Rapporti di forza

(egemonia dei rapporti di capitale)

Tutta la memoria storica ci rimanda immagini pressoché illimitate dei rapporti di forza realizzati dalle organizzazioni di classe [<=] che hanno preceduto la nostra strutturazione sociale, sin dai tempi più remoti. A partire dalla codificazione religiosa della perdita dell’Eden (il creatore/proprietario del “giardino” è quello stesso che ne definisce le norme d’uso e ne regola la permanenza o la dipartita), tutte le rappresentazioni ideologiche, giuridiche, letterarie, artistiche, filosofiche, ecc. del passato, sembrano realizzare, nella loro saldatura sul presente, una sorta di eternizzazione del normale rapporto di comando sulla volontà altrui e pertanto di diseguaglianza strutturale, che sovrappone in modo arbitrario differenze naturali a quelle – non necessarie – sociali. Se però le precedenti società di classe, addirittura nella bellezza e nell’arte, sublimarono la diseguaglianza sancita nella fatica – rigidamente separata negli asserviti alla sola soddisfazione della necessità materiale e alla riproduzione dei bisogni – la società del capitale sancisce invece l’eguaglianza dei suoi membri sublimata nel capolavoro della ragione astratta, formalmente in grado di rappresentare il comando eguale o, più postmodernamente, il “conflitto cooperativo”. L’esigenza di interezza o di quieto equilibrio (aziendale, naturalmente) sembrano così rispettati, essendo riappacificati i due lati dell’ineguaglianza (oppressore – oppresso), mediata l’immediatezza (soluzione “politica” del conflitto), convalidata l’opposizione (legittimazione controllata della rappresentanza), eticizzata nel “dovere” ogni lotta, indecisione o arbitrio di parte (congelamento dei rapporti reali, della lotta, sul piano dei “valori” [<=]).

Che un primo materialismo [Rousseau, 1754] osasse riguardare già nella proprietà [<=] l’origine della diseguaglianza, costituì stupore per l’intellighentsjia borghese ancora in ascesa, pronta a rifilosofare tanta sorpresa [Voltaire, Montesquieu, ecc.] in comparti ripartiti tra eguaglianza naturale, politica, sociale, e così via “illuminando”. La cultura che ne seguì (fino ad oggi!) tese pertanto a fornire tutte le coordinate di un’eguaglianza da inseguire nella trasparente inessenzialità dei concetti settorializzati (per discipline o scienze in via di specializzazione), sugli altari dei “valori” eticizzabili, nei tribunali delle giustizie “per tutti”, nello sventolio delle bandiere che ritmassero il tonfo di tutte le ghigliottine o, più modernamente, l’intermittenza di luce dei missili. Quell’eguaglianza, infatti, era ed è solo un dover essere – coincidente col proprio soggettivato impulso, perennemente incompiuto, anzi – aspirazione reale appunto perché limite invalicabile alla propria realizzazione nel concreto permanere dei rapporti di forza, sempre più irriconoscibili e perciò sempre presupposti. L’eguaglianza, in altre parole, rimane un’istanza da raggiungere-mai-raggiungibile, a copertura di un’ineguaglianza effettiva di cui si fanno perdere le tracce nell’acquisizione coscienziale comune. Solo l’aumento quantitativo dei “sacrifici” concreti richiesti alle vittime eguagliate nel lavoro riuscì a mostrare i tentacoli reali di tanta inadeguata concettualizzazione di parte dominante. Le differenze, le sperequazioni, le aristocrazie gerarchizzate si moltiplicavano esponenzialmente a mostrare l’esistenza qualitativa dell’ineguaglianza reale inegualmente distribuita nella società civile, inegualmente ripartita tra le nazioni [<=], inegualmente percepita nella coscienza collettiva [<=] di masse dominate nella dissimulazione e sempre più numerose.

Di fronte a tutte le atrocità, ingiustizie, brutalità, distruzioni, volgarità, delitti – sotto i colori transitori del nazifascismo – Bertolt Brecht esortava gli scrittori nel 1935 ad andare alle radici del male: “contro la dilagante barbarie ... compagni, parliamo dei rapporti di proprietà!”. Proprio quei rapporti storici di capitale [<=] – egemonici sulle determinazioni organizzative, politiche, ideologiche, ecc. della forza-lavoro – di cui Marx aveva analizzato la potenza reale, sono ancora la sopraffazione di quel potere estraneo di contro a tutta la società. Innervati sull’eguale diritto [<=] delle merci [<=] a scambiarsi tra loro – come se fossero eguali, capitale e lavoro si scambiano nell’iniquo scambio-non scambio di denaro contro forza-lavoro usata nel corso della giornata lavorativa [<=] – i rapporti egemonici si estendono rovesciandosi su tutti gli altri rapporti sociali, interpersonali e, come in tutti i tornei tra pari, il più forte vince. Erede universale di tutte le altre società di classe, quella del capitale sa così mascherare al meglio il vantaggio economico che muove i propri fini, conseguibili solo per mezzo della tradizionale violenza o del comando. Disporre della volontà altrui procede perciò dal disporre dei mezzi di produzione nella forma proprietaria, che non appare più come il risultato della rapina e della violenza storica per l’appropriazione, ma come diritto “civile” tutelato dalla legge umana e divina, e proclamato come “libertà” [<=] tout court.

