parte effettiva è stimata poco al di sopra del 3%, lasciando il restante circa 97% a denaro e capitale fittizio, con un rapporto di “leva” dell’ordine di 1 a 30) non è più rilevata ufficialmente dalla banca centrale Usa (Fed); nell’Ue la situazione è definita un po’ diversamente, ma la forte espansione di M3, osservata anche nell’Ue, è seguita attraverso la sua dinamica, la cui crescita deve essere limitata.

Allo stadio attuale, il perdurare della sostenuta dinamica di M3, rafforzata anche dal relativo basso costo del detenere moneta, ha determinato un con­siderevole accumulo di “liquidità” nel­l’area dell’euro. La prolungata fase di incertezza finanziaria e il contesto e­conomico nel suo insieme, apparentemente eccezionali, hanno generato in tale stato di cose segnali di instabilità nella dinamica di breve periodo dell’aggregato M3. Pertanto, l’inter­pretazione degli andamenti monetari risulta più difficoltosa che in circostanze “normali”, riguardando soprattutto l’incertezza nei tempi della speculazione sul futuro – condizionando nel presente i prezzi correnti (a es., i prezzi “attuali” di energia, benzina ecc., o di alimentari legati ai cereali, come pane, pasta o anche carne) – e quindi della normalizzazione dei mer­cati finanziari. Di conseguenza, “le notevoli incertezze e turbolenze sui mercati finanziari, in particolare dal calo senza precedenti delle quotazioni azionarie registrato negli ultimi due anni, hanno indotto a ridurre le disponibilità in attività relativamente rischiose, quali le azioni, e ad incrementare la domanda di strumenti più liquidi e sicuri compresi in M3” [cfr. Bce].

La distinzione tra moneta reale e titoli monetari, infatti, è difficilmente determinabile; infatti la maggior parte del­l’offerta di moneta è costituita da titoli monetari, che non rappresentano moneta “sottostante”. Come detto, tutti i titoli speculativi sono emessi sul nulla senza la presenza di denaro sottostante: il caso recente dei mutui immobiliari in Usa è un esempio di ciò. Tali titoli, la cui quotazione non ha base monetaria reale rappresentano denaro fittizio (il cui arbitrario mercanteggiamento, dato che tali titoli non dovrebbero avere funzione di moneta, viene però sovente impropriamente considerato come un “signoraggio” – che attiene invece a un sistema economico non fondato su valori di scam­bio con profitto, e quindi estraneo a qualsiasi “speculazione”, ma solo mirante alla “rapina”).

Siccome la mera “offerta” di moneta, in qualsiasi veste, agisce sui tassi di interesse e di inflazione, una maggiore offerta può essere scelta per determinare un minor tasso d’interesse (a parità di “domanda”) e una maggiore inflazione, o viceversa. La strategia del ruolo monetario nell’infla­zione mostra dun­que lo stretto legame tra moneta e prezzi nel medio periodo, in base al quale, per colpire il potere d’acquisto dei salari, l’economia borghese agisce sulla moneta (differenziando gli àmbiti merceologici dell’in­flazione me­desima). Alla stessa maniera, qEstratto da “http://it.wikipedia.org/wiki/Aggregati_monetari

uando le banche hanno denaro contante insufficiente per far fronte ai ritiri imprevisti dei depositi, ottengono provvisoriamente la liquidità equivalente con l’autorizzazione della banca centrale, in quanto prestatore di ultima istanza, a contabilizzare le loro riserve. L’utilizzazione di tali at­tività finanziarie delle banche ordinarie “forma” la base monetaria fittizia.

Gli economisti suppongono di poter valutare quale sia la quantità complessiva di moneta (o di pseudo-mo­neta) necessaria per adempiere alle funzioni di circolazione del capitale. Tuttavia il dilagare irrazionale della speculazione non significa altro che “scommettere” non su fatti reali bensì su quotazioni cartacee virtuali, più o meno future, attraverso cui qualcuno incassa solo ciò che gli altri, più deboli, pèrdono: si dice che “il gioco è a somma zero”, sì che la scommessa sul futuro non dà mai luogo o un effettivo movimento di oggetti o di moneta reale, ma solo a compensazioni sulle differenze a favore di chi vinca la scommessa. Si capisce perché in M3 ogni volta decine di transazioni sono puramente formali (a es., per ogni vero barile di greggio la percentuale di quelli “contrattati” è da alcuni reputata anche intorno al centinaio). È evidente come vi sia, piuttosto volontariamente che no, una certa confusione nella misura dell’of­ferta di moneta e vi sia dunque pochissima chiarezza su significato e ruolo effettivo della moneta, e nessuna sul concetto di denaro.

[gf.p.]

 

 

Moneta e borsa

Gli economisti borghesi, scienziati “tristi” per eccellenza, perseguendo il loro obiettivo di creare e modificare le idee e comportamenti altrui, sono ormai soliti utilizzare un linguaggio [¬] sempre più criptico, mutuando ossequiosamente, oltretutto, parole [¬] di vezzo anglo-americano e abusando di acronimi [vedi sopra] incomprensibili ai più. Per questa ragione si analizzano alcuni termini fre­quenti, con l’obiettivo di creare un piccolo glossario di sopravvivenza in grado di permettere la decodificazione dei contenuti di numerosi articoli.

Le aree valutarie [<=] costituiscono una tematica, da sviluppare ulteriormente, di assoluta centralità nell’at­tuale fase dell’imperialismo [<=]. Si è più volte sostenuta l’importanza che riveste la scelta da parte dei paesi “terzi” del dollaro Usa o dell’euro come valuta di riferimento. Con ciò si indica la valuta utilizzata da un determinato paese per gli scambi internazionali (di merci [<=] o pure di capitale [<=]). Infatti, ad esempio, il commercio tra Brasile e Thailandia non avviene in real o in baht (rispettivamente valute locali), ma in una valuta terza, di riferimento appunto che, in questo caso, è il dollaro. Infatti se un capitalista brasiliano vuole comprare materie prime [<=] provenienti dalla Thailandia dovrà cambiare i real in dollari e con questi pagare la merce thailandese; successivamen­te il venditore di materie prime dovrà convertire il ricavo in baht. È normale che la scelta dell’euro o del dol­laro come valuta di riferimento sia indirizzata qualora esista una qualsiasi forma di ancoraggio ad esse.

L’ancoraggio valutario è, infatti, la forma più generale di legame di una valuta ad un’altra. Il tipo di legame può essere fisso, nel senso che la variazione del suo prezzo è assolutamente identica alla variazione della valuta a cui essa si àncora (come ad esempio nel currency board [vedi dopo] argentino in cui 1 peso = 1 dollaro), oppure può essere mitigata con l’adozione di una percentuale (inferiore al 100%) per cui il tasso di variazione del prezzo della valuta ancorata segue in maniera meno che proporzionale il tasso di variazione della valuta di riferimento.

La dollarizzazione completa rappresenta un caso specifico di ancoraggio (alla moneta Usa); chiaramente in simili casi non c’è scelta di valuta di riferimento. Un paese, infatti, si caratterizza così nel momento in cui la sua valuta viene totalmente soppiantata da quella statunitense. In questa maniera tale paese perde la propria autorità monetaria (ovvero non può più stampare moneta), non avendo più la possibilità di introdurre liquidità all’interno del sistema economico anche in momenti di difficoltà. Quindi, la liquidità interna viene a dipendere dall’ingresso di moneta al­l’interno del paese mediante gli investimenti diretti o quelli di portafoglio da parte di capitalisti che utilizzano il dollaro come valuta di riferimento, o pure mediante la vendita da parte di merci del paese dollarizzato a operatori paganti in valuta statunitense. Ul­teriore conseguenza è la perdita da parte del paese dollarizzato del cosiddetto “prestatore di ultima istanza”, ovvero dell’autorità monetaria (solitamente la banca centrale) che possa intervenire nel caso di crisi di liquidità del sistema (ovvero le banche non riescono più a pagare i creditori). Il progetto di dollarizzazione è attualmente promosso dal­l’Imsa [International monetary stability act], legge statunitense del 2001. Una del­le più famose dollarizzazioni è quella dell’Ecuador (2000), in cui il sucre, valuta locale, è stata totalmente soppiantata dal dollaro Usa. Esistono ancora forme di “dollarizzazione parziale” in cui  il dollaro ha corso legale compatibilmente con la valuta locale anche se sono forme tendenti alla scomparsa.

Il currency board è una forma più blanda della dollarizzazione, consistente nel legame tra la valuta di un paese (quello che accetta il currency board) ed un “paniere” di valute straniere. In questo caso l’andamento del tasso di cambio o corso [<=] della va­luta in questione è legato in maniera fissa all’andamento delle valute che fanno parte del paniere. Ad esempio, se una determinata valuta ha un currency board con il dollaro statunitense e l’euro (entrambi con gli stessi pesi), qualora una delle due aumenti il suo valore del 100%, e l’altra rimanga fissa, automaticamente quella ancorata registra un incremento del 50%. Anche in questo caso avviene frequentemente la perdita di autorità monetaria da parte dello stato [<=] in questione, anche se parzialmente, poi­ché non viene meno la possibilità di stampare moneta locale, ma viene vincolata ai flussi delle valute facenti parte del board all’interno delle casse della banca centrale di riferimento. Anche qui assumono fondamentale importanza, come nel caso della dollarizzazione, i flussi di merci e di investimenti diretti e di quelli di portafoglio (finanziari). Tuttavia, esiste una grande difficoltà nella loro individuazione e gestione, generata dalla proliferazione degli strumenti finanziari nelle mani degli operatori.

I titoli derivati, di gran moda, sono strumenti finanziari il cui prezzo “de­riva” dal valore di mercato dell’attivi­tà sottostante: è una forma di capitale fittizio [<=]. Ben conosciuti, tra gli altri (swaps, options, ecc.) sono i futures, contratti a termine quotati sui mercati organizzati, in cui le controparti (acquirente e venditore) si impegnano ad adempiere, a una scadenza prefissata, ad una obbligazione i cui parametri (prezzo, quantità) sono stabiliti al momento della stipula.

L’insider trading è una pratica (più o meno ufficiale, visto che è vietata, e che corrisponde al reato penale di aggiotaggio) che per gli obiettivi sud­detti risulta fondamentale. Con esso si indica l’il­lecita utilizzazione di informazioni riservate o non ancora divulgate al mercato, al fine di compiere operazioni speculative in borsa e, quindi, fare illecitamente profitti nel­la compravendita di titoli. A riguardo è bene ricordare che questa pratica è messa in atto specialmente da quella parte dei lavoratori che occupano un posto di dirigenza di primo piano al­l’interno dell’azienda. Al fine di favorire la loro integrazione con la classe padronale vera e propria, a questa “aristocrazia” viene pagata una parte dello stipendio sotto forma di azioni della società [Stock options], una pratica contraddittoria molto diffusa negli Usa, che inizia ora ad affermarsi anche in Europa.

Le scalate, sono operazioni in grado di modificare assetti proprietari prestabiliti. Esse sono acquisizioni di una quota di azioni di una società tali da assumerne il controllo. Vengono realizzate attraverso un’offerta pubblica d’acquisto o la negoziazione diretta con gli azionisti di riferimento. In alcuni casi si parla di “scalata osti­le” per individuare un’operazione di acquisizione della maggioranza (assoluta o relativa) dei diritti di voto al fine di sottrarre il controllo della società all’attuale azionista di maggioranza contro la sua volontà.

Gli eurodollari hanno rappresentato una pseudovaluta quando la finanza era meno complessa di ora, prima della nascita dell’euro, che anche i paesi europei usavano, specie per i crediti concessi ai paesi dominati. Nel periodo di assoluta egemonia del “bi­glietto verde” Usa, con il termine eurodollari si indicavano i dollari posseduti da individui e istituzioni al di fuori degli Usa. Secondo la Bri, il fenomeno dell’eurodollaro è descritto come acquisizione della moneta statunitense da parte di banche localizzate al di fuori degli Stati Uniti – principalmente mediante la accettazione di depositi, ma anche in qualche misura con lo scambio di valute estere contro dollari – e la concessione in prestito di questi dollari, spesso dopo rideposito in altre banche, a mu­tuatari diversi dalle banche in qualsiasi parte del mondo. È importante sottolineare che il mercato degli eurodollari non era limitato solamente al vecchio continente.

I petrodollari hanno rappresentato u­n’al­ra pseudovaluta utilizzata nelle transazioni internazionali. Con questo termine si sono indicati mezzi di pagamento denominati in valuta statunitense in mano ai grandi esportatori petroliferi – in particolare l’Opec – in séguito al verificarsi del forte aumento dei prezzi del greggio dei primi anni settanta. Erano frequentemente trasferiti in banche domiciliate nei paesi imperialisti anche per l’im­possibilità di trarne un interesse dagli istituti di credito locali perché vietato dalla legge islamica della sharja.

I sistemi monetari aurei, che sono stati dominanti in passato, hanno chiaramente perso la loro esclusività cedendo all’importanza internaziona­le di alcune valute, incrementata dopo la fine della centralità dell’oro nel sistema monetario internazionale, in particolare dopo il 1971. Un paese si definiva in regime di Gold standard quando la sua banca centrale era tenuta a convertire in oro ogni ammon­tare della sua moneta [<=] che le fosse presentato. Nel Gold exchange standard, il sistema monetario a cam­bio aureo, invece, le banche centrali effettuavano a richiesta la conversione della propria valuta non in oro, ma in una divisa estera che era essa stessa in regime di Gold standard [Bimetallismo ?].

[al.b. – f.s.]

 

 

Moneta unica

(corso dei cambi)

Sono ormai tanti gli anni di liturgiche litanìe passati intorno all’altare di Maastricht – tra vicissitudini varie, crisi [<=] reali e bolle speculative [<=], en­trate e uscite dal serpentesco sistema monetario europeo, e tante altre amenità che certo non dipendono dai protocolli di Maastricht, i quali ne sono semmai solo un effetto. I cosiddetti “parametri di convergenza”, scritti in tedesco dai rappresentanti del grande capitale monopolistico finanziario [<=] a base europea, costituiscono il simulacro dietro il quale si celano i governi nazionali. La real­tà è tutta un’altra cosa. Tra l’altro perché essa procede per suo conto, antici­pando scadenze e slittamenti convenuti in via istituzionale. Una delle cerimonie più seguite è quella della Uem, riguardante l’unione mo­netaria europea, che ha come rito simbolico il segno della “moneta unica”. Appunto quella moneta segno, come anche Marx intese chiamarla, che con­venzionalmente caratterizza la denominazione del denaro che circola su un mercato nazionale. Proprio di questo si tratta, e quel mercato nazionale è ora il mercato [<=] unico della “nazione” [<=] europea. E come tale la questione va consi­derata.

Il passaggio da un mercato locale a un mercato nazionale è un processo stori­co che ha i suoi tempi definiti dall’allargamento della produzione e dell’accu­mulazione in quell’area. La storia della nascita e dell’ascesa del capitalismo inglese costituisce un utile insegnamento. E così quella del passaggio dal mercato nazionale inglese al mercato mondiale dell’ottocento, per il movi­mento delle merci [<=], prima, e dei capitali [<=] britannici, poi. In un’epoca in cui, pu­re, era più immediato il riferimento al tallone aureo (gold standard), l’affer­mazione della sterlina come moneta rappresentativa del denaro universale sul mercato mondiale si basava unicamente sulla capacità di dominio e accentra­mento unificante del capitale inglese sulla via dell’imperialismo [<=].

Così stanno le cose per l’Euro oggi. [Occorrerebbe rammentare le determina­zioni di “denaro”, in quanto merce, valore, distinte da quelle di “moneta”, se­gno e simbolo di una misura di valore predeterminata, insieme alle forme di passaggio da moneta locale a moneta nazionale, ossia da moneta “nazionale” a moneta europea. Ma è un’analisi più lunga da svolgere in altro momento]. Se si considera l’Europa come una “nazione” [<=] il cui mercato è in formazione, conseguentemente occorre analizzarne le componenti e le forme dominanti. Dunque, serve valutarne le tendenze e i tempi di effettiva integrazione. Tali tendenze e tempi non tengono in alcun conto le vicissitudini dei compromessi politici e delle rappresentazioni ideologiche. Seguono piuttosto le fasi della crisi [<=], in maniera che gli slittamenti e i ritardi del processo di formazione del mercato unico corrispondano alle difficoltà della ripresa del ciclo di accumu­lazione del capitale. Nel frattempo i rapporti reali della produzione si consoli­dano e fanno prevalere chi ha più forza.

Nel processo di formazione del mercato unico europeo, si sa, il posto preso dalla Germania è assolutamente dominante. Ciò vuol dire, semplicemente, che i tempi e i modi di definizione della moneta unica europea seguono, e non precedono, l’assestamento del mercato (dei capitali) europeo. Questo mercato è determinato dal capitale a base tedesca. È per questo che la moneta europea – che si chiamasse “Euro” o in qual altro modo, dopo che “Ecu” era ormai squalificato – non può che seguire la storia del marco. E deve seguirla secondo le fasi della crisi del mercato mondiale. Il corso dei cambi è – parafrasando Marx – il baro­metro del movimento internazionale delle valute pregiate. La stabilizzazione, più o meno lenta, del corso dei cambi è solo la condizione, la premessa, per approdare a un’unica moneta prevalente su un particolare mercato. Ma a sua volta tale stabilizzazione può conseguire solo a un assestamento del processo di produzione e accumulazione del capitale nell’area considerata. Questo è il quadro di riferimento generale [cfr. Marx, Il capitale, III. V.33-35]. Per capire meglio quanto si riferisce all’Italia è bene partire dall’ultimo atto di questa storia.