È allora la relazionalità intrinseca alla definizione della totalità capitale-lavoro quella che rende necessaria la violenza, la crudeltà e l’orrore, non meno però della “cultura” che serve proprio a coprire – seguendo ancora Brecht – l’incapacità di questa stessa “dilagante barbarie ... a indicare e promuovere le condizioni sociali in cui la barbarie sarebbe superflua”. Questa “piccola parte dell’umanità ha ancorato il suo spietato dominio” nei rapporti di proprietà (dei mezzi di produzione), costretta ad abbandonare la “cultura che non si presta più alla sua difesa o che non ne è più capace, a prezzo dell’abbandono di tutte le leggi della convivenza umana per le quali l’umanità ha combattuto così a lungo e con tanto disperato coraggio”. [Oggi basterebbe pensare al degrado umano dei cosiddetti “poveri” e a quello naturale / “ambientale” del pianeta!]. Nessuna eternizzazione dunque, a modellare l’autorità estranea ed eteronormativa, ma rapporti storici soggetti a dissolversi in altre relazionalità – non necessariamente di classe e basate sulla proprietà privata – ma potenzialmente fondate sull’eguaglianza economico-sociale, raggiungibile in un ambito di socializzazione amministrativa da costruire.

Criticare infine il cosiddetto “senso comune” (in cui tale “cultura” si è normalizzata semplificandosi per muovere le masse contro se stesse) significa riconoscere in esso il sincronizzarsi della banalizzazione perseguita per l’occultamento ideologico dei reali rapporti di forza. “Comune” infatti – nell’accezione rabbassata e unidirezionale voluta dal senso dominante – è subordinazione a significati (ma anche significanti) usati per sopraffare quelli degli altri dominati. L’altra faccia rivolta in alto, assolutamente speculare al “senso comune”, è lo “specialismo”, fatto valere come dogma autoreferenziale (non se ne dànno mai le origini), in grado di legittimare ogni sofisma di chi continuamente lo foraggia. Il precetto fideistico o dòtto e il fissarsi consumistico della merce ideologica divulgata sono così i due binari di scorrimento della falsa coscienza [<=], cui la massificazione culturale, opportunamente orbata del pensiero critico, ha dovuto rendere omaggio. Un omaggio, però, costretto a dipendere sempre più dalla quantità di opportunisti, invitati al banchetto dello “Sfruttamento Planetario”, professionalizzati [<=] in quanto “comuni” utenti mediatici e contemporaneamente consumatori di “cultura” mista alla cosiddetta spazzatura. Il limite della sopraffazione potrebbe risiedere, insomma, nel superamento che annienta gli stessi “sopraffattori” attraverso i loro propri strumenti scientificamente d’accatto! Candidature e non programmi – ad esempio – può già essere un dis-velamento del “comune” accaparramento dei forti senz’altro orpello di ciance, giocato a colpi di canale e con immagini-parole da fondi di magazzino. Chiediamoci sempre – proprio come quando guardiamo la telenovela di Di Pietro – ma dietro tanta giustizia-giusta, chi c’è?

[c.f.]

 

 

Realität

(realtà della “monarchia universale”)

Rapina di una proprietà [<=], una nuova sofferenza, una violenza straniera: le guerre [<=] hanno tanto cambiato di natura che la conquista di un paio di isole o di una provincia, costa sforzi di molti anni, somme immense. I trattati non hanno la realtà dell’effettivo contratto, non hanno l’esistente potere di questi, bensì l’individuo-popolo è esso stesso l’universale in quanto potere esistente.

Essi, di conseguenza, non devono essere considerati alla stregua di contratti civili, essi non hanno alcuna obbligatorietà, se una parte li sopprime. È questo eterno inganno di stringere trattati, di stringere obblighi e di lasciar dileguare di nuovo questa obbligazione. Una universale unione di popoli per la pace perpetua [<=] sarebbe la signoria di un popolo, oppure sarebbe un solo popolo; la loro individualità sarebbe annullata: monarchia universale.

Vuota fantasticheria, pace eterna, età dell’oro: i corsi d’acqua che non sono mossi dal vento diventano paludi [contro il vagheggiamento politico di allora di un ripristino del Sacro romano impero teutonico]. L’individualità, in quanto esclusivo esser per sé, appare come rapporto con gli altri Stati, dei quali ciascuno è autonomo di fronte agli altri. [Contro l’“internazionalismo” cristiano-legittimistico a copertura della politica d’intervento della Santa Alleanza].