L’afflusso di valuta pregiata e il miglioramento del cambio di una determina­ta moneta avviene prevalentemente in due momenti: in una prima fase di ri­duzione del tasso di interesse, che segue a una fase acuta della crisi e riflette la riduzione della produzione, la recessione (ed è quanto avvenuto in Italia nel 1996). Poi, in una seconda fase, anche quando il tasso di interesse aumenta, ma prima che esso abbia raggiunto il suo livello medio, può continuare l’ap­prezzamento della moneta considerata (e si tratterà di verificare ciò per l’Italia, nei prossimi anni, qualora l’oscillazione al rialzo non sia semplicemente riassorbita nella moneta unica). Infine, una terza fase corrispondente al crollo (guidato) dei tassi d’interesse ... La seconda fase è quella in cui l’afflusso di valute pregiate è significativo, il credito commerciale può allargarsi, e quindi la domanda di capitale da prestito, produttivo d’interesse [<=] potrebbe non aumentare col ritmo al quale, invece, sarebbe capace di ampliar­si la produzione, se la speculazione [<=] non si conquistasse sempre maggiori spazi. Certo, le contraddizioni del ciclo di produzione del plusvalo­re [<=] e accumulazione su scala mondiale sono tali per cui non necessariamente il capitale monetario [<=] può trovare sbocchi produttivi. In ambedue le fasi ormai compiute, in cui il capitale da prestito è relativamente abbondante, infatti, l’afflusso eccedente di capitale che esiste nelle forme monetarie pregiate, cioè sotto una forma in cui esso può operare in un primo momento soltanto come capitale da prestito, deve avere un’influenza notevole sul tasso di interesse (sono questi i segnali internazionali richiamati in Bankitalia da Fazio).

Senonché il perdurante ristagno degli investimenti produttivi può provocare l’effetto di un ritiro continuato di capitale – come spiega Grossmann a proposito della critica all’imperialismo [<= #2] – in una forma in cui esso esiste diret­tamente come capitale monetario da prestito, e stornare codesto medesimo capitale verso attività speculative: la creazione dei “fondi pensione”, con la ri­forma previdenziale targata Fmi, ha precisamente questo obiettivo tampone, attraendo verso di essi anche i precedenti crediti privati a lungo depositati nel debito pubblico [<=]. Se un simile processo di aggiustamento reale riesce a riscuotere anche il suc­cesso monetario, il corso dei cambi delle monete coinvolte si stabilizza e il barometro valutario internazionale si ferma. La moneta unica, a questo punto, esisterebbe già, indipendentemente dai protocolli istituzionali e dalla denomi­nazione, e sarebbe sostanzialmente determinata dalla valuta (o insieme di va­lute) più forte: nel caso in esame, il marco tedesco, mascherato da Euro o da “marco” italiano. Guardando indietro alla storia recente, allora, si capisce il senso della “con­vergenza” verso i parametri dell’Uem. L’Italia, insieme ad altri paesi, aveva visto (e, per favorire le proprie esportazioni, anche agevolato) la svalutazione della propria moneta nazionale. Un tale deflusso valutario era il segno che i mercati erano saturi, e che l’apparente prosperità (se così “appare”, come presso i neomonetaristi reaganiani) veniva mantenuta soltanto mediante il credito, la centralizzazione [<=] finanziaria e la speculazione.

Quando l’esportazione e il deflusso di valuta pregiata (investimenti all’estero, prestiti internazionali, manovre speculative, ecc.) assume una dimensione si­gnificativa e si prolunga nel tempo, le riserve bancarie sono intaccate e il mercato monetario – per prima la banca centrale – prende immediate misure di difesa. Queste consistono essenzialmente in una stretta monetaria e creditizia (a barriera dell’inflazione crescente) e in un aumento del tasso di interesse. Quest’ultima è una conseguenza ovvia della pesantezza del mercato moneta­rio, nelle circostanze in cui la domanda di capitale da prestito e speculativo nella forma monetaria superi notevolmente l’offerta. Il tasso ufficiale di sconto (tus) fissato dalla banca centrale non è una misura arbitraria o una “scelta” di politica economica (come anche numerosi econo­misti illuminati suppongono), ma corrisponde alla situazione di fatto e si im­pone sul mercato. La banca centrale, mediante operazioni di “mercato aper­to”, rende il “denaro scarso”, come si usa dire, creando così una situazione che giustifichi un aumento del tasso di interesse. Senonché questa manovra di anno in anno le diventa più difficile, poiché il corso dei cambi viene influen­zato dal rapporto tra i tassi di interesse in vigore in quei paesi del cui corso dei cambi si fa questione. L’aumento del tasso di interesse, aumentandone il “differenziale” con altri paesi, invece di limitare l’attività creditizia, e con essa l’indebitamento, l’al­larga e porta a impegnare all’eccesso tutte le risorse monetarie, approfonden­do la crisi e causando i periodici e improvvisi crolli borsistici. Inoltre, se su­bentra il timore generale che questa tendenza si sviluppi crescendo, gli specu­latori in primo luogo formulano delle aspettative in base alle quali cercano di “scontare il futuro” (i future, li chiamano gli anglosassoni d’oggi) per avere a propria disposizione in quel “futuro” la maggior quantità possibile di titoli di credito, primari o derivati.

La pura e semplice quantità delle valute pregiate e dei titoli in esse denomina­ti, sia importate che esportate, non agisce però come tale, ma agisce in primo luogo attraverso il loro carattere specifico come capitale sotto forma moneta­ria, e in secondo luogo – prosegue Marx – “come la piuma che, aggiunta al peso della bilancia oscillante, è capace di farla traboccare da una parte”: agisce, perché sopravviene in circostanze in cui qualsiasi cosa in più da questa o quella parte è decisiva. Già i banchieri del secolo scorso sapevano che “tutte le oscillazioni degli affari sono vantaggiose per coloro che conoscono il me­stiere”; senza parlare – aggiunge Marx – dei profitti privati che cadono di per se stessi in grembo ai signori direttori in seguito alle eccezionali possibilità che essi hanno di conoscere la situazione generale degli affari (oggi si chiama insider trading, o più volgarmente aggiotaggio). Altri “rispettabili banditi” di­cevano già allora che la politica monetaria fatta attraverso il corso dei cambi, in tempi di crisi, provoca “un enorme aumento del tasso di interesse. Le spese derivanti dalla ristabilizzazione del corso dei cambi cadono sull’industria pro­duttiva del paese”: Inghilterra 1844 o Italia 1996?

I flussi valutari sono fondamentalmente sintomo di modificazioni delle condi­zioni del commercio internazionale, e queste a loro volta sono sintomo della maturazione della crisi. Senonché i caratteri della crisi “appaiono” fenomeni­camente solo dopo che si siano manifestate le perturbazioni nel corso dei cambi, ingannando l’osservazione superficiale, e provocando negli ignari la parvenza di un’inversione della causa con l’effetto. Anzi, spesso quando una nuova fase della crisi – la terza, di cui sopra – recessiva interviene è già avvenuta l’inversione dei flus­si valutari e del corso dei cambi (si pensi al 1996 italiano: recessione con ri­duzione del tasso d’interesse e rivalutazione della lira). L’intero processo, permettendo alla banca del paese a valuta debole di inverti­re la manovra, si risolve così attraverso un movimento internazionale dei ca­pitali che si trasferiscono da un paese all’altro finché esso non si stabilizzi. Non appena simili fasi della crisi sono esaurite, le valute pregiate defluiscono dal paese che ne aveva una quota superiore al normale per affluire in un altro, secondo l’importanza – afferma Marx – che ogni paese riveste nel mercato mondiale. Quando le bocce si saranno tutte fermate intorno al marco tedesco, che fa da pallino, il mercato unico europeo potrà esser “segnato” in Euro. “Sono necessari i più grandi sacrifici sulla ricchezza reale” – conclude Marx, commentando le azioni di quei “rispettabili banditi” che sono finanzieri e speculatori – per conservare, in momenti critici, la base monetaria, la quale diventa “il capitale par excellence, alla cui conservazione qualsiasi altra for­ma di capitale e di lavoro deve essere sacrificata. La discussione verte soltan­to sul grado maggiore o minore, sul modo più o meno razionale di trattare l’i­nevitabile”.      

[gf.p.]

 

 

Monopolio # 1

Oggetto della nostra attenzione per il monopolio è oggi anzitutto il capitale monopolistico, senza la cui base – come insegna Pietranera criticando Hilfer­ding – neppure avrebbe senso discutere, o sarebbe fuorviante alla maniera borghese e riformista, del capitale finanziario [<=]. Quest’ultimo, infatti, non va confuso col capitale nella sua funzione esclusivamente speculativa [<=]. La prima delle “tre caratteristiche fondamentali della produzione capitalisti­ca” – che conducono alla sua immanente crisi  [<=] di cui scrive Marx, e che seguiremo testualmente, le altre due essendo l’organizzazione sociale del lavoro mediante la cooperazione e la scienza, e la creazione del mercato mondiale – riguarda appunto la concentrazione in po­che mani dei mezzi di produzione, della cui potenza sociale i capitalisti, nella forma della proprietà privata della società borghese, sono i mandatari, inta­scando tutti gli utili di tale mandato.

Ogni capitale individuale è una concentrazione più o meno grande di mezzi di produzione, in quel processo di accumulazione e allargamento della scala di produzione (di cui qui non diciamo altro) che, dall’altro lato, si presenta come repulsione reciproca di molti capitali [<=] individuali. Contro questa dispersione del capitale complessivo sociale agisce la concentrazione di capitali già for­mati, l’espropriazione di un capitalista da parte di un altro capitalista, la tra­sformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi. Questo pro­cesso presuppone solo una ripartizione mutata dei capitali già esistenti. Il ca­pitale [<=] – che, per la necessità dell’aumento incessante della scala di produzione e delle nuove applicazioni scientifiche, tecnologiche e organizzative, in molte mani andrebbe perduto – portato in una mano sola diventa una grande massa: è questa la centralizzazione [<=] vera e propria, la spirale che porta alla formazio­ne del monopolio come estremo limite di questo processo. Con la continua crescita del volume minimo del capitale individuale, si forma una potenza assolutamente nuova, il sistema del credito, non come semplice ausilio della circolazione e dell’accumulazione, ma come potenza sociale che tira i fili invisibili dei mezzi pecuniari, altrimenti dispersi, ma necessari per le nuove forme dell’accumulazione, dell’organizzazione del lavoro combinato e della trasformazione tecnica predisposta scientificamente.

Col procedere dell’accumulazione capitalistica si allarga la scala della produzione e con essa la grandezza minima del capitale da anticipare, e ciò contribuisce a trasforma­re sempre più la funzione del capitalista industriale in in “monopolio” di gran­di capitalisti monetari, isolati o associati. È per l’appunto quel medesimo pro­cesso comune, che spinge verso il monopolio e l’elevamento a potenza del credito, ciò che genera il moderno capitale monopolistico finanziario [<=], base dell’imperialismo [<=]. Tutto ciò si trasforma in quella che Marx stesso definisce un’arma nuova e terribile nella lotta della concorrenza. Come osserva Bukharin, il passaggio al sistema del capitalismo finanziario rafforza sempre più il processo di trasfor­mazione della concorrenza, accompagnata dai metodi dell’azione di potere, con un inasprimento dei rapporti sul mercato mondiale. Così, se da un lato la centralizzazione del capitale distrugge la libera concorrenza [<=], d’altra parte essa la ri­produce incessantemente su una base più allargata. Se essa annienta l’anar­chia delle piccole unità produttive, l’inasprisce però tra i grandi monopoli na­zionali e transnazionali, ormai sull’intero mercato mondiale. Come osserva Grossmann, il processo di monopolizzazione mira a eliminare la partecipazione dei capitali avversari. Ma è un processo che, individuando nel monopolio mondiale il mezzo idoneo, non riesce mai a giungere a crearne uno comune, crollando sempre di fronte alle insormontabili contrapposizioni interne di interessi dei partecipanti. Di qui deriva anche, seppure oggi in for­me storiche mutate secondo le gerarchie della dislocazione internazionale del dominio capitalistico, l’opposizione di interessi degli stati o delle comunità sovranazionali di stati.

Rimane perciò un pio desiderio qualsiasi accordo per un “monopolio” capace di stabilire un comune e durevole controllo internazionale. Come all’interno di un sistema capitalistico locale gli imprenditori attrezzati e organizzati al di sopra della media sociale conseguono un extraprofitto monopolistico, così sul mercato mondiale imperialistico i paesi a elevato sviluppo tecnico e finanzia­rio conseguiranno extraprofitti a spese dei paesi dominati. Quanto più sul mercato interno (nazionale, macroregionale o perfino subcontinentale) la libe­ra concorrenza viene sostituita dalle organizzazioni monopolistiche, tanto più si acuisce la lotta di concorrenza sul mercato mondiale. Del resto Engels, nel suo primo abbozzo di critica dell’economia politica, ironizzava sulla “libera concorrenza” come una battuta con la quale esordi­scono i nostri economisti alla moda senza capire che essa è impossibile. Se infatti, all’apparenza, sembra che il monopolio sia l’opposto della concorren­za, è facile avvedersi come questa opposizione sia assolutamente vuota. Ogni capitalista, come si dirà, desidera “naturalmente” il suo monopolio contro tut­ti gli altri. La concorrenza si fonda sull’interesse, e l’interesse genera a sua volta il monopolio: la concorrenza trapassa nel monopolio. D’altra parte il monopolio non può arrestare il flusso della concorrenza, anzi la genera esso stesso, e sempre più a misura che si sviluppa il mercato mondiale.

La contraddizione della concorrenza è del tutto identica alla contraddizione della proprietà [<=] privata, in quanto ciascun proprietario deve desiderare il mo­nopolio. La concorrenza presuppone anzi il monopolio, ossia il monopolio della proprietà: e qui si manifesta ancora una volta l’ipocrisia dei liberali, che predicano il controllo legislativo del monopolio stesso, giacché finché sussi­ste il monopolio della proprietà è parimenti legittimata la proprietà del mono­polio. Pietosa meschinità, già la chiamava Engels, quella di attaccare i piccoli monopoli particolari, quelli di ciascun ramo della produzione, per lasciar me­glio sussistere il monopolio fondamentale, quello della proprietà privata. Sen­za quest’ultima preventiva monopolizzazione nulla ha valore, nessuna merce [<=] può entrare nell’arena della concorrenza: così la concorrenza presuppone il monopolio. Qui non interessa tanto trattare, dunque, del monopolio artificiale, in forza di una legge imposta quale prerogativa concessa o riservata per sé dal capitale tramite il suo stato; né tanto meno di quello accidentale dovuto a una momen­tanea limitata “esclusiva” di mercato dell’offerta sulla domanda, tale da pro­vocare un extraprofitto transitorio.

La tendenza specifica del modo di produ­zione capitalistico è invece proprio quella che fa derivare dalle sue stesse pe­culiari caratteristiche la centralizzazione e la formazione di quello che perciò è stato chiamato monopolio naturale [<=]: ossia quella forma di monopolio che è intrinseca alla legge generale dell’accumula­zione; che sus­sume alle proprie leggi anche l’antica proprietà terriera trasformandola in proprietà (e rendita) fondiaria capitalistica; che non è affatto incompatibile con la mobilità del capitale stesso sul mercato mondiale, il quale anzi contri­buisce a formare, e con la tendenza al livellamento del tasso generale di pro­fitto (come nota espressamente Marx); e che si accompagna, come detto, allo sviluppo del sistema del credito. Basti pensare che la “merce” più caratteristi­ca del modo di produzione capitalistico, il denaro – denaro come capitale – necessita più d’ogni altra del monopolio: dal moderno sistema del credito, al capitale monopolistico finanziario, alle banche centrali, agli organismi mone­tari sovranazionali. Senza codesto monopolio le crisi si farebbero più erratiche ed esplosive, tanto che è attraverso il controllo monetario da parte degli organismi statali e sovra­nazionali che il capitale cerca di gestirle. Ma vanamente, giacché anche il monopolio è impotente contro il denaro “falsificato”, il “muro di carta”. Per­ciò una soluzione è possibile solo eliminando entrambe le forme, concorrenza e monopolio, che si generano a vicenda: ma questa difficoltà potrà essere ri­mossa solo eliminando il principio che le genera entrambe – la proprietà pri­vata.

[gf.p.]

(iI riferimenti testuali sono tratti da F.Engels, Lineamenti di una critica dell’economia politica;

K.Marx, Il Capita­le, I.23; III.10,15; Lineamenti fondamentali, VI; N.I.Bukharin, L’economia del periodo di trasformazione, I; H.Grossmann, La legge dell’accumulazione e del crollo del capitalismo, 3.II; G.Pietranera, Introduzione al “Capitale finan­ziario” di Hilferding)

 

 

Monopolio # 2

(funzione storica)

La rapidità sempre crescente con cui la produzione può oggi essere accresciu­ta in tutti i campi della grande industria, ha come contropartita la lentezza sempre crescente con cui si estende il mercato [<=] che dovrebbe assorbire questa quantità accresciuta di prodotti. Ciò che la produzione fornisce in termini di mesi, il mercato può appena assorbire in termini di anni. Si deve a ciò aggiun­gere la politica protezionistica, per cui ogni paese industriale si chiude agli al­tri e accresce artificialmente la capacità produttiva nazionale. Le conseguenze sono una sovraproduzione cronica generale, diminuzione dei prezzi, diminuzione o anche sparizione totale dei profitti, in breve la tanto vantata libertà della concorrenza [<=] non ha più nulla da dire ed è costretta ad an­nunciare essa stessa il suo evidente e scandaloso fallimento. Tanto è vero che in ogni paese i grandi industriali di un determinato settore si raggruppano in un cartello per regolare la produzione. Un comitato fissa la quantità che ogni stabilimento deve produrre e ripartisce in ultima istanza le ordinazioni ricevu­te. In alcuni casi si sono avuti anche dei cartelli internazionali. Ma anche questa forma di socializzazione della produzione non fu sufficiente. Il contrasto di interessi delle singole compagnie la spezzava troppo spesso e ristabiliva la concorrenza. Si arrivò così, in singoli settori in cui il grado della produzione lo permetteva, a concentrare tutta quanta la produzione di un set­tore in una grande società per azioni, a direzione unica. In tal modo, in questo settore, la concorrenza è sostituita dal monopolio, e si prepara così, con nostra grande soddisfazione, la futura espropriazione da parte della società intera, da parte della nazione [<=].

Questa espropriazione si compie attraverso il gioco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione [<=] dei capita­li. Ogni capitalista ne ammazza molti altri. Di pari passo con questa centraliz­zazione ossia con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa [<=] del processo di la­voro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento meto­dico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro uti­lizzabili solo collettivamente, l’economia di tutti i mezzi di produzione me­diante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale, combinato, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico. Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservi­mento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e orga­nizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico.

Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diven­tano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati. Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà [<=] privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavo­ro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’inelutta­bilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della ne­gazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dell’era capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavo­ro stesso. La trasformazione della proprietà privata sminuzzata poggiante sul lavoro personale degli individui in proprietà capitalistica è naturalmente un processo incomparabilmente più lungo, più duro e più difficile della trasformazione della proprietà capitalistica, che già poggia di fatto sulla conduzione sociale della produzione, in proprietà sociale [<=]. Là si trattava dell’espropriazione della massa della popolazione da parte di pochi usurpatori, qui si tratta dell’espro­priazione di pochi usurpatori da parte della massa del popolo.

[f.e.-k.m.]

(da Il capitale, III.27; I.24)

 

 

Monopolio naturale

Il processo di centralizzazione [<=] dei capitali richiede diversi termini per il suo sviluppo e compimento. Tra questi, in alcune fasi storiche, assume particolare rilievo l’elemento tecnologico che può combinare specifiche condizioni di produzione alla dinamica capitalistica interna di centralizzazione. Queste condizioni si sostanziano nelle cosiddette economie di scala ed economie di differenziazione. La cosiddetta “non convessità” delle curve di costo di produ­zione – ossia, sviluppate con tecnologie a rendimenti crescenti – determina le economie dovute alla scala di produzione, cioè alle quantità prodotte in un ciclo di pro­duzione. La minimizzazione dei costi medi unitari richiederebbe, per questo tipo di imprese, una scala di produzione che trova solo in mercati di dimen­sioni (almeno) nazionali la propria realizzazione. L’efficienza nella produzione è per­corribile allora solo in condizioni di massima centralizzazione del mercato: si è in presenza di un monopolio naturale. Per fornire un servizio ferroviario, te­lefonico, od elettrico, questa legge economica ha per decenni imposto una produzione centralizzata su un unico operatore. Il monopolista può, però, pra­ticare politiche di prezzo che gli consentono extra-profitti: all’efficienza nella produzione non corrisponderebbe dunque quella nella tariffazione dei servizi. L’intervento pubblico regolatore è diretto allora a imporre prezzi uguali ai costi marginali perseguendo l’efficienza allocativa e distributiva.

Se da un’impresa “monoprodotto” si passa ad analizzare una impresa che produce più prodotti / servizi si deve sviluppare la definizione di monopolio naturale: il concetto di monopolio naturale infatti ha dovuto necessariamente evolversi in conseguenza delle modifiche intervenute nei settori che, nella fase alta del ci­clo di accumulazione, erano sostanzialmente monoprodotto. Si deve allora introdurre il concetto di “subadditività dei costi”: ossia, una funzione di costo è detta subadditiva se il costo totale della produzione di n prodotti, centraliz­zata in una impresa, alle quantità richieste dal mercato, è inferiore alla somma dei costi totali delle stesse produzioni sviluppate da più imprese. Utilizzare una stazione radio per connessioni in fonìa o per inviare files con le informa­zioni di borsa [<=], consente un’economia nell’ammortamento del traliccio e par­te delle strutture trasmissive. Siamo allora in presenza di “economie di diffe­renziazione". Se il punto minimo dei costi viene raggiunto con un volume totale di servizi offerti di dimensioni nazionali, la convenienza di una produzione centralizza­ta è in grado di giustificare un monopolio naturale.

La rilevante differenza con la precedente definizione teorica di monopolio na­turale è che la sufficienza delle economie di differenziazione può annullare, in astratto, la necessità delle economie di scala  (ci pptrebbe essere addirittura com­patibilità teorica tra esistenza di monopolio naturale e convessità della curva dei costi). Questo sdoppiamento delle condizioni di sufficienza rafforza la di­namica naturale di concentrazione dovuta alle leggi tecnologico-organizzative di costo. In realtà le economie di differenziazione non si oppongono a quelle di scala, ma le sviluppano e le potenziano. La differenziazione delle merci [<=] avviene su un insieme di elementi base la cui produzione è e continua ad es­sere di larga scala, di massa. La flessibilità toyotista non rimuove il carattere di massa della fase fordista: lo mantiene e lo potenzia. L’enfasi sulle econo­mie di differenziazione rispetto a quelle di scala è resa necessaria dalla storia recente dell’industria capitalistica, dominata dal paradigma toyotista della flessibilità [<=]. Alla flessibilità corrisponde infatti generalmente anche la diffe­renziazione della produzione di merci, necessaria per fronteggiare i capricci dei mercati in crisi. Le nuove connotazioni del monopolio naturale lo rendono quindi adeguato alla fase attuale di crisi di sovraproduzione [<=] di valore.

[m.g.]

 

 

Morale # 1

(morale e potere)

 Ci sia concesso riesaminare Diderot, per la tematica che avvolge in continui rovesciamenti morale e potere [<=]. Nonostante sia così remoto (intorno al 1762) il tempo in cui si svolse l’analisi di questo enciclopedista, prima ancora cioè della Rivoluzione francese, il quadro sociale e politico che ne emerge offre un’angolazione riflessiva anche per il nostro presente, che non è sequenza casuale di atti e assenza ideologica. Mediante la sua acuta osservazione, la storia si decanta dei suoi “particolari” transitori per entrare nell’eterno cammino del pensiero umano e del concetto. Ci uniamo così a questo cammino della conoscenza, grati di attraversare insieme a dei geni la vita di questo ponte comune, sotto cui scorrono secoli sempre diversi, proprio come le acque degli stessi fiumi. In particolare, continuiamo a riflettere su un’opera famosa, Il nipote di Rameau, tradotta da Gœthe, apprezzata da Hegel, utilizzata da Marx ed Engels, ecc., in cui Diderot  affronta diverse tematiche tra cui  quella del rapporto dei singoli col potere. La morale, dirà Hegel più tardi, è la libertà del soggetto nel determinare la propria volontà particolare estrinsecata nell’azione, secondo un proposito (basato sul sapere) e un’intenzione (una sostanza e uno scopo).

L’azione morale, in quanto esistenza esterna al soggetto che l’ha determinata, diviene anche indipendente da quest’ultimo, nel senso che può evidenziare qualcos’altro che non era stato posto in essa. Il soggetto riconosce pertanto come sua propria, come di sua responsabilità, quella parte di azione entrata nell’esistenza che era nel suo sapere e nella sua volontà. Il potere, che non è un prius ma anch’esso risultato, determina la morale degli individui che vi si debbono rapportare per sopravvivere, per sgusciare, per fare carriera, per scalarlo e goderne i favori, ecc. Le determinazioni morali si esprimono quindi nelle idee di cui gli individui sono portatori, nient’affatto liberi [<=] nelle loro coscienze dalla propria particolarità, che inevitabilmente va incontro alla collisione dei molteplici beni  e  doveri determinatisi in modo indeterminato nel mondo. Le idee e le azioni, nel loro continuo scavalcarsi e prodursi costituiscono l’unità contraddittoria della soggettività e dell’oggettività, di cui il soggetto è la dialettica.

Nel dialogo fittizio in cui è tessuto Il nipote di Rameau spicca il potente ruolo della negatività, in cui il “nipote” trova la sua libertà nel dire tutto, negando tutto. È la verità essenziale stessa (come ribadirà anche Engels) che nel suo venire a esistenza scardina il buon senso comune e l’astrazione metafisica. La forma di questo capolavoro dialettico è quella della satira: le condizioni sociali dell’epoca, tratteggiate da uno che di storia si professa ignorante, si stagliano entro le riflessioni filosofiche come parte dell’agire umano, sempre occupato nel presente ma già orma del futuro.       

Il potere si insinua negli individui dominati e li divide in “ordinati” e “originali”. Al genio, al ribelle, al dissenziente non resta che intrattenersi con se stesso: sua compagna, la solitudine. Bene va se trova qualcuno che gli dia la battuta. Il genio mostra l’inanità di una supposta unicità monotòna dell’individuo: più l’individuo è o si rende libero (cosciente), più è sfaccettato, plurale, “ineguale” (La Bruyère), multiplo (“nulla è più dissimile da lui se non se stesso”). Poteri particolari, oggettivati in quello religioso e della finanza, dimagriscono o ingrassano gli individui in loro balìa; la proprietà, la ricchezza è la sostanza unica che forma e separa le classi. La loro divisione è rigida come le sue regole gerarchiche. Ma gli individui si toccano, in sé non riconoscono la loro appartenenza necessaria alle classi di provenienza, perché le cateratte delle convenzioni, pietà, carità, ipocrisia, cortesia, silenzio velano gli occhi sociali con i quali si insegna a vedere. Il genio  ha invece gli occhi della natura estraniati nell’osservare se stessa, duplicati in una cultura apparentemente senza storia e che invece ne è una sintesi sfuggita al controllo del potere. Questo, infatti, può solo emarginare, denigrare e disprezzare quell’uno di contro alla, ma per, la moltitudine; quell’uno che è antagonista a se stesso e che per questo può denunciare la coercizione che esalta i propri campioni disumanati, che si serve sempre di menzogne per riuscire a governare [<=].

Per affermare ciò Diderot si serve della negazione “se sapessi la storia vi mostrerei che il male è sempre arrivato quaggiù da qualche uomo di genio. Ma non conosco la storia, perché non so niente. Il diavolo mi porti se ho mai imparato niente, e se, proprio per non aver imparato niente, mi trovo più a mal partito. Un giorno ero alla tavola d’un ministro del re di Francia che ha uno spirito per quattro; ebbene, quello ci mostrò chiaramente, come uno più uno fa due, che niente era più utile ai popoli delle menzogne, e niente più noioso della verità. Non mi ricordo bene le sue prove, ma evidentemente ne seguiva che le persone geniali sono detestabili e che, se un bambino alla nascita portasse in fronte la caratteristica di questo pericoloso dono di natura, bisognerebbe soffocarlo o gettarlo nella spazzatura”. Il rovesciamento dell’odio per l’uomo di genio raggiunge perfino il disprezzo: il saggio (Socrate!) non sa neppure evitare la condanna a morte, di essere un cittadino turbolento e trascinare i folli nel suo destino, non sa procurarsi i beni e i piaceri della vita. “Che tutto vada come può. L’ordine migliore delle cose, a mio avviso, è quello in cui io dovevo stare, e al diavolo il più perfetto dei mondi, se io non ci sto. Mi piace di più essere, e perfino di essere un ragionatore impertinente, piuttosto che non essere”.

La morale comune si scardina pezzo per pezzo lasciando intravedere la trama di funzionalità al dominio, di vuoto teorico di un ordito di empiria ordinabile. “Ero dunque geloso di mio zio; e se alla sua morte, nel suo portacarte si fosse trovata qualche bella partitura per clavicembalo, non avrei esitato a mettere da parte me stesso per diventare lui”. La vita va giocata per il riconoscimento e le lodi altrui, “una buona casa, … un buon letto, … dei buoni vini, … una bella carrozza, … belle donne”, ecc. Sposare la logica dell’interesse è dunque abbeverarsi alla naturalezza con cui il potere adesca i suoi, e un attimo di distrazione, di “senso comune, … di gusto, di spirito, di un po’ di ragione” può tradursi in irreversibile, miserrima perdita dei privilegi. Essere se stessi equivale a cadere in miseria, a non essere più.

[c.f.]

 

 

Morale # 2

(morale di classe)

Moralità – Quando il piano di una campagna è male ideato, le sue mète troppo vaste per gli eserciti a disposizione, la sua esecuzione difettosa, allora bisogna che i soldati siano particolarmente prodi. Con la virtù della particolare prodezza i soldati dovrebbero ottenere quanto non può ottenere l’imbecillità dei generali.

Così accade anche con la moralità. Il pane e il latte sono cari e il lavoro rende poco o non c’è. Allora i poveri dovrebbero rivelare una particolare moralità a non rubare. In una situazione quale l’abbiamo descritta può dire di essere a favore della moralità solo colui che provvede a che non sia necessaria alcuna particolare moralità ... in quanto i viveri hanno prezzi accessibili. In modo del tutto generale va detto che ogni paese in cui è necessaria una particolare moralità è male amministrato.

Egoismo – Quando i commercianti vendono merce scadente e possono chiedere prezzi alti; quando si possono costringere i nullatenenti a lavorare duramente per poco; quando si guadagna a tener lontane le invenzioni dagli uomini; quando si possono mantenere i membri della famiglia in una situazione di dipendenza; quando si può ottenere qualcosa con la violenza; quando l’inganno rende; quando i machiavelli portano vantaggi; quando la giustizia porta svantaggi – allora si è egoisti. Se non si vuole avere l’egoismo non bisogna parlare contro di esso bensì creare uno stato di cose in cui non sia necessario.

Parlare contro l’egoismo significa spesso voler mantenere uno stato di cose che rende l’egoismo possibile o addirittura necessario (Se c’è troppa gente e poco cibo, o muoiono tutti di fame oppure alcuni restano in vita, ma allora hanno agito in modo egoistico). Contro l’amor di sé non si può aver nulla se non si rivolge contro altri. Invece si può aver qualcosa contro la mancanza di amore di sé. Le cattive situazioni derivano sia dall’a­more di sé di alcuni che dalla mancanza di amor di sé degli altri.

Se si vuole avere un amore di sé che non si rivolga contro gli altri, bisogna cercare di ottenere una situazione che ingeneri un siffatto giusto amore di sé. Coloro che vivono in questa situazione aiuteranno a renderla generale. In Stati [<=] ordinati l’egoismo serve alla generalità.

Fare e sopportare il torto – Più importante che insistere su come è sbagliato fare il torto, è insistere su come è sbagliato sopportare il torto. Solo pochi hanno occasione di fare il torto, molti di sopportarlo. La pietà verso gli altri che non è pietà verso se stessi è da ritenere meno attendibile della pietà verso se stessi che è al contempo pietà verso gli altri.

Amore del prossimo – Sulla frase “Devi amare il tuo prossimo come te stesso”: se i lavoratori fanno questo non aboliranno mai uno stato di cose in cui si può amare il proprio prossimo solo se non si ama se stessi.

Amore della giustizia – Gli oppressi e gli sfruttati sono per la giustizia, ma per loro non è che l’oppressione e lo sfruttamento debbano cessare onde regni giustizia, ma deve regnare giustizia onde cessino oppressione e sfruttamento. Quindi gli oppressi e gli sfruttati non sono persone giuste.

Bontà – Alcuni appaiono buoni in quanto rendono agli altri dei servigi senza che ciò favorisca i loro interessi, quindi senza motivo, per bontà appunto. Questo predicato della bontà uno lo può ottenere abbastanza facilmente se i suoi interessi sono poco chiari (più sottili) oppure se egli li avverte in modo poco chiaro, in modo trascurato. Per esempio se uno dà del denaro a un altro e in cambio richiede soltanto delle adulazioni, potrà ottenere il predicato della bontà, perché di solito dalle adulazioni ci si separa più facilmente che dal denaro. In ordinamenti sociali con grande differenza di reddito il predicato della bontà non è difficile da ottenere. A guardar meglio questa specie di bontà appare irrilevante sul piano sociale, a guardare ancor meglio appare molto dannosa in grande scala.

In questa specie di bontà rientra anche il prendere alla leggere il danno infertoci, una certa buona disposizione ad apprezzare i motivi che hanno spinto l’altro a danneggiarci. L’uomo buono (in questo senso) si dice pressappoco: Quel che io stesso infliggerei a qualcuno, me lo lascio infliggere. E in questo caso si può ottenere un predicato di bontà speciale se uno dà l’impressione di lasciarsi danneggiare perfino in misura maggiore di quanto per parte sua sarebbe disposto a danneggiare un altro.

Così ottiene il predicato della bontà sia colui che regala all’affamato un pezzo di pane, sia colui che gli perdona un tentativo di furto. A guardar meglio è un predicato irrilevante, a guardare ancor meglio un predicato dannoso. Essere innocui non significa essere buoni.

Compassione – La compassione è ciò che non si nega a coloro cui si nega l’aiuto. Non bisogna mettersi nei panni di chi soffre per soffrire, bensì per por fine alle loro sofferenze.

[b.b.]

(da Me-ti)

 

 

Morale # 3

(delinquenza)

 “Un filosofo produce idee, un poe­ta poesie, un pastore prediche, un professore manuali ecc. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra quest’ultima branca di produzione e l’insieme della società, ci si ravvede da tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale, e con ciò produce anche il professore che tiene lezioni sul diritto criminale, e inoltre l’inevitabile manuale, in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto "mer­ce" [<=]sul mercato generale. Con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale.

Il delinquente produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati, ecc.; e tutte queste differenti branche di attività, che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche , e ha impiegato nella produzione dei suoi strumenti una massa di onesti artefici.

Il delinquente produce un’impres­sione – sia morale, sia tragica, a seconda dei casi – e rende così un "servizio" al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto criminale, non produce soltanto codici penali e con ciò legislatori penali, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedie. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, diminuendo in questo modo la concorrenza tra i lavoratori e impedendo in una certa misura la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione.

Il delinquente appare così come uno di quei naturali "elementi di compensazione" che ristabiliscono un giusto livello e che aprono tutta una prospettiva di "utili" generi di occupazione. Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vi­ta borghese. Egli preserva così quella vita dalla stagnazione, e suscita quel­la inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive”.

Evidentemente, e com’è d’altronde ben noto, Marx – che non era un moralista, ed è facile intenderlo da questa sua sarcastica “digressione sul lavoro produttivo”, appuntata contro gli economisti borghesi nel I libro delle Teorie sul plusvalore – ben sapeva come la produttività del delinquere fosse organica al capitalismo (e non viveva in Italia!). Incomprensibilment­e invece – cioè per incomprensione della realtà – l’apparire del lato delinquenziale del produrre ricchezza provoca in tanta cosiddetta “sinistra”, pienamente organica an­ch’essa al capitalismo nostrano, scan­dalo e riprovazione. Che poi si concretizzano null’altro che in sterili richiami a una purezza ideal-borghese dei rapporti di produzione che è del tutto immaginifica. Ed anche nei migliori fra tali moralisti l’ineffettualità della condanna è già inscritta nella sua sostanza appunto soltanto morale [<=, #1 #2], in assenza e di reale comprensione del fenomeno e di congrue pratiche (politiche) capaci di opposizione-trasforma­zione.

Come in quei tanti tra i “sini­stri” che, ci capita di sentire, son pre­da di inconsulto stupore allorché, di fronte al conclamato scandalo, notano come la massa – dei “cittadini” [sic] – non riesca a trarne motivo di rifiuto e presto dimentichi tutto quan­to. Non è tanto che la massa “dimen­tichi”, diciamo loro, quanto piuttosto che il dimenticare o il ricordare – di per se stessi – a nulla valgono.

La reazione al dato, all’“informa­zione”, perché non sia né vana né effimera né meramente moralistica, richiede infatti che vada ad innestarsi su di un già presente sostrato di pratiche – collettive, politiche – tale da esser capace di tradurre quelle emergenzialità contingenti in una ridislocazione – in un “aggiustamento di tiro” – dell’agire politico stesso. E, guarda caso, perché si abbia ciò è richiesta infine la presenza di un soggetto politico organizzato capace di dare sostanza e direzione all’agire dei pur motivati singoli.

Gli stupefatti di tanta popolare ignavia dovrebbero piuttosto chie-dersi se queste condizioni sono oggi presenti in Italia. Vedrebbero allora che nella generale assuefazione del- le masse all’impotenza diviene del tutto “razionale” (cioè “necessario”,  a livello dell’agire immediato e isolato) accettare, appoggiare e far proprio (anche idealmente) quel delinquere – e quel delinquente – che sappia mostrare, a posteriori e col proprio “successo”, la “bontà” del suo operato.

E un domani, se l’“eroe delinquente” dovesse andare a finir male, il seguace entusiasta della prim’ora potrebbe pur sempre sottoscrivere quanto dichiarò il nazista Eichmann al suo processo: “avrà anche sbagliato su tutta la linea; ma una cosa è certa: fu un uomo capace di farsi strada e salire dal grado di caporale dell’esercito tedesco al rango di Führer di una nazione di quasi ottanta milioni di persone. Il suo successo bastò da solo a dimostrarmi che dovevo sottostargli”.

[n.s.]

 

 

Morale e classe

(insegnamenti e aforismi classici)

Il delinquente produce un’impres­sione, sia morale [=> quiproquo 81-83-85], sia tragica, a seconda dei casi, e rende così un “servizio” al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non fa nascere soltanto manuali di diritto criminale, non fa concepire soltanto codici penali e con ciò legislatori penali, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedie. Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Egli preserva così quella vita dalla stagnazione, e suscita quella inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, di­minuendo in questo modo la concorrenza tra i lavoratori e impedendo, in una certa misura, la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione. Il delinquente appare così come uno di quei naturali “elementi di compensazione” che ristabiliscono un giusto livello e che aprono tutta una prospettiva di “utili” generi di occupazione.

Chiunque ancora mettesse in dubbio che questi rispettabili banditi sfruttano la produzione nazionale e internazionale soltanto nell’interesse della produzione e degli sfruttati stessi, costui sarà certamente un po’ meglio istruito dal seguente sermone sull’alta dignità morale del banchiere. “Gli istituti bancari sono istituzioni religiose e morali. Quante volte la paura di essere visti dall’occhio attento e ammonitore del suo banchiere non ha distolto il giovane commerciante dalla compagnia di amici agitati e dissoluti? Quanto si preoccupa di godere buona reputazione presso il banchiere, di apparirgli sempre ineccepibile? Un aggrottamento di ciglia del banchiere ha su di lui un effetto maggiore delle prediche morali dei suoi amici; non trema egli al pensiero di poter essere sospettato colpevole di un inganno o della più piccola affermazione inesatta, per timore che ciò possa provocare diffidenza e quindi una restrizione o una sospensione del suo credito bancario? Il consiglio del banchiere è per lui più importante di quello del sacerdote” (Bell, direttore di banca scozzese). [Karl Marx]

Nella storia della società, appena oltrepassiamo lo stato primitivo dell’u­manità, l’età della pietra, le ripetizioni delle condizioni sono l’eccezione e non la regola; e laddove tali ripetizioni si presentano, esse non accadono mai precisamente nelle medesime circostanze. La nostra scienza è perciò nel campo della storia umana di gran lunga più indietro che nel campo della biologia. Ma c’è di più: se una volta, in via eccezionale, si riconosce il legame intimo tra forme di esistenza sociali e forma di esistenza politiche di un periodo storico, questo di regola succede allorché queste forme hanno già fatto in parte il loro tempo e vanno incontro alla decadenza. La conoscenza, quindi, è qui essenzialmente relativa perché essa si limita a penetrare il nesso e la successione di certe forme di società e di Stato che vigono solo per un dato tempo e per dati popoli e che per loro dunque transeunti. Ora, è curioso il fatto che proprio questo campo è quello in cui più spesso ci imbattiamo nelle pretese verità eterne, nelle verità definitive di ultima istanza e così via. Sono dichiarate verità eterne solo da chi mira ad arguire, dall’esistenza di verità eterne, che anche nel campo della storia umana ci sono verità eterne, una mo­rale eterna, una giustizia eterna e così via, che esigono una validità e una portata analoga a quella delle conoscenze e delle applicazioni della matematica.

Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. “Cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa[Enciclopedia delle scienze filosofiche]. La libertà non consiste nel sognare l’indipen­denza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato. Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto a quelle che regolano l’esistenza fisica e spirituale dell’uomo stesso: due classi di leggi che possiamo separare l’una dal­l’altra tutt’al più nell’idea, ma non nella realtà. Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. Quindi quanto più libero è il giudizio dell’uomo per quel che concerne un determinato punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il contenuto di questo giudizio; mentre l’in­certezza poggiante sulla mancanza di conoscenza, che tra molte possibilità di decidere, diverse e contraddittorie, sceglie in modo apparentemente arbitrario, proprio perciò mostra la sua mancanza di libertà, il suo essere determinato da quell’og­getto che precisamente essa doveva dominare. La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico. Non si indaga e non si giudica in modo criticamente scien­tifico, ma senz’altro si condanna in nome della morale. [Friedrich Engels]

La coscienza della classe operaia non può diventare vera coscienza politica se i lavoratori non imparano a osservare, sulla base dei fatti e degli avvenimenti politici concreti e attuali, ognuna delle altre classi sociali in tutte le manifestazioni della vita intellettuale, morale e politica; se non imparano ad applicare in pratica l’analisi e il criterio materialistico a tutte le for­me d’attività e di vita di tutte le classi, strati e gruppi della popolazione; se non si abituano a reagire contro ogni abuso, contro ogni manifestazio­ne dell’arbitrio e dell’oppressione, della violenza e della soperchieria, qualunque sia la classe che ne è colpita, e a reagire da un punto di vista “comunista” e non da un punto di vista qualsiasi. Chi induce la classe operaia a rivolgere la sua attenzione, il suo spirito di osservazione e la sua coscienza esclusivamente, o anche principalmente, su se stessa, non è un “comunista”, perché per la classe operaia la conoscenza di se stessa è indissolubilmente legata alla conoscenza esatta dei rapporti reciproci di tutte le classi della società contemporanea, e conoscenza non solo teorica, anzi, non tanto teorica, quanto ottenuta attraverso l’esperienza della vita politica. Le denunce politiche sono una dichiarazione di guerra al governo, come le denunce economiche sono una dichiarazione di guerra agli industriali. E questa dichiarazione di guerra ha un’importanza morale tanto maggiore quanto più vasta e vigorosa è la campagna di denunce, quanto più numerosa e decisa è la classe sociale che dichiara la guerra per iniziarla. Le denunce politiche sono dunque, di per sé, un mezzo potente per disgregare il regime nemico, per staccare dal nemico i suoi alleati casuali o temporanei, per seminare l’ostilità e la sfiducia tra i ceti che partecipano permanentemente al potere autocratico. [Vladimir Lenin]

Catturare l’infanzia del paese, meccanizzare il suo libero gioco nella routine dell’esercitazione militare, coltivare le sopravvivenze selvagge della combattività, avvelenare la sua prima comprensione della storia con false idee e pseudo-eroi, e di conseguenza con la denigrazione e l’igno­ranza di ogni lezione del passato veramente vitale e nobile, stabilire un punto di vista “geocentrico” dell’uni­verso morale in cui gli interessi del­l’umanità sono subordinati a quelli del “paese” – e così con una facile rapida e naturale deduzione, quelli del “paese” a quelli dell’“io” – alimentare l’orgoglio sempre arrogante della razza in un’età in cui il più delle volte prevale una fiducia in sé, che per necessaria conseguenza porta a disprezzare le altre nazioni, e in questo modo avviare i bambini alla vita con false misure di valore e senza il desiderio di apprendere dalle fonti straniere: imprimere questo isolamento di fondo della mentalità e della morale all’infanzia di una nazione e chiamarlo “patriottismo” è il più scorretto abuso di educazione che sia possibile immaginare. Tuttavia il potere della chiesa e dello stato sull’i­struzione primaria è volto coerentemente a questo scopo, mentre la mescolanza di clericalismo e accademismo autocratico che domina l’istru­zione secondaria di questo paese riversa il suo entusiasmo negli stessi nefasti canali. Infine, i massimi centri della nostra cultura, le università, corrono il pericolo di una nuova distorsione della libertà di indagine e di espressione. [John A. Hobson]

Non è certo che un “can che affoga” non vada bastonato, o che addirittura non sia doveroso bastonarlo. Io penso che vada aggiunta una condizione, e cioè che l’avversario sia anch’egli un combattente leale e, una volta sconfitto, si vergogni e non si rialzi; oppure torni alla rivincita apertamente e coraggiosamente. Se è così, nulla da dire. Bisogna vedere di che cane si tratti e come sia caduto in acqua. Grosso modo, può essere caduto per tre motivi: i. ha messo il piede in fallo ed è caduto da sé; ii. c’è stato gettato da altri; iii. ce l’hai gettato tu stesso. Se hai lottato con un cane e di tua mano l’hai bastonato fino a gettarlo in acqua, è ancora poco continuare a malmenarlo nell’acqua con un bastone. Un cane non si può mettere sullo stesso piano di un avversario leale perché, qualunque sia il suo modo di ringhiare, è sempre privo di ogni “principio morale”. E poi il cane sa nuotare, senza dubbio tornerà ad arrampicarsi a riva; non cambierà carattere. Gli ingenui, prendendo la sua caduta in acqua per un lavaggio, credono che si pentirà e smetterà di mordere: questo è un errore particolarmente grave. Insomma, se si tratta di cani che mordono, credo vadano inclusi comunque tra quelli da bastonare, sia a riva che in acqua.

Ma gli avversari non “odiano i buoni come nemici”? Eppure la gente non dice una parola. Se da ora in poi la luce e le tenebre non condurranno una lotta a fondo e gli ingenui scambieranno la condiscendenza verso il male con la benignità e continueranno ad essere indulgenti, il caos attuale sarà senza limiti e senza fine. Allora non si deve adottare mai il fair play?, chiederanno le persone misericordiose. Naturalmente si deve, ma è ancora presto. Se uno non usa con te il fair play, la gentilezza, e tu lo usi con lui, alla fine sarai tu a subirne il danno. E non ti sarà più possibile non solo essere gentile, ma neppure non esserlo. Perciò, se volete essere gentili, prima di tutto è meglio che osserviate bene l’avversario; se appena è indegno di essere trattato con gentilezza, non fate complimenti: solo quando avrete ottenuto da lui il fair play potrete usarlo con lui. Si sospetterà che con questo io aizzi la lotta fra correnti vecchie e nuove o fra altre correnti, e renda più profondo l’odio e più violento il conflitto. Oso affermare categoricamente che il veleno degli antiriformatori contro i riformatori non è mai venuto meno, e i metodi impiegati non potrebbero esser più crudeli. Invece i riformatori sono ancora immersi nel sogno, e ne traggono danno: perciò non c’è riforma. Da ora in poi è necessario mutare condotta e metodi. Ci sono tante doppie morali: per i padroni e per i servi, per gli uomini e per le donne, la morale non è la stessa, non è stata ancora unificata. Usare solo al “can che affoga” la stessa benevolenza che all’uomo caduto in acqua è troppo intempestivo, troppo prematuro. Se si vuole che lo spirito del fair play venga adottato universalmente, ritengo che si debba aspettare almeno fino a quando i cosiddetti “ca­ni che affogano” abbiano modi umani. In una frase: “Sostieni i tuoi e attacca i nemici”. Ed è tutto. [Lu Hsün]

È immorale che una donna, che prende denaro per affittare i suoi organi sessuali, li affitti poi anche ad altri, a meno che non si sia convenuto così. È vero però che in siffatti paesi la donna non trova neanche un boccone da mangiare, né un giaciglio, se non affitta i suoi organi sessuali, sicché un inganno da parte sua infrange in fondo solo un contratto immorale. Ma se non ha nulla per coprire verecondamente la propria nudità, a meno che non la venda! Voglio dire: in un paese come il nostro è tutto immorale, sia l’adulterio che il matrimonio. Ci sono poche occupazioni che danneggino la morale di un uomo tanto quanto l’occuparsi di morale. Sento dire: bisogna amare la verità, bisogna mantenere le promesse fatte, bisogna lottare per il bene. Ma gli alberi non dicono: bisogna essere verdi, bisogna lasciar cadere verticalmente i frutti al suolo, bisogna frusciare con le foglie quando ci passa il vento. [Bertolt Brecht]

Chi ha il coraggio di stropicciarsi per bene gli occhi una buona volta e vedere in che modo tutta l’immo­ralità è venuta in questo mondo, rimarrà abbagliato dalla scoperta che il male l’ha causato tutta la morale di questo mondo. E si va oltre: la morale ha provocato anche tanta miseria e morte. La morale è una malattia venerea. In un primo tempo si chiama virtù, in un secondo tempo noia e in un terzo tempo sifilide. E dato che una religione che perdona spietatamente ha dato agli uomini la virtù come punizione per i loro vizi, gli imbecilli che governano il mondo hanno avuto l’i­dea di consacrare la morale come un bene di diritto. E ora la morale infuria contro l’umanità nelle legittime forme della noia e della sifilide. La morale paralizza, monta al cervello, accieca, asciuga le linfe vitali, indurisce le arterie. Non possiamo intraprendere nulla a questo mondo, esercitare un lavoro, risolvere un problema senza che si faccia sentire l’influsso corruttore della morale. Se si tratta di una questione di evoluzione artistica, sia­mo moralisti; se si tratta di novità di ordine pratico, siamo moralisti; u­no muore per la febbre, e noi in sovrappiù lo contagiamo con la morale. Ma siamo così moralisti che non ci limitiamo a dare solo ai preti il piacere di curare la nostra anima: la diamo in custodia ai nostri criminalisti, e dobbiamo perciò difendere, già con tre istanze, cose che in realtà spettano solo al giudice supremo – e che probabilmente nemmeno lo interessano. Tra queste c’è a esempio la nota – e a ragione amata – convivenza extramatrimoniale, dalla quale quasi sempre l’una o l’altra autorità statale si sente offesa.

E c’è anche il diritto naturale della donna a dissipare la somma dei suoi pregi estetici con chi vuole, o farla convertire, da chi lei vuole, in valuta sonante. Dato che si tratta di un evento puramente morale, le autorità ci si immischiano dentro. Naturalmente si vergognano della loro indiscrezione. Ma mentono. In realtà, per quanto riguarda il problema della prostituzione, non hanno altro interesse che quello di uccidere l’igiene con il manganello della morale. L’amore è condito con i rimorsi di coscienza e i rimorsi di coscienza sono gli impulsi sadici del cristianesimo. La perversità dei piaceri della vita ci mostra i suoi aspetti più spaventosi in casa e nella società, e crea l’esigenza di andare ogni tanto in un bordello dove poter ricordare che la purezza dei sentimenti è inestimabile. E dove mai la buona educazione borghese è tenuta in tanto onore, in questo nostro mondo che va in sfacelo, se non presso un paio di ruffiane? Fintanto che le ruffiane non ingannano lo stato sulle tasse, non c’e alcuna ragione di toccare i loro diritti civili e di non riconoscere loro quei titoli che sono legittimate a portare. Si fanno chiamare a volte dottoressa, professoressa, giudice, e simili, innalzandosi così sulle volgari prostitute occasionali che per i cattivi affari che fanno si debbono aspettare di essere perseguite legalmente. In effetti qualcuna di loro riesce a ottenere un’alta considerazione arrivando ad avere una posizione direttiva in un’associazione contro la prostituzione.

La nostra morale offre lo spettacolo di una dozzina di detentori della coscienza morale, di una dozzina di detentori della responsabilità morale e di un pubblico ministero, che perseguitano una creatura la cui sola forza nei confronti della vita è quella di alzarsi le gonne al momento giusto. La donna, facendo delle concessioni, ferisce i diritti della morale; rifiutandole, ferisce i diritti dell’immoralità. Ma mentre la morale lascia discutere con se stessi, concede le case di piacere, distribuisce persino i fogli di permesso, l’immoralità invece è inesorabile: le sue pretese sono esecutive e da ogni causa giudiziaria esce a fronte alta. Si fa un’opera buona se si viene in aiuto del lusso del prossimo. Mentre sostenere gli sforzi della povertà vuol dire applicare male la carità. Karl Kraus]

[aa.vv.]

 

Morale e criminalità

(non separazione pubblico-privato)

Esiste un tipo d’indignazione improduttiva che resiste a ogni tentativo di darle espressione letteraria. Da un mese mi soffoca, togliendomi ogni illusione sul conto della civiltà, la vergogna di cui ci copre un duplice processo per relazione extraconiugale, la sua condotta giudiziaria, il suo trattamento giornalistico.

L’obbligo di dire la sua su ogni avvenimento non sprona chi è paralizzato dal pensare a un groviglio di fatti incredibili, a una gara tra la brutalità e l’ipocrisia, al­l’opera di una giustizia per cui la ragione diventa nonsenso e un’azione benefica una tor­tura. Ora la prospettiva che una simile assurdità non finirà tanto presto, che il processo seguirà il suo corso e che farà uscire i verbali, tranquillizza la coscienza del pubblicista, a cui nel conflitto tra ripugnanza e senso del dovere era caduta di mano la penna. Ora la paura che si protragga un’attualità mortificante lo sprona di nuovo a bandire o­gni esitazione e a protestare forte contro ogni ulteriore tentativo di molestare la pubblica opinione nostrana, già angustiata da mille crucci.

Shakespeare sapeva già tutto. Nei passi che ho scelto per queste considerazioni – “La mia missione mi ha fatto scorgere parecchie cose: ho visto la corruzione ribollire e traboccare; leggi per ogni colpa, ma le colpe protette al punto che s’irridono i decreti, che non contano più degli avvisi dal barbiere” [Misura per misura, v.1]; “Via la mano brutale, infame sbirro! Te stesso frusta, non quella puttana! Tu bruci dalla voglia di far con lei ciò per cui la punisci!” [Re Lear, iv.6] – c’è l’ultima parola che si possa dire sulla morale che ha reso possibile e gonfiato quel processo; il caso stesso che ha indotto il poeta a trovare per il carattere di una città appestata dalla morale potrà rafforzare la fede nello sconfinato potere divinatorio del genio.

Da lui i costruttori morali di tutti i popoli dovrebbero prendere a prestito malta e arnesi, dalla sua altezza ogni visione del mondo, sia conservatrice che progressista, offre un’immagine gradita al creatore; esiste civiltà dove le leggi dello stato sono pensieri shakespeariani tradotti in paragrafi, dove per lo meno pensieri rivolti a Shakespeare determinano l’operato degli uomini che guidano la nazione. Alle sue percezioni ricorra chi è chiamato a innalzare o a rinnovare il muro penale che separa il male dal bene. E allora scoprirà che in qualche punto il vecchio muro non ha tracciato la linea naturale perché ha dovuto cedere di fronte agli ostacoli – ipocrisia e fissazione delle formule – frapposti da epoche grette.

Così una legge centenaria finisce per diventare un tormento dell’uma­nità: lo zelo che protegge ciò che non ha bisogno della protezione degli uomini l’aveva prodotta con l’indul­genza che lascia libero gioco a ciò che al buon senso pare degno di punizione. Ma essa, nata dall’ottusità di una generazione, è rimasta operante per tutti gli anni della sua durata, poiché era gradita agli uomini peggiori del suo tempo.

Chi è uso per mestiere a mettere in guardia dai pericoli che lo sviluppo di una stampa d’opinione venale procura alla generale civiltà e al bene delle nazioni; chi si batte per la sopravvivenza di tutte le forze conservatrici di fronte all’irruzione di un’orda priva di tradizioni; chi preferisce persino lo stato di polizia – e non solo in senso estetico – all’affermarsi di un dispotismo del giornalume; chi riconosce con franchezza d’avere abbracciato in tutti i campi del pubblico dibattito, se non altro per risentimento, il partito dei cattivi contro i peggiori, e anzi d’aver abbandonato qualche volta la buona causa per disgusto verso i suoi paladini, può sperare che si giudichi insospettabile, e pura espressione di un convincimento, anche una confessione che a parecchi può giungere inattesa. Io dunque confesso di far mie le idee dello statalista – che alla legislazione non si stanca di chiedere quella che il ciarlatanesco spirito liberale chiama con disprezzo “tutela” – solo quando considero il campo d’a­zione dei valori economici. Ripetere che qui mi sembra di rigore il più severo controllo, che io mi auguro di vedere le nuove forme prese alla gola da nuovi articoli di legge e che nulla mi appare più urgente del far posto nell’inasprita stretta del laccio, oltre che agli attivi distruttori del benessere materiale del popolo, anche ai loro complici della stampa, è un portar nottole ad Atene, imbroglioni alla borsa e imbonitori alla stampa liberale.

Ma nella sollecitudine per la sicurezza economica io ritengo che si esaurisca in pratica la missione del legislatore. Gli si conceda anche di stendere la sua mano protettrice sulla salute, sull’inviolabilità del corpo e della vita e su altri “beni giuridici” tangibili e circoscritti. Io non so quanti di questi siano tutelati dalla vecchia legge penale, e se la nuova ne accrescerà o ne diminuirà il numero. Quel che è certo è che ce ne sono troppi, e quando gli uomini hanno facoltà di emettere giudizi su altri uomini dovrebbero tenere sempre presenti i limiti della loro conoscenza. Proprio una legge che tutela anche i sentimenti religiosi e punisce le offese alla fede non dovrebbe mai attentarsi a penetrare nelle profondità dell’animo umano, precluse a ogni influsso terreno. E proprio gli spiriti conservatori, tacciati di “mentalità clericale”, anziché spingere la giustizia dello stato a sorvegliare le segrete vie della psiche non dovrebbero avere altra aspirazione se non di badare che accanto al potere terreno, che punisce, conservi un po’ di spazio anche il rappresentante di quello ultraterreno, che ammonisce. Già il bene del­l’“onore” trova il pericolo di una proliferazione di cricche giurisdizionali – la suddivisione in diversi tipi, più facilmente definibili, di onore, inerenti alle varie categorie e professioni; bisognerebbe anche fare in modo che la legge non riconosca a priori una vaga “reputazione” in cui anche il peggior mascalzone può essere “leso”, ma conceda che – per esempio mediante il rilascio di attestati di buona condotta – si dimostri l’esi­stenza di questa reputazione, unico modo per rendere dimostrabile la “lesione” e definibile la sua gravità. Fa l’effetto di una farsa un procedimento di conciliazione mediante il quale uno che ha sulla coscienza il furto di parecchi milioni può sentirsi offeso dall’accusa errata e indimostrabile d’avere rubato anche cinque fiorini e procurarsi, grazie alla punizione del “diffamatore”, una patente inoppugnabile di onorabilità.

Ma se qui, sottilizzando furbescamente alla maniera di Falstaff sulla definizione del concetto di onore, la legislazione deve riconoscere al pari dello spaccone perdigiorno che la parte migliore del valore è la prudenza, si trova poi completamente disarmata di fronte a quell’altro nemico che imbastisce i suoi tiri nascondendosi dietro la maschera della “morale”. Si faccia da parte e lo lasci venire allo scoperto. Essa non ha il potere di esorcizzare i fantasmi, che le attraversano la strada quando meno se l’aspetta e escono dalla terra nel punto in cui s’è posato il suo piede. E ancora una volta bisognerà rifarsi a Shakespeare, quando mette in bocca alla saggezza dei pazzi la storia della cuoca scimunita che metteva nel pasticcio le anguille vive: “gli batteva la testa con un mestolo e gridava: giù, bestiacce, giù!... Suo fratello era quello che per buon cuore spalmava di burro il fieno al suo ronzino”. A una simile fatica senza costrutto si sobbarca la sorveglianza statale che combatte col ferro e col fuoco il “malcostume”. Un enorme equivoco ha portato fuori strada le migliori energie e le più oneste intenzioni. Partito dall’idea d’infliggere una sanzione allo scandalo provocato dalla pubblica immoralità, il legislatore è incappato nel sofisma che l’immoralità provoca pubblico scandalo. E quando il pubblico scandalo s’è avuto sul serio come risultato del perseguimento penale dell’immoralità privata, il giudizio, tutto preso dalla ricerca dei dati di fatto, aveva ormai perso la capacità di distinguere tra causa ed effetto.

Chi ragiona per schemi fissi non riuscirà mai a capire che uno possa battersi a favore della legge contro lo sfruttamento della prostituzione e mettere in guardia da ogni intervento legislativo nella più scostumata delle esistenze private: che si aizzi il pubblico ministero contro le inserzioni ruffianesche e che si auspichi l’impu­nità per chi favorisce l’incontro di due persone maggiorenni e responsabili; che ci si auguri un più severo controllo delle sconcezze ostentate in pubblico, che disturbano chi non vuole e lusingano chi non deve, e al tempo stesso si desideri che in privato ciascuno sia contento alla sua maniera. Ma una mente capace di conciliare simili vedute contrastanti va ancora più in là. Essa dice: il “bene giuridico della moralità” è un fantasma. Con la “morale” il codice non c’entra, c’en­tra solo il pettegolezzo di provincia. Ciò che la giustizia può ottenere in questo campo è la protezione dell’i­nermità, della minorità e della salute. Su questi beni ancora tristemente privi di tutela si riveli quella sollecitudine che oggi molesta d’ufficio la vita privata. Il legislatore in veste di cronista ficcanaso che alza davanti all’o­pinione pubblica le sottane della vita, la giustizia ridotta alla parte di un domestico indiscreto che origlia alle porte delle camere da letto e spia attraverso il buco della serratura! Il legislatore adulto vorrebbe sempre esser là a guardare. All’infuori di lui nessuno arrossisce di quello che succede in un’alcova – a meno che non si voglia derivare il “pubblico scandalo” dal noto detto che “i muri ci sentono” e dall’idea che di conseguenza possano anche arrossire fin sopra le orecchie.

Per un bene sottoposto a tutela ne viene sempre messo a repentaglio un altro, e anche più d’uno. C’è solo da chiedersi: qual è il più importante, quello di una “moralità” la cui violazione non offende l’occhio di nessuno o quelli della libertà, della pace dello spirito e della sicurezza economica? Posto di fronte a una simile scelta ogni legislatore che avesse il coraggio del proprio giudizio dovrebbe subito decretare, per esempio, l’impunità dei rapporti omossessuali. E in questo potrebbe richiamarsi alla petizione indirizzata a suo tempo da un paio di centinaia di uomini noti nel campo scientifico, artistico e sociale, che certo solo la più volgare mentalità filistea riuscirebbe a sospettare di un interesse pro domo. Io non so se in quel documento sia stato posto abbastanza in rilievo l’unico punto di vista sotto il quale va mostrata anche agli oppositori l’urgenza di una soluzione del problema. Qui meno che mai il legislatore si accontenta di punire la violenza e di proteggere la minorità e la salute; al contrario, vuol dare soddisfazione non solo alla morale che gli sembra venga offesa ma anche al gusto naturale contro cui si è agito. Esso si accanisce sempre là dove l’istinto e il libero arbitrio di persone responsabili hanno creato un’intesa. Lo fa in tutte le possibili situazioni erotiche: figurarsi in quelle omoerotiche! Se per combinazione il reo non fa parte degli uomini più grandi e nobili della nazione (nel qual caso si supporrà una tendenza psicopatica) la morale riceve la sua soddisfazione: il colpevole di perversione viene purgato con alcuni mesi di dieta scadente. Ma intanto sul fertile terreno della sanzione penale cresce il grano del ricatto.

Sì, ribatte il criminologo, ma il ricattatore cadrà anche lui nella rete e dovrà scontare, addirittura, una pena doppia! Naturalmente: e il pubblico ministero ignorerà persino il dovere della riconoscenza nei confronti del denunciante, il cui premio consisterà davvero nella condanna per un duplice reato. E se il ricattatore non si farà delatore, se la pressione esercitata sulla vittima avrà l’effetto desiderato e l’omissione della denuncia verrà pagata con torture quotidiane e con la rovina economica? Qui crolla la saggezza del teorico puro. Abituato a ricorrere al comodo appiglio della “statistica”, non sa cosa rispondere: purtroppo non esistono ancora statistiche delle denunce non presentate e dei ricatti riusciti. E siccome la sua modestissima dose di fantasia e di esperienza non gli può sostituire la sapienza delle cifre, non immagina che nella stessa ora in cui lui si compiace di un ordinamento del mondo che punisce l’immoralità e la violenza mille infelici, nelle province della sua patria, aspettano terrorizzati l’arrivo del loro ricattatore... Due reati, sulla carta: ma essi si assicurano a vicenda l’impunità, l’uno favorisce l’altro. Si apra la valvola morale, e i ricatti che finora non sono stati denunciati né perseguiti non verranno neanche più commessi. O si vorrebbe non rinunciare a un bel delitto per la bella ragione che quel tipo di criminologia che formula i pensieri in base ai numeri sarebbe ridotta alla disperazione dall’estrema improbabilità di avere u­na statistica dei ricatti non commessi?

Lo psichiatra Albert Moll ha scritto: “Talvolta agli omosessuali viene mosso anche da persone ben disposte il rimprovero di far troppa propaganda. Ma che dovrebbero fare? Se non si fanno sentire non raggiungeranno mai il loro scopo. O avrebbero tutt’al più un altro mezzo: dovrebbero cercare, alla maniera di un generale o di un politico senza scrupoli, di giungere alla meta passando su una montagna di cadaveri. Basterebbe che facessero pubblicamente i nomi di uomini la cui omosessualità è notoria e dimostrabile in qualsiasi momento. E allora, di sicuro, più d’uno che aborrisce l’omosessualità dal profondo dell’anima ma che ha rapporti di familiarità con degli omosessuali senza conoscerne le tendenze sarebbe stupito della rivelazione. Alla fine diversi alti funzionari e influenti uomini politici si direbbero: "Ho sempre pensato che i pederasti siano la peggior genìa del mondo, ma ora sento che mio nipote – mio figlio, il mio amico – pratica l’omosessualità. Eppure è una persona tanto seria e per bene. Se anche lui è così, bisognerà cambiare idea sulla questione". Questa presa di posizione ignorerebbe ogni riguardo, e numerose esistenze ne sarebbero socialmente stroncate. In tal modo però molte persone influenti verrebbero direttamente interessate alla cosa e un rapido successo sarebbe più che probabile. Resta comunque che un simile modo di procedere sarebbe senz’altro riprovevole. Lo ricordo solo perché non bisogna contestare agli omosessuali che non vi ricorrono il diritto di fare della propaganda ragionevole”. E nota anche l’uscita di un ministro che aveva avuto dal capo della polizia l’elenco delle persone contro cui stava per essere avviato un procedimento giudiziario: “Che società spaventosamente feudale! C’è proprio da vergognarsi di non essere nella lista...”.

Nel regno eterno degli impulsi sensuali, che sono più antichi del bisogno d’ipocrisia, il legislatore si muoverà sempre con impaccio. Se agirà con riguardo, farà sorridere nella parte del poliziotto zelante che riferisce d’aver sentito di notte, in luogo appartato, “un rumore di accoppiamento”; o di quell’altro che una volta ha portato a un ufficio un rapporto che diceva testualmente: “Sono soprag­giunto nel preciso istante in cui su una panchina del parco comunale un uomo baciava e abbracciava un soldato. Purtroppo sono arrivato troppo presto, per cui non posso denunciare nessun atto osceno”. Ma il guardiano della morale può anche arrivare al momento giusto, e provocare un disastro. Lui si affanna a coprire con pomate e cerotti le pustolette morali, e il corpo sociale comincia a suppurare dentro. Il perseguimento delle deviazioni sessuali favorisce il ricatto, e ogni altro tentativo di recintare la vita privata con uno steccato di articoli provoca nuova immoralità, nuovi reati. La vergogna della tratta delle bianche, deprecata con accenti patetici, sarebbe stata risparmiata alle nazioni civili se i legislatori fossero più capaci di adirarsi che di arrossire, se al dibattito sulla prostituzione non avessero mai partecipato i portavoce della pudicizia. L’usura e lo sfruttamento prospereranno finché ai mercanti del­l’amore dovrà esser pagato anche il rischio dell’infrazione al codice penale; anche il divieto di quella forma più innocua di mediazione che non usa violenza ma si limita a creare occasioni d’in­contro non fa che migliorare le prospettive di guadagno degli intermediari: la proibizione grava sul compenso che viene ricevuto e fa salire il prezzo che si paga.

È di un umorismo atroce l’insegna­mento scaturito da un eccesso di moralismo del vecchio diritto. Per colpire la prostituzione si privavano del diritto agli alimenti le mogli imputabili d’aver ricevuto denaro in cambio di prestazioni sessuali. Cosa facevano i signori del creato? Mostrando in anticipo la loro nobiltà, prostituivano le mogli e si risparmiavano gli alimenti.

Per celebrare la selva di articoli del codice, sarebbe istruttivo un elenco di tutti i delitti, reati e infrazioni di cui si sono resi responsabili la legge e coloro che la interpretano rigorosamente. Non penso solo a quei dolorosi contrasti rivelati a ogni passo dall’in­giustizia eretta a sistema: l’invalido ridotto alla fame che, troppo orgoglioso per mendicare, fa estrarre i “pianeti” dai topolini bianchi finisce in guardina per “infrazione al divieto della vendita ambulante di stampati”, la madre snaturata che sevizia “per la prima volta” il suo bambino riceve una semplice ammonizione... No, là dove questa legge penale condanna se stessa, il solenne commemoratore dovrebbe iniziare il discorso con un sorriso in un occhio e una lacrima nell’altro.

Il fatto che essa favorisca il crimine del ricatto, che violi l’artico­lo in cui si vieta di “rendere pubblicamente note ai danni di chiunque circostanze infamanti, ancorché vere, della vita privata e familiare” e che, ancora, provochi con ciò quel “grave e pubblico scandalo” contro il quale si rivolge l’articolo sul buon costume, tutti questi sono solo i casi più importanti in cui il serpente si morde la coda. E l’imposizione della pena detentiva là dove è stato leso un “bene giuridico” che non è un bene giuridico non corrisponde a una “limitazione della libertà personale”?

E con ciò torno a quel classico esempio d’immoralità favorita dalla legge che recentemente è stato posto davanti agli occhi sgomenti dell’opi­nione pubblica, in testa a cronache lunghe intere colonne: una stampa corrotta che non ha voluto celare ai suoi lettori un solo particolare, un solo pezzetto. Il pareggio del bilancio, il cartello del petrolio e la riforma della stampa, anzi persino l’“onore del giornale” leso dalla corte suprema hanno dovuto far posto alle beghe di una coppia, e la giustizia s’è messa a scorrazzare su e giù per quel palcoscenico a cui s’era ridotto il tribunale. Ma il codice morale godrà ancora di una fama proverbiale e costituirà una fonte preziosa per gli studiosi del costume che vorranno sondare le idee dominanti nel primo novecento, riguardo ai diritti del marito e ai doveri della moglie.

Un giudice – di quelli che esistono ancora – avrebbe fatto di sfuggita un inchino alla maestà della legge (o traballante regina!) infliggendo una pena il più mite possibile, avrebbe fatto valere come attenuante la manifesta sete di vendetta del marito, che la giustizia non può prestarsi a saziare, e senza ulteriori perizie, solo in base all’inconsistenza di quel legame, ne avrebbe giudicata indolore la rottura. Un altro giudice, o abbreviando il processo o celebrandolo rigorosamente a porte chiuse, avrebbe impedito al giornalume scandalistico della cronaca e della chiacchiera, a quello dei quotidiani e all’altro dei fogliacci umoristici, di ammorbare per settimane il clima morale di una città e di spargere ai quattro venti la polvere di un malcostume che ricopre abbondantemente il mucchietto di sporcizia del misfatto in questione.

Un altro forse avrebbe persino misurato in base alla propria esperienza della vita l’imperfezione della legge, non avrebbe troppo sprecato, nel giudicare un reato perseguibile su querela di parte, il pathos dei principi e non avrebbe portato il contrasto tra un caso denunciato e i mille non finiti, grazie al cielo, in giudizio a quell’im­morale grado di evidenza che spinge il sarcasmo a chiedere se adesso ogni matrimonio sia sicuro.

Da quando la naturale guerra di confine tra l’autorità del magistrato e la libertà della difesa è divenuta un intralcio costante al funzionamento della giustizia, io non ho perso occasione per sostenere l’indipendenza della giustizia verso il basso e per difendere il tribolato presidente della corte dalle prove che la smania di pubblicità di certi indiscreti tromboni impone alla sua pazienza. Così io sono di certo un giudice insospettabile quando devo riconoscere che ogni parola pronunciata dal difensore in quei dibattimenti per scongiurare un inaudito eccesso d’autorità era giusta. E il peso di quest’opinione è ancor maggiore se si pensa che neppure l’ingra­ta esperienza di vederla condivisa da molti quotidiani è riuscita a farmela cambiare.

[k.k.]

 

Nazionalismo

Quanto questo mondo sia tenuto a testa in giù dal capitale è dimostrato anche dalla maniera con cui si conside­ra “naturale” e dignitoso essere nazionalista in questa società. Rispettare la bandiera è il minimo che chiunque si vede chiedere, e nessuno per questo viene accusato di abbandonare l’identità di specie, l’umanità, che è uni­versale e internazionale. In massima parte, alle soglie del 2000, il nazionalismo deriva da considerazioni molto interessate  della borghe­sia locale circa le prospettive di sviluppo economico regionale; tranne poche eccezioni, non è neanche più con­nesso all’oppressione di nazionalità. Che ognuno sostenga la classe [<=] dominante di casa sua: ecco l’essenza del nazionalismo. Appoggiare la classe dominante della propria nazione [<=], quando sfrutta, quando vìola i diritti uma­ni, quando spaccia per tradizioni le più retrograde superstizioni, e quando muove guerra. Come movimento e corrente politica, il nazionalismo è un mezzo per il regolamento di conti interno che la bor­ghesia internazionale richiede, e per le lotte intestine dei vari settori di cui essa si compone al fine di stabilire le rispettive fette nel processo di accumulazione. Come ideologia è sempre stata l’ideologia ufficiale dell’impe­rialismo [<=]. Il fatto che il nazionalismo della borghesia nelle aree dominate e controllate e tra le nazionalità si fos­se, per un breve periodo della storia, trovato in opposizione a determinati aspetti dell’imperialismo ha portato la sinistra non proletaria (che sostanzialmente è fatta dello stesso nazionalismo) ad abbracciare e dare una ri­verniciata al nazionalismo. Ma il proletariato comunista e il marxismo vedono nel nazionalismo l’immagine della borghesia, e niente altro.

In ogni occasione, la conseguenza sociale del nazionalismo è la frammentazione della classe operaia e l’inde­bolimento del campo proletario, del campo della rivoluzione [<=] proletaria. È uno di quei retaggi reazionari da cui l’umanità deve liberarsi. È contrario non solo al comunismo [<=] proletario, ma costringe l’essere umano non a pro­gredire ma a regredire moralmente. Le uniche classificazioni che possiamo accettare (quella di specie e quella di classe) sono “essere umano” e “proletario”. Qualunque divisione tra queste due è inaccettabile. Ovviamente, lottiamo ed esigiamo l’abolizione di qualunque discriminazione basata sulle varie divisioni e cate­gorizzazioni dell’umanità. Oggi la condizione di classe accomuna i proletari in una risposta coesa sia sul piano sindacale che su quello della lotta per il socialismo, e le barriere indeboliscono il proletariato. Delle diverse opzioni, la secessione può essere favorita solo se è fortemente probabile che un tale percorso fornirà al proleta­riato diritti civili progressivi e un ambiente economico sociale più giusto e più chiaro.

L’autonomia, poi, non è un passo avanti ma una maniera di perpetuare le identità nazionali entro un unico involucro nazionale: l’auto­nomia nazionale è condannata a rendere eterne e legittimare ufficialmente le divisioni nazionali, e porre le basi per la continuazione dei conflitti nazionali nel prossimo futuro. La soluzione separatista avanzata dalla “borghesia nazionale” non ha alcuna possibilità di costruire un fronte unito con settori della classe operaia che possano vedere migliorare la propria condizione, ma anzi ne aumenta privazioni e stenti, miserie e sfruttamento. L’unica alternativa che tale nazionalismo offre alla classe operaia è la disperazione, l’abbandono della sua lotta per un mondo migliore, per il socialismo, e pretende che si assog­getti a una “schiavitù salariata” senza domani, dentro quattro mura locali sempre più strette. Con le concessioni al nazionalismo non si apre la strada alla classe perché prenda coscienza [<=] di se stessa e rafforzi e presenti la sua soluzione di classe ai problemi della società, cioè il socialismo.

[a.c.]

 

 

Nazionalitarismo

(imperialismo e stato)

Il sostegno dei comunisti alla lotta di liberazione degli iracheni dall’oc­cupazione imperialista è fuori discussione. Qui discutiamo invece quanto scrive il periodico romano Indipendenza, organo di avanguardia del cosiddetto “comunitarismo nazionalitario”, che ha pubblicato sul n. 14 (novembre 2003) ed ampiamente diffuso in rete un articolo di redazione, proposto come invito alla discussione.

Il testo inizia così: “Il messaggio inequivocabile che sale dalle macerie delle tante città irachene sottopo­ste ai bombardamenti e ai missili anglo-sta­tunitensi, intriso del sapore ripugnante dei corpi in putrefazione dei tanti senza nome e dei tanti senza volti, migliaia di uomini e di donne, resistenti civili e militari iracheni, è un messaggio che si chiama fierezza, irriducibilità alla sottomissione”. Si può notare lo stesso gusto per il macabro e per la retorica ad effetto che appare nel repertorio nazionale neoirredentista italiano: si veda p. es. il seguente brano [tratto dal sito Foibe, http://members.xoom.virgilio.it/foibe, di tal Michael Liguori, seguace, o forse pseudonimo di Marco Pirina, il più noto propagatore di falsi storici su quei tragici avvenimenti].

“Dalle diverse Foibe, cosparse su tutto il territorio della Venezia Giulia, corrono terrificanti grida che annunciano morte, rese – però – vane dal­l’assor­dante rombo dei bombardieri angloamericani …”. L’articolo prose­gue con una analisi di scenari geopolitici – nel cui merito qui non entriamo – finalizzata a dimostrare l’incon­sistenza dell’ipotesi di una “coalizione interimperialistica di Stati” contrapposta allo strapotere statunitense, e si conclude con un crescendo di appelli alla “resistenza nazionalitaria”. Ciò che ci preme far notare in questo come in altri testi analoghi, è l’evi-dente e grave “scivolamento” di significato fra Stato [<=] e Nazione [<=] (che porta con sé quelli fra antimperialismo e antiamericanismo, nonché fra internazionalismo proletario e nazionalismo social-po­pulista).

Nei discorsi “nazionalitari” lo Stato è “imperialista per definizione (senza altre connotazioni se non gerarchiche: gli Usa sono dominanti, tutti gli altri “subalterni” o “emergenti”), men­tre il soggetto della “lotta antimperialista” è (anch’essa per definizione) la Nazione. Alla rivista Indipendenza, tra le altre, da alcuni anni “si onora di collaborare” Costanzo Preve, il filosofo che nella sua ricerca “post marxista” è giunto a non distinguere più la destra dalla sinistra.

Ebbene, dirà qualche ingenuo seguace di Preve: un popolo non ha forse il diritto di conservare le proprie tradizioni (e contraddizioni), lottando contro gli (stranieri) invasori che le stravolgono e le distruggono? Risposta banale: . Ma ammettiamo per un momento che “il popolo” sia un’enti­tà compatta, indifferenziata e aclassista, che tutte le tradizioni siano inviolabili e che il conflitto si sviluppi solo verso chi minaccia la “comunità nazionale” dall’esterno. Cosa manca?… è ovvio: la storia. Cioè la dinamica sociale.

Bazzecole: basta pensare che le for­mazioni sociali primitive, asiatiche, medievali e capitalistiche sono sostanzialmente uguali, salvo differenze “di dettaglio” determinate non tanto dai modi e rapporti di pro­duzione quanto dalla selezione darwiniana, e tutte riconducibili alla stirpe/nazione primigenia. Così l’etica sociale si riduce a nient’altro che a quella del “buon selvaggio” tradotta in moderno “patriottismo”: rispetto delle tradizioni (e della gerarchia sociale data come immutabile), odio e resistenza verso i “conquistatori” cattivi (imperialisti?), alleanza verso i “popoli” [<=] disposti alla “coesisten­za pacifica”. Come per incanto il “comunita­rismo nazionalitario” fa sparire la lotta di classe [<=] e garantisce lo sviluppo di una società stabile e ordinata, dopo la vittoria della resistenza “antiamericanista”.

Purtroppo però non sembra che il sentimento “patriottico” sia naturale e spontaneo fra gli oppressi e gli sfruttati: ecco la necessità per i governanti (casta religiosa o ceto politico mandatario della classe dominante) di “te­nere accesa la fiamma nazionale” presso il popolo, rinnovando periodicamente il “patto di sangue” col sacrificio di “martiri ed eroi”, sia combattenti (più o meno convinti o pagati) sia civili (inermi ed ignari)

Lo Stato” riappare, idealizzato però e trasformato in pura “organizzazione giuridica integrale della Nazione”, finalizzata alla “conquista e difesa della libertà” della Nazione stessa, perché essa possa realizzare la “missione affidatale da Dio (il Dio dei nostri Padri!) nel consorzio internazionale”. Il perseguimento del “benessere del popolo lavoratore” resta subordinato, in questo contesto, al “ren­dimento di ognuno nella comunità nazionale” Guarda caso, i brani ora citati sono tratti dai primi tre articoli della Costituzione della Repubblica sociale italiana, con cui l’ex duce credeva di poter dare “legittimità nazionale” al brandello d’Italia occupato dal III Reich, all’ombra del quale a lui e ai suoi fasci fu permesso, ancora per poco, di sopravvivere a danno del­la popolazione resistente. Ora, non c’è dubbio che Benito Mussolini fosse avversario del capitalismo imperialista (che lui chiamava “plutocrazia”) di marca anglo-statu­nitense; e che nel ‘44, dopo l’inglo­riosa fine del regime che aveva mandato al massacro mezzo milione di militari e civili italiani, non potesse rivendicare la “gloria imperiale” d’I­talia, bensì solo una truffaldina e oscena “indipen­denza e sovranità nazionale”.

Ma gli odierni profeti “nazionalitari” proclamano con foga che “la rivendicazione dell’indipendenza e sovranità nazionale” è l’unico rimedio contro “l’imperialismo” [<=]. A quale nazione si riferiscono, dunque, se non a quella esaltata da Mussolini, mentre era un fantoccio dei nazisti a Salò, e ancora oggi dai reduci della decima Mas? Forse a quella che fu antimperialista contro l’esercito occupante te­desco ma festeggiò gli “alleati liberatóri” angloamericani? (non sia mai!!). O pensano seriamente a una nazione “autonoma” all’in­terno di una federazione socialista, come sperava la grande maggioranza dei partigiani che fecero davvero la guerra di liberazione contro il nazifascismo – al­meno fino al 1948, quando i gerarchi “riciclati” nella Demo­crazia cristiana riuscirono a convincere gli ingenui (razza davvero inestinguibile!) che i comunisti “man­giavano i bambini” o si divertivano sadicamente ad infoibare i poveri “patrioti” italiani innocenti? [Sulle tante false ricostruzioni e “testimonianze”, accreditate con crescente clamore dal neorevisionismo storico dell’asinistra politacally correct, cfr. C. Cernogoi, Operazione foibe a Trieste, Kappa Vu, e i due dossier di Pol Vice, Silenzi e grida e Scampati o no, in www.cnj.it/docu­mentazione, coordina­mento nazionale per la Jugoslavia]. O magari il loro modello è quello della “nathion Veneta”, destinata a far rivivere la gloria del Leon de S. Marco sull’Adriatico?

Ecco cosa si può leggere su Indipendenza: “Alle fanfare e alla retorica patriottarda dello Stato e dei suoi interessi di classe, inevitabilmente ser­vili nel mono-centrismo imperialista a stelle e strisce, anche quando assumono le vesti da “grande narrazione” – il mito dell’Europa o del governo mondiale – sarà necessario contrapporre la nazionalizzazione delle matrie [sic!], cioè gli interessi nazionalitari delle classi subalterne incastonate nell’autodeterminazione effettiva di popolo”. E ancora: “Non c’è alternativa al nazionalismo di liberazione come collante e detonatore sociale. Non c’è operaismo, confusionismo moltitudinario, umanesi­mo caritatevole che tengano… per chi vorrà esprimere la propria libertà non misurata, secondo i canoni capitalistici, sulla disponibilità a mercificare la propria esistenza individuale, la resistenza nazionali­taria sarà l’imprescindibile terreno da cui partire… Non solo [ma anzitutto! ndr] in Italia”.

Voilà: il pasticcio antiamericanista in salsa nazionalitaria (o nazionalsocialista?) “al­l’italiana” è servito. Riflettete, compagni, la questione è seria.           

[p.v.]

 

 

Nazione

Dal crogiuolo etnico dell’alto medioevo si svilupparono le nuove nazionalità, in un processo che vide il vinci­tore assimilarsi ai vinti, cioè ai contadini e agli abitanti delle città. Le nazionalità moderne sono parimenti un prodotto delle classi [<=] oppresse. Quei popoli [<=] che non hanno mai avuto una storia propria, e che sono caduti sotto il dominio straniero fin dal momento in cui hanno raggiunto il primo e più rozzo stadio di civiltà, o vi sono stati costretti dal giogo straniero, non hanno alcuna vitalità e non perverranno mai a una qualsiasi forma di indipen­denza. Vediamo qui delinearsi la differenza tra il principio di nazionalità e il principio della democrazia [<=] e della classe operaia che riconosce a ogni grande nazione il diritto [<=] a un’esistenza indipendente e autonoma. Il “principio di nazionalità” non affronta affatto il grande problema del diritto dei popoli storici a un’esistenza nazionale, e se lo affronta vi apporta solo confusione. Il “principio di nazionalità” solleva due tipi di questioni: primo, quello dei confini tra quei grandi popoli storici; secondo, quello relativo al diritto di esistere come nazioni autonome per i piccoli ma numerosi resti di quei popoli che, dopo aver occupato per un tempo più o meno lungo la scena della storia, sono stati poi assorbiti da questa o quella nazione più potente, che proprio in forza del suo maggior vigore era in grado di superare ostacoli di maggior rilievo. Il significato di un popolo e la sua vitalità non contano nulla dal punto di vista del principio di nazionalità: se­condo tale principio i valacchi, che non hanno mai avuto una storia propria né l’energia per farla, conterebbero come gli italiani, con la loro storia bimillenaria  e le inconsunte energie nazionali; i gallesi e gli abitanti dell’i­sola di Man avrebbero, se lo desiderassero, e per assurdo che possa sembrare, lo stesso diritto degli inglesi a un’esistenza nazionale indipendente. Tutto l’insieme è una assurdità, avvolta in vesti popolari per gettar fumo negli occhi della gente ingenua, e che si può usare a mo’ di comodo slogan o gettare da parte, secondo le circo­stanze.

Una volta formatasi la delimitazione tra i gruppi linguistici [<=] (senza dimenticare le successive guerre di conqui­sta e di sterminio) era naturale che questi fornissero la base per la formazione degli stati e che le nazionalità cominciassero a svilupparsi in nazioni. In questa generale confusione la monarchia rappresentava l’elemento progressivo, l’ordine nel disordine, la nazione in via di formazione di contro alla disgregazione in stati vassalli ribelli. L’alleanza tra monarchia e borghesia data dal secolo X; per tutto ringraziamento la monarchia soggiogò e depredò poi i suoi alleati. Tutto il medioevo rimase ben lontano da una coincidenza di confini linguistici e territoriali, eppure ogni grande nazionalità – a esclusione dell’Italia – era rappresentata in Europa da uno stato particolare e di notevole esten­sione, e la tendenza sempre più chiara e cosciente a creare stati nazionali costituisce nel medioevo uno dei più essenziali strumenti di progresso. Non c’è un solo paese in Europa in cui diverse nazionalità non convivano sotto uno stesso governo, eppure a nessuno verrebbe in mente di definire come “nazione” quei resti di popoli da tempo scomparsi o addirittura i celti della Bretagna (oltre tutto, non c’è confine di stato che coincida con con­fini etnici e linguistici). È un risultato naturale del confuso e graduale sviluppo storico dell’Europa durante gli ultimi mille anni che quasi ogni nazione di una certa grandezza abbia dovuto separarsi da alcune parti marginali del suo corpo, che si sono distaccate dalla vita nazionale del proprio popolo, aggregandosi a quella di un altro; distacco compiuto in modo così radicale che esse non sentono alcun bisogno di ricongiungersi al proprio ceppo originario. È un vantaggio non irrilevante che le diverse nazioni, nel costituirsi in entità politiche abbiano accolto in sé alcuni elementi stranieri, che costituiscono un collegamento con le nazioni vicine e portano una certa varietà nell’uniformità al­trimenti troppo monòtona del carattere nazionale.

Tutti i centri industriali e commerciali hanno una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari locali e i proletari immigrati. Il comune proletario locale odia il proletario immigrato come un concorrente che abbassa il livello di vita. Di fronte a lui si sente come un appartenente alla nazione dominante e proprio per questo si ren­de strumento della sua “aristocrazia” e dei suoi capitalisti, rafforzando con ciò stesso il loro dominio su di sé. Il lavoratore locale nutre verso l’immigrato pregiudizi religiosi, sociali e nazionali. Si comporta verso di lui press’a poco come i bianchi poveri verso i “negri” negli stati schiavisti degli Usa. L’immigrato lo ripaga con la stessa moneta, e con gli interessi, vedendo in quello il correo e lo stolido strumento del dominio. Questo anta­gonismo è artificialmente tenuto desto e incrementato dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, in bre­ve da tutti i mezzi a disposizione della classe dominante. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia nazionale, nonostante tutta la sua organizzazione; è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima ne è pienamente cosciente. Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari ha tolto alle industrie la base nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e sono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie che non lavora­no più materie prime nazionali, ma provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano sol­tanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra uno scambio universale, un’universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra, nella produzione materiale, come in quella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diven­tano patrimonio comune.

L’isolamento e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo con lo sviluppo della borghe­sia, con la libertà [<=] di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e con le condizioni di vita a essa corrispondenti. L’unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impos­sibili. La borghesia costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta “civiltà”, cioè a farsi borghesi. In una frase, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza. Presso tutti i popoli, del resto, coloro che si ostinano a insistere sulla nazionalità [<=] – la cui grettezza è sempre odiosa e ripugnante, altezzosa e tronfia, corrispondente a una vita pratica assolutamente meschina, da bottegai e artigiani – si trovano soltanto tra i borghesi e i loro scrittori, che considerano i loro vaneggiamenti come il giudizio finale. Questo regno celeste del sogno, il regno dell’essenza dell’uomo, l’oppongono ai popoli, con enorme compiacenza, presentandolo come l’ultima perfezione e la fine della storia.

[f.e.-k.m.]

 

 

Necessità

(riconoscimento e libertà)

È il tema della “necessità” in sé stesso che è complicato. Se insieme non si considerano “libertà” e “caso”, ogni discorso rimane monco. Tuttavia, alcuni troppo frequenti (e ricorrentemente datati) equivoci consigliano di cominciare, sia pur rozzamente, ad affrontare preliminarmente la questione. Attraverso alcune considerazioni di Hegel, è più facile rintracciare il tema in oggetto come “categoria”; mentre in Marx tale tematica permea maggiormente la riflessione in maniera quasi sotterranea. Semmai è più agevole trovare qualcosa di esplicito in Engels, nell’Antidühring proprio dove parla del rapporto tra necessità e libertà [<=]. Questo suo discorrere, col quale Marx era completamente d’accordo [cfr. la corrispondenza], è prettamente hegeliano – laddove per “hegeliano” si deve intendere quanto anche Lenin sosteneva, a proposito del “mate­rialismo criptico” di Hegel stesso [fu Lenin, come si sa, a proporre di fondare una “specie di società degli amici materialisti della dialettica hegeliana”], cioè quanto di più lontano da quell’“idealismo” che la scuola crociana (in Italia, ma il riferimento può estendersi a tutta la cultura primonovecentesca europea – valga per tutti la deformazione heideggeriana) ha trasmesso a livello abbastanza diffuso.

Engels sottolineava [cfr. le pagine centrali dell’XI paragrafo della prima sezione del suo libro], che non si può parlare bene di morale [<=] e di diritto senza affrontare la questione del cosiddetto “libero arbitrio”, della responsabilità dell’uomo, del rapporto di “necessità e libertà”. E precisava aggiungendo, contro lo “straordi­nario appiattimento della concezione hegeliana”, che “Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di necessità e libertà. Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità: "cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa". La libertà non consiste nel sognare l’indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato. Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto a quelle che regolano l’esi-stenza fisica e spirituale dell’uomo stesso: due classi di leggi che possiamo separare l’una dall’altra tutt’al più nell’idea, ma non nella realtà. Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico”.

Engels, nella sua polemica contro il rozzo positivismo di Dühring, si riferisce principalmente alla natura (l’e­sempio del fuoco, della macchina a vapore, ecc.); ma, com’è facile riscontrare, estende esplicitamente la sua logica alla società e allo “svilup­po storico”; e perciò lo riferisce pure all’uso, nel mondo sociale, della mac­china a vapore, la quale (a es., a differenza della produzione umana del fuoco), “non farà mai fare all’u­mani­tà un salto così imponente, malgrado la gigantesca rivoluzione liberatrice, le poderose forze produttive che si appoggiano a essa e solo con l’aiuto delle quali si rende possibile una situazione sociale in cui non ci siano più differenze di classe, preoccupazioni per i mezzi di sussistenza e in cui per la prima volta possa parlarsi di vera libertà umana”. Tutto questo è ben lontano dal poter attribuire una qualche validità assoluta alla concezione corrente, limitata culturalmente e socialmente, della storia dell’umanità. Perciò, è evidente che, proprio seguendo una concezione storicamente determinata, si riconosce che si è in grado di piegare la “necessità” delle leggi esterne solo quando si possa “agire secondo un piano per un fine determinato”, e si possa “decidere con cognizione di causa”.

La conoscenza di quelle leggi è preliminare alla possibilità di farle agire a proprio vantaggio: altrimenti, prima senza conoscenza, e poi pur anche con questa, ma senza la forza necessaria che eventualmente ne possa derivare, la necessità storica oggettiva che si impone senza scampo, e con essa il “dominio di noi stessi”, non sta nelle nostre mani, bensì in quelle di chi comanda. Ecco in che senso occorre intendere la necessità della crisi del capitale, e dei suoi stessi “tempi” e “fasi” nei casi particolari, come quelli di fine XIX sec. e di fine XX sec. Come Engels sottolinea il significato delle conoscenza, così Hegel parla di comprensione, per giungere a quella libertà così intesa che “è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico”. Il significato che si è voluto attribuire a codeste parole sta proprio nell’oggettività necessaria del processo storico che trascende le azioni – e la “volontà” – dei singoli individui in quanto tali. Il riferimento alla grande depressione 1870 (in poi) e alla crisi mondiale 1967 (fino a oggi e forse oltre) è tutto qui.

In quest’ottica materialistica, si possono riportare alcune osservazioni dialettiche di Hegel stesso sul rapporto tra azione consapevole di ciascun individuo e trasformazione necessaria della storia. A differenza del tardo romanticismo fineottocento e dell’irrazionalismo che l’ha seguìto, e che ha messo su basi soggettivistiche [per così dire: “necessariamente”!] tutto il proprio individualismo metodologico, Hegel eleva l’oggettiva necessarietà della totalità. “Ogni singolo è un cieco anello nella catena dell’assoluta necessità con cui si sviluppa il mondo. Ogni singolo può e­levarsi a padroneggiare una parte più lunga di questa catena  – scrive riflettendo sul sistema dell’eticità – u­nicamente quando egli riconosce in quale direzione la grande necessità si muova, e da questa conoscenza impari a pronunciare le parole magiche che evocano la figura di essa”. Il corso della storia – precisa Hegel nel­l’introduzione alla storia della filosofia – rappresenta non soltanto il divenire di cose estranee, ma anche lo stesso divenire nostro e della nostra scienza. “La storia rappresenta ciò che è mutevole, ciò che è scomparso nella notte del passato, ciò che non è più, mentre il pensiero necessario – e soltanto di ciò ci si deve occupare – non può soggiacere ad alcun mutamento”.

In ciò, precisamente, consiste l’oggettività della storia che persegue i suoi fini attraverso quella che è stata chiamata una “eterogenesi” – ossia, una loro formazione che non può che essere superiore ai diversi obiettivi “particolari” (nel senso che non può che trascenderli)  posti dai singoli, individui o anche gruppi e classi, attraverso un superamento dialettico di tutti quei particolari in una sintesi che li comprende tutti, annullandoli nella loro particolarità. Dunque Hegel – in nome di Marx, per così dire – non esita a definire “il concetto della necessità” [nell’Enciclopedia] come “una cosa molto difficile, perché esso è il concetto stesso, i cui momenti però sono ancòra delle realtà, le quali tuttavia vanno concepite soltanto come forme spezzate”. E nella storia della filosofia chiamava “Idea” proprio “il sistema della necessità, della sua stessa necessità, la quale è a un tempo la sua libertà”. Dalla successione delle differenti fasi che possono manifestarsi con la coscienza della necessità deriva ogni fase successiva e ogni data determinazione e formazione – fino a dispiegarsi come “necessità pensata”. 

Marx segue quasi pedissequamente la concezione della necessità storica “hegeliana” [e in questo senso vanno perciò intese le precedenti righe sulla “necessarietà” della crisi come “necessità consapevole di un fatto storico”]. Quindi, la “necessaria” lunghezza della crisi in atto è strettamente dipendente dalle considerazioni generali appena svolte. La necessità dell’attuale lunga ultima crisi [<=] tuttora irrisolta (con i suo tempi e le sue fasi) è da attribuire al dominio di quelle leggi – oggi, quelle imperialistiche transnazionali del capitalismo – che non si è riusciti a piegare per torcerle a vantaggio del proletariato. Non solo: ma non si è saputa sviluppare collettivamente neppure la conoscenza della necessarietà dell’affermarsi di quelle leggi storiche – appunto, la “consapevolezza” di ciò – che Marx e Engels, senza fraintendere e appiattire Hegel, reputavano una conditio sine qua la rivoluzione sociale diventa sogno e cecità.

A livello semantico, perciò, si tratta di considerare la lunga depressione attuale alla medesima stregua dell’esplosione della crisi in atto, in quanto quella ne è piuttosto la forma stessa – di nuovo “necessaria”, date le circostanze in cui si è svolta [la “depressione” è già crisi, una sua specifica fase, che accompagna l’arresto dell’accumulazione di plusvalore e la sua trasmutazione in denaro speculativo – si veda Grossman, oltre a Marx naturalmente]. Dunque, sono proprio codeste circostanze peculiari della fase in corso che hanno rallentato la “necessaria” distruzione del capitale. Esse sono state abbastanza ampiamente descritte, in genere [ma si può sempre tornare a riflettere su questo punto], e sono legate al mutamento della divisione internazionale del lavoro [<=], o, se si vuole, al cambiamento degli assetti di dominio sul mercato mondiale. Ogni sconvolgimento profondo dello statu quo ante richiede tempi lunghi, di carattere prettamente strutturale e non “meta-economico” [politico, sociale, ecc., tutti aspetti che purtuttavia “necessariamente” ci sono, ma vi si accompagnano soltanto, non acquisendo mai una loro autonomia causale (cosa che invece i sostenitori di simili ipotesi presumono); e comunque cer­to tali aspetti non sono di carattere naturale o ... astrale, come goffamente pretenderebbe la tesi delle cosiddette “onde lunghe”].

Tutto lo specifico coacervo di caratteristiche dell’epoca ogni volta considerata va perciò ad aggiungersi all’ordinaria sovraproduzione. Così è stato per la crisi dell’Inghilterra nel 1870 o la crisi degli Usa nel 1970 (si può includere in questa rubrica anche la multivoca fine del “realsocialismo”); sicché – oggi – si possano aggiungere la presenza del deterrente nucleare, che ha impedito la generalizzazione diffusa delle distruzioni belliche, e la messa in opera degli effetti della seconda grande rivoluzione industriale dell’automazione del controllo. La ripartizione mondiale del plusvalore [<=] – che si attarda nell’acca­parramento di ricchezza astratta, per­lopiù speculativa, in attesa quasi messianica di una “ripresa dell’accu­mulazione” – in quanto si basa su un’appropriazione ineguale di valore internazionale, non fa che aggravare ulteriormente la perdurante situazione di crisi, accelerando fallimenti, centralizzazioni, ecc., che sono perciò da vedere soltanto come conseguenze necessarie e non cause di questa stessa crisi.      

[gf.p.]

 

 

Neocorporativismo

Antico è il tentativo di armonizzare il conflitto sociale, laddove aumenta il pericolo per chi detiene il comando di perdere la sua pubblica legittimazione. Ma la “conciliazione” perviene al suo compimento, solo nel pieno dispiegarsi storico di tutte le sue modalità e della sua dominanza generalizzante. È per que­sto che la “negazione del conflitto” diviene concretezza assoluta solo nel capi­talismo, quando cioè l’irriducibile antagonismo tra capitale e lavoro esige l’irriconoscibilità nelle coscienze [<=] dell’eguaglianza impossibile. Come il capitale [<=] fonda il suo impero sull’erosione del lavoro, così si riprodu­ce nel tempo mascherandosi continuamente nel suo contrario e nelle diversità indifferenti. Disattiva pertanto la conoscenza dei suoi segreti, per proteggere dall’urto della lotta un arbitrio che, sempre più, può mantenersi solo con l’as­senso delle proprie vittime. Se per assurdo queste ultime fossero disposte tutte ad integrarsi nella sua apparente unica identità, i suoi profitti non troverebbe­ro altro limite se non quello della loro distribuzione ineguale, nella precarietà di un confliggere senza fine. Tale utopia – poiché la concorrenza tra capitali (o multinazionali) è anche il risultato dell’intreccio antagonista col lavoro – è comunque l’unica condizione, determinatasi storicamente, di esistenza del capitale entrato nella fase monopolistica ed espresso nelle forme democrati­che, e non, delle sue istituzioni.

Economicamente, l’organizzazione del lavoro subordinato al capitale tende, nella ristrutturazione costante della sua razionalizzazione, ad assumere la for­ma corporativa, nell’accordo cooperativo di un ipotetico “interesse comune”, affermato come certezza dell’aumento della produttività e sua destinazione in termini di benessere sociale. Politicamente, ideologicamente, istituzionalmen­te, il corporativismo [<=] si affaccia ripetutamente nel corso storico dell’imperiali­smo [<=], ma sembra trovare compimento e stabilizzazione solo in seguito alla ri­voluzione informatica, sotto la schermatura universalmente efficientistica del­la “qualità totale”. La natura pattizia del neocorporativismo (nella sua forma storicamente rinno­vata e globalizzante) si nasconde perciò nella flessibilità [<=] del processo di lavo­ro delegato ai lavoratori, da rendere anch’essi flessibili in un sistema di rap­porti sociali, totalmente dominato dalle centrali di decisione produttiva. È per questo che è indispensabile il totale controllo del sindacato di classe, sussun­to agli interessi di multifunzionalità, mobilità, cottimizzazione [<=] della forza-la­voro [<=] resa, al pari delle materie prime, oggetto di risparmio dei costi per la massimizzazione dei profitti. Non a caso le prime teorizzazioni della “collaborazione di classe” si rintrac­ciano all’interno degli aspetti tecnici (Babbage, Taylor) dell’organizzazione scientifica del lavoro, di quelli economici (Bastiat, Carey), oppure nelle me­diazioni etiche della cosiddetta “questione sociale” (Leone XIII, Rerum nova­rum) o politico-ideologiche di natura democraticistica o nazionalista. È conse­guentemente negli anni ‘20-30 che se ne tenta la prima attuazione pratica nel­la forma autoritaria dello stato fascista (“Patto di palazzo Vidoni”, ‘25), o in quelle “democratiche” tipo Weimar (con Schacht proseguite poi nel nazismo) o New deal rooseveltiano.

L’uso dello stato quale mediatore o promotore degli interessi proprietari cui piegare l’obbedienza del lavoro – ed oggi spezzarne definitivamente tutte le rigidità e le conquiste democratiche – diviene perciò esperimento dell’uso le­gittimo delle forze organizzate in luogo dell’uso della violenza di stato sulle masse spontanee. La crisi [<=] di capitale irrisolta degli anni ‘20-30 porta all’ina­sprimento del comando sul lavoro, di fronte all’emergere della società di mas­sa potenzialmente capace di autodeterminazione. Lo stato tende perciò a riaf­fermare la sua separatezza con il primato dell’esecutivo che gestisce senza mediazioni i “patti” con i centri di potere economico. Lo “spirito di corpora­zione” viene presupposto nell’uso politico di una burocrazia che amministra la materialità particolare degli interessi egemonici, sublimati, questi, nella istituzionalizzazione della tensione sociale quale gestione dell’esistente sotto le mentite spoglie della “potenza della nazione”. Oggi il corporativismo [<=] fuoriesce dalla provetta fascista o rooseveltiana per affermare i suoi diritti di internazionalizzazione – al séguito del predominio del mercato capitalistico [<=] – pretendendo la coesione delle forze sociali in obbe­dienza alle leggi dell’accumulazione transnazionale. L’elevata, circolare e in­tersezionata conflittualità in cui questa è costretta a realizzarsi esige pertanto la disciplina integrale delle rappresentanze sociali (poste a controllo, non ad espressione della base), ché altrimenti costituirebbero un limite all’espansione indiscriminata della produzione e appropriazione di plusvalore [<=].

Nessuna ten­tazione regressiva, dunque, nell’attuale neocorporativismo, ma anzi indivi­duazione della forma adeguata alla liberté, égalité, fraternité del solo dirigi­smo, storicamente compiuto, del capitale in opposizione all’autodetermina­zione delle masse “liberate” da ogni strumento difensivo, ed “eguagliate” uni­camente nella disgregazione programmatica (genocidio, guerre locali, destrut­turazioni politiche, nazionali, etniche, ecc.). Il neocoporativismo è pertanto forma “progressiva” del Nuovo Ordine Mon­diale, nel senso della concentrazione economica e dell’accentramento egemo­nico della sua dirigenza per superare la crisi epocale. La proletarizzazione crescente a livello planetario viene così stabilmente legata in modo subalterno alla precarizzazione delle sue condizioni di esistenza, e innestata sul tronco polimorfo delle molteplici particolarità e nazionalità negate o sopravvissute solo in quanto apparenti. Il nuovo ordine ne esige infatti il riassetto funziona­le attraverso l’approvazione fornita da tutti gli apparati (istituzioni, sindacati, chiese, ecc.) di mediazione, con l’uso tecnologico multimediale ed il ricatto sistematico (da quello sul lavoro, all’eliminazione fisica degli avversari o non fiduciari, alla “fame”, alla “guerra”, ecc.) nei confronti di qualunque alternati­va di potere. La partecipazione “parificata” neocorporativa è la seduzione per calmierare – se mai fosse possibile – la lotta di classe [<=].

[c.f.]

 

 

Neoliberismo # 1

Afferma Noam Chomsky: “Oggi si preferisce parlare di neoliberismo  [<= #2], ma non è altro in realtà che l’economia classica”. Libero mercato  [<=], speculazione [<=] fi­nanziaria, mondializzazione, flessibilità [<=] del lavoro, impoverimento crescente, tutto è presentato come fenomeno naturale e necessario dal discorso neolibe­rista. La strategia neoliberista del capitale non è sorta all’improvviso. Frie­drich von Hayek, che fin dagli anni ‘30 aveva criticato le proposte di Keynes, in La via della schiavitù (1944) riafferma il credo liberista [<=], e respinge l’eco­nomia centralista e dirigista che a suo avviso avrebbero condotto al totalitari­smo. Con la cosiddetta scuola di Chicago e le sue “fortunate” teorie esaltanti la “straordinaria fecondità del mercato”, tra cui spicca il libro di Milton Fried­man Capitalismo e libertà (1962), lo smantellamento dell’edificio keynesiano interventista trova, sul piano istituzionale internazionale, le ideologie domi­nanti della cosiddetta “globalizzazione”: crescita economica accelerata trami­te il libero scambio mondiale e la deregolamentazione. Tale ribaltamento teo­rico e dottrinale acquista tutto il suo peso con la crisi degli anni ‘70. L’inter­ventismo si rivela sempre meno efficace: le politiche economiche più raffina­te non riescono ormai a contenere né la disoccupazione né l’inflazione; e prendono il sopravvento le tesi del “meno stato”, con il ritorno del liberismo di Margaret Thatcher (1979) e di Ronald Reagan (1980).

La forbice di classe [<=] tra ricchezza e impoverimento, alla cui origine sta la poli­tica di riduzione del costo del lavoro perseguìta dal capitale, si sta allargando in maniera impressionante e, nel progetto neoliberista, irreversibile la spirale perversa verso il basso viene così avviata. La strategia neoliberista impone la coniugazione di deregolamentazione, flessibilità, vale a dire espulsione dal lavoro, precarizzazione, part time, decentramento e delocalizzazione produttiva e mobilità, cocktail dimostratosi esiziale per l’occupazione. I vantaggi della nuova divisione internazionale del lavoro e del “post-fordismo” (o, per me­glio dire, l’attuale congiuntura neoliberista dell’imperialismo [<=] transnazionale), sono a senso unico: profitti sempre più alti, progressiva riduzione del “costo del lavoro” e crescita occupazionale zero, il tutto cementato insieme da quella strategia che sta provocando una devastazione, per alcuni aspetti senza prece­denti, del tessuto sociale e dell’ambiente.

Il nuovo scenario mondiale su cui opera l’economia neoliberista è caratteriz­zato da una crescente mobilità del capitale: essa obbedisce in primo luogo al­la logica della produzione capitalistica in epoca di crisi [<=] con conseguenti inno­vazioni tecnologiche, in quanto tale processo è largamente dominato dal desi­derio di diminuire i costi di produzione. Inoltre, la mobilità del capitale è stata enormemente accelerata dallo sviluppo mondiale dei mercati finanziari. Re­gioni, aree, zone, settori includenti più stati nazionali [<=] o parti di essi: è questa la nuova strategia produttiva dell’attuale fase neoliberista che per l’occasione ritaglia una nuova geografia mondiale. Gli organismi sovranazionali di cui il capitale transnazionale si è dotato agiscono in modo fortemente autoritario. I “vecchi” stati nazionali o favoriscono anche politicamente l’economia neoli­berista o vengono da questa neutralizzati e sottomessi. I loro margini di ma­novra appaiono sempre più ridotti, ma la destituzione di molte loro prerogati­ve, a cominciare dalla “sovranità” nazionale, non sta a significare che il pro­getto neoliberista comprenda la loro pura e semplice dissoluzione. Il governo che non adotti una politica di concertazione tra le parti sociali non può garan­tire quella stabilità politica di cui il neoliberismo ha bisogno.

La tendenza neoliberista della mondializzazione, le cui forme politiche forti sono il presidenzialismo, il sistema politico maggioritario, la revisione-riscrittura della carta costituzionale. La mondializzazione neoliberista è anda­ta giù pesante come un rullo compressore negli ultimi anni, appiattendo cultu­re politiche diverse per storia, tradizioni e struttura sociale. Al posto del siste­ma di democrazia [<=] formale borghese vigente negli stati industrialmente avan­zati sta prendendo corpo un regime neoliberista. L’“internazionale della mor­te” – così il subcomandante zapatista Marcos ha definito la natura del neoliberi­smo, in occasione dell’incon­tro intercontinentale “contro il neoliberismo e per l’umanità”. Ma essere “zapatisti” in Italia non significa vivere come transfughi chiapane­chi o come nipotini di Marcos, bensì riconoscere il neoliberismo come il ne­mico composito principale di questa fase storica e lottare contro le forme con cui si manifesta in Italia e in Europa. Anche perché non mancano sorprese: una di queste è scoprire che dei “teorici”, rivoluzionari fino a dieci anni fa, ora sono diventati dei tristi apologeti del neoliberismo.

[r.b.]

(cfr.in dettaglio, Roberto Bugliani, Per una dialettica di lotta antineoliberista, in Invarianti, n.30, nov.97)

 

 

Neoliberismo # 2

(critica dell’imperialismo)

Risulta di immediata evidenza che “neoliberismo” è una metafora per impe­rialismo [<=]. Se solo di questo si trattasse, basterebbe intendere l’un termine per l’altro, compiacendosi che anche sulle “pagine web” di Internet appaiano scritti relativi a incontri “per l’umanità e contro il neoliberismo”. Ma così non è. La questione è un po’ più complicata. Dall’ideologia riversata nel cattivo senso comune, infatti, si espunge il signi­ficato dell’imperialismo e dello stesso modo di produzione capitalistico, sì che è al neoliberismo che sono imputati eventi quali: crescita senza occupa­zione, devastazione sociale e ambientale dovuta al macchinismo [<=], squilibrio “nord-sud” nelle cosiddette globalizzazione e finanziarizzazione, fino all’“unicità” del mercato [<=] e del pensiero, e via omologando nella grigia piat­tezza di un dispotismo barbarico. Come se – e qui sta il tranello – si possa pre­sumere che sia data l’evenienza di un’altra organizzazione sociale (di cui ac­curatamente si taccia la forma capitalistica, ormai ritenuta obsoleta e ineffabi­le) non neoliberista, meno barbarica e dunque accettabile per l’umanità me­desima: a es., una società basata su una “regolazione” dei rapporti di produ­zione e di distribuzione di tipo genericamente keynesian-proudhoniano.

L’esempio non è casuale, bensì causale. La ragione dell’intellettualità borghe­se dell’“asinistra” – alla Ra­monet, per non far nomi, col contorno della signora Mitterrand – è, infatti, tanto interessata alla battaglia contro il supponente “neoliberismo” proprio a causa del desiderio di ripristinare al più presto quel­le forme di relazionalità sociale che stanno sotto l’ombrello variopinto della socialdemocrazia, del liberalsocialismo, del laburismo e del fabianesimo (co­munque siano ribattezzati), e che tanto spazio e rispettabilità hanno procurato a essa stessa, ovverosia alla borghesia e piccola borghesia “colta” e “progres­sista”. Il neoliberismo, al contrario, è l’avversario che – entro il capitalismo stesso – le ha sottratto legittimazione e credibilità. Dunque – dicono gli ostinati intellettualisti professori della democrazia [<=] svi­luppata – occorre uscire dalla rozza arroganza del potere privato del mercato e restituire fulgore a quello sociale dello stato [<=]. Cosicché il key­nesismo, variamente vestito e mascherato, possa essere preso come bandiera eterodossa della difesa dei deboli e degli oppressi: purché non si discuta di proprietà [<=] privata, sfruttamento, classi [<=] sociali e lotta di classe [<=], insomma non si metta in dubbio la permanenza del modo di produzione capitalistico. E si pos­sa procedere cautamente verso una società dell’armonia e del confronto, an­ziché della lotta e del conflitto, in cui i padroni rimangano padroni e gli espro­priati continuino a riprodursi come espropriati, in un clima di consenso, tanto poco idilliaco quanto coatto, un sistema che noi preferiamo definire neocor­porativismo [<=].

Gli intellettualisti del socialismo borghese, peraltro, hanno anche un alibi, storico e teorico, giacché di contro a Keynes e compari si erge sicuramente l’astio della cricca di von Mises e von Hayek. E tanto basta, agli imbecilli di­ventati professori di economia politica e al loro séguito politico, per formare una coorte “asinistra” in difesa della “rivoluzione keynesiana”. Senonché, ahi loro, Keynes non era meno liberale e meno sostenitore degli interessi capitali­stici dei suoi astiosi critici. Al punto da fargli scrivere: “Moralmente e filoso­ficamente condivido praticamente tutto del libro del prof. Hayek, La via della schiavitù; e non si tratta di un semplice consenso ma di una condivisione pro­fondamente motivata”. Serve altro?! Il “rozzo proletariato” è da Keynes paragonato al “fango” nei confronti dello squisito “pesce”, ossia “la borghesia e l’intellighen­tsia, le quali, per quanti siano i loro difetti, sono l’essenza della vita, e portano sicuramente in sé il seme di ogni progresso umano”. La sua “reazione contro il laissez faire” è so­lo dettata dalla ricerca di metodi più efficaci per realizzare davvero i princìpi del liberismo [<=], basati “sullo svolgimento della libera concorrenza [<=] anziché sulla sua abolizione”, e per il ristabilire così l’“ordine economico naturale” cui tanto anelava il di lui vate Silvio Gesell. Proprio il laissez faire, caro ai fondamenti del liberismo, è da Keynes indicato “ quale base per la selezione naturale attraverso la concorrenza” che “fa muo­vere l’evoluzione lungo strade desiderabili ed efficaci”, così come “l’indivi­dualismo invoca l’amore per il denaro, attraverso il perseguimento del profit­to, come elemento base della selezione naturale misurata dal valore di scam­bio. È ogni giorno più evidente che il problema morale della nostra epoca ri­guardi l’amore per il denaro”. Il che, appunto, “non significa disfarsi del siste­ma di Manchester, quanto piuttosto indicare le circostanze richieste dal libero gioco delle forze economiche per realizzare le piene potenzialità della produ­zione”.

La “filosofia sociale” di Keynes ha, a suo stesso dire, “implicazioni moderata­mente conservatrici”, con misure “introdotte con gradualità e senza una rottu­ra nelle tradizioni generali della società. Non soppianta l’individuo nel campo che a questi compete, e non mira a trasformare il sistema salariale o ad aboli­re la motivazione per il profitto. Ma, soprattutto, l’individualismo, emendato dei suoi difetti e dei suoi abusi, è la miglior salvaguardia della libertà persona­le”. E se occorrono “sacrifici economici” li si facciano (fare), fino alla guerra [<=] – unica via storicamente praticata per avvicinarsi alla farneticazione della “pie­na occupazione” (Hitler insegna!) – poiché “ciò che occorre è una restaurazio­ne di un pensiero moralmente corretto – un ritorno a giusti valori morali nella nostra filosofia sociale, orientando le menti e i cuori alla questione morale”. Ipse dixit. Se la lotta contro il “neoliberismo” dovesse servire solo per ritornare ai fasti e nefasti del liberismo keynesiano – altrettanto capitalistico borghese, da paven­tare un “futuro” esecrabile in cui, addirittura, si potrebbe correre perfino il rischio che “la carriera del fare quattrini, in sé, non si presenti nep­pure come possibilità ad un giovane rispettabile”! – sarebbe meglio seguire i suggerimenti di Engels e preferire il confronto critico con i nemici dichiarati piuttosto che con i falsi amici, dicendo fermamente: no, grazie! Del resto, ci vuole assai poco a capire quali siano le indicazioni keynesiane: basta solo un po’ di attenzione e di tempo per leggerle. E allora non ci sarà bisogno di par­lare di neoliberismo, ma semplicemente di capitalismo, di cui il liberismo è espressione, in qualsiasi forma, anche keynesiana.

Il keynesismo, se lo conosci, lo eviti!

[gf.p.]

 

 

Nuovismo

(precarietà del lavoro)

Nell’attività ideologica del cosiddet­to marketing è stato usato in modo truffaldino, amplificandolo al fine di distorcerne completamente il significato, il termine “nuovo” – da cui il brutto neologismo, di gran moda, “nuovismo”. Nuovo viene portato a significare (senza altra considerazione, senza concedere spazio a riflessione) valido, attuale, sicché nuovismo comporti progresso, evoluzione. Questi termini sono stati usati per fare invecchiare quell’esistente indesiderato, con la sola sua presenza. Tutto ciò che esisteva in termini di norme, di modalità di lavoro, di equi­libri, di diritti, di articolazioni contrattuali e salariali, per la presenza di questo nuovo (reso abbacinante dal­l’operazione ideologica, che lo stesso “nuovismo” fa dire di marketing) è stato fatto invecchiare improvvisamente, ingiustamente molto prima del suo tempo.

Si dovevano fare invecchiare i diritti, i salari, i rapporti di forza, gli equi­libri, i contratti, le leggi, gli accordi. Bisognava rappresentarli anche brutti, rigidi, ingiustamen­te e inspiegabilmente ancora operanti, inadattabili alla sinuosità e alla flessuosità del mercato, al suo dinamismo, alla sua elasticità (guizzi repentini da elettrocardiogramma impazzito). Bisognava dunque mostrare un “nuovo” che non poteva emergere, un bambino soffocato, impedito a nascere dal “vecchio”. Alla fine non si doveva che de­siderare di scrollarsi di dosso il vecchio ed il rigido. Questa è l’immagine che hanno tentato di instillare nelle menti dei lavoratori e dei cittadini, e a essa hanno collegato, coerentemente, le sensazio­ni da far provare. Non ci sono riusciti completamente ma un bel colpo lo hanno assestato, tanto è vero che oggi si parla, in chiave eminentemente idelogica, di un “pensiero unico” che contemplerebbe proprio queste visioni e sensazioni.

Si rileva, e il fenomeno è particolar­mente accentuato nei paesi anglosassoni, che l’aumento di flessibilità nel­la prestazione lavorativa ha trasformato profondamente i tempi delle fa­miglie coinvolte. La suddivisione precedente, tipica fino a poco più di una decina di anni fa, tra tempi di fabbrica e tempi familiari è saltata. Ne risentono i rapporti familiari, come evidenziato dall’incidenza dei divorzi, tra le famiglie più colpite dal fenomeno, all’interno delle quali ci si comunica spesso con i messaggi lasciati su fogli di carta.

Le famiglie che tentano di darsi organizzazione per sopperire alla scarsità del tempo rimasto, predispongono una specie di scadenzario dei compiti familiari, turni suddivisi tra marito e moglie, una pianificazione della conduzione familiare [non per caso proprio il “nuovismo” obbliga a impiegare termini anglofonizzati come “scheduler”, “planning”, “ organizer”, “ménage”, ecc ]. Nei paesi anglosassoni anche le istituzioni si fanno carico di pubblicizzare questa organizzazione della famiglia e della vita. La fabbrica assorbe sempre più tempo all’individuo e questo deve ora organizzarsi con il coniuge per gestire al meglio il poco tempo rimasto. Per altro verso si deve lavorare di più, poiché conseguentemente alle politiche di contenimento salariale, con l’attacco al salario sociale [<=] (riduzione dello stato sociale [<=], dei diritti [<=], ecc.) e con l’abbattimento dei costi di produzione, lo stipendio non basta più.

La flessibilità oraria ha trasformato il modo di vivere della famiglia nella cosiddetta “epoca postfordista”, al cui interno si fanno i turni come in un’a­zienda. Le ricadute sui membri della famiglia, in particolare nei soggetti più fragili, i figli, sono rappresentate anche nei telegiornali. L’aumento delle patologie da ansia, nei paesi anglosassoni e negli Stati Uniti in particolare, hanno raggiunto dei livelli preoccupanti. I rapporti familiari deteriorano soprattutto per la mancanza del tempo da dedicare a essi.

Questi sono i “tempi nuovi”, il nuovo, il progresso? Ma perché mai progredendo si dovrebbe stare peggio?! Che ciò che viene dopo, sia successivo a quanto c’era prima, è un’ovvietà che di per se non può dare alcuna rassicurazione di una qualità superiore, di un progresso. Questo perché nulla esclude che il peggio accada dopo il meglio; tant’è vero che il mondo è pieno di disgrazie, non si sono esauri­te tutte nel passato, ma ne accadranno ancora, anche dopo episodi più antichi ma buoni. Quindi, dire nuovo per contrapporlo a “vec­chio”, non garantisce assolutamente il risultato, cioè che nuovo sia automaticamente positivo, migliore, progressivo. I sosteni­tori del “nuovo” invece credono il contrario, e nonostante i risultati che si hanno sotto gli occhi, continuano a testa bassa con la stesa litania. Come è possibile far credere che un individuo che ha uno stipendio da sopravvivenza, magari senza contributi (poiché di questo particolare nuovo in giro se ne vede tanto), si trovi meglio di un individuo che ancora oggi, proprio perché impiegato nei tempi del vecchio, guadagna ancora decentemente, non solo per sé ma anche per mantenere la propria famiglia; e magari sostiene anche il figlio che, alle condizioni di impiego del nuovo, non avrebbe autonomia economica, essendo un povero o poco più.

Ci si dovrebbe chiedere come è possibile che, fino a oggi, sia il centro-si­nistra, sia il centro-destra, con il forte ausilio dei sindacati confederali, abbiano potuto produrre questo orrendo “nuovo”, molto poco “flessibile” in direzione di ciò che è bene per i lavoratori, ma estremamente e positivamente elastico per gli interessi delle imprese. Il marketing, gente! “Gen­te”, così chiama la classe la “nuova” ideologia del marketing! Questo è il pensiero borghese dominante, come lo chiamavano Engels e Marx, oggi sbrigativamente detto “u­nico”, una grossa operazione ideologica di “marketing” politico-sindaca­le, che vende panzane narcotiche e molto nocive. Con l’indagine e il ragionamento, e ce ne vogliono molti e accurati, si può restituire concretezza e verità, producendo un pensiero coerente con i fatti della vita. Questo è il pensiero alternativo.

[a.ds.]