Stati sovrani devono costituire la lega e riconoscerla come giudice sopra di essi. Ma essere sovrano significa non avere alcun giudice al di fuori di sé medesimo, e così nella lega stessa è contenuta una contraddizione.

Una pace perpetua si pretende spesso come un ideale al quale l’umanità deve giungere. Così Kant ha proposto una lega di principi, la quale deve appianare le contese degli Stati, e la Santa Alleanza ebbe l’intento di essere, press’a poco, un siffatto istituto. Solo che lo Stato [<=] è un individuo, e nell’individualità è contenuta essenzialmente la negazione.

Quindi, anche se un certo numero di Stati si costituisce a famiglia, quest’unione, in quanto individualità, deve crearsi un’antitesi e generare un nemico, e quello della Santa Alleanza potrebbero essere i turchi o gli americani. [Oggi si è passati dall’ex nemico, concreto e territoriale, comunista, a quello astratto e di area mobile, terrorista, a schermo di: area valutaria [<=]].

Le coalizioni militari e di interessi mostrano visibilmente le contraddizioni interne ed esterne. Queste devono generare guerre in continuazione, un’antitesi eternizzabile in un nemico “perpetuo” che sollevi la crisi ineliminabile a una contraddizione infinitamente itinerante.]

 Il rapporto fra gli Stati ha a suo principio la loro sovranità, i loro diritti hanno la propria effettuale realtà non in una volontà universale costituita come un potere che li sovrasta, bensì nella loro volontà particolare. Quell’universale determinazione si ferma quindi al dover essere. Non c’è pretore fra gli Stati, al massimo ci sono arbitri e mediatori, e anche questi in modo accidentale, vale a dire in base a una volontà particolare.

La concezione kantiana di una pace perpetua mediante una lega di Stati la quale appianerebbe ogni controversia e, in quanto potere riconosciuto da ogni singolo Stato, appianerebbe ogni discordia e così renderebbe impossibile che per redimerle si ricorra alla guerra, presuppone l’armonia fra gli Stati, la quale si fonderebbe su motivi e riguardi morali, religiosi o di qualsivoglia altra natura, insomma sempre su una volontà particolare sovrana, e quindi resterebbe affetta da accidentalità.

Credo che non vi sia segno migliore dell’epoca se non questo: che l’umanità venga rappresentata in sé stessa così degna di stima; ciò dimostra che sta scomparendo l’aureola che circonda le teste degli oppressori e degli dèi in terra. I filosofi dànno dimostrazione di questa dignità, i popoli impareranno a sentirla, e i loro diritti degradati nella polvere essi non li rivendicheranno semplicemente, ma se li riprenderanno – se ne approprieranno.

Religione e politica hanno complottato di comune accordo; la religione ha insegnato quel che il dispotismo voleva, il disprezzo per il genere umano, ad essere qualcosa in virtù delle sue proprie forze” [Lettera a Schelling, 16.4.1795].                                                                                                                   

[g.w.f.h.]

(da Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla filosofia del diritto, 1817)

 

 

Reddito

(denaro come denaro)

Il valore di una merce [<=] – che non ha altra “materia” che il lavoro – è la determinazione più astratta della ricchezza borghese, determinazione che, per quanto astrazione e astrazione storica, può essere fatta soltanto sulla base di un determinato sviluppo economico della società; quindi, presuppone l’eliminazione di tutti i modi precapitalistici non sviluppati di produzione, nei quali lo scambio non domina la società in tutta la sua estensione. È, cioè, “tanto pio, quanto sciocco” pensare che la merce non sia lo sviluppo storico del prodotto, in quanto valore d’uso, e che essa a sua volta non si sviluppi necessariamente prima in denaro [<=] e poi in capitale [<=]: infatti, la circolazione [<=] semplice del denaro ha in sé il principio dell’autoriproduzione e perciò rinvia al di là di se stessa – nel denaro, e nello sviluppo e conservazione di esso come valore, c’è già, in fieri, il capitale.

Questo trapasso è nello stesso tempo storico. Ma qui c’è da considerare soltanto la forma semplice della circolazione, e perciò tutte le circostanze che la determinano ulteriormente stanno al di fuori di essa, entrando in questione soltanto in un secondo momento, in quanto presuppongono appunto – dice Marx – “rapporti più sviluppati”.

La maggior parte delle cosiddette “leggi” stabilite dagli economisti, infatti, esprimono una palese incoerenza. Da un lato, parlando del denaro, costoro non considerano la sua circolazione all’interno dei suoi propri confini – appunto, del denaro come denaro, come semplice mezzo di circolazione – ma come sussunta e ulteriormente determinata da movimenti superiori: cioè, il denaro come capitale, e in parte anche il credito [<=]. “Tutto ciò è da scartarsi”, parola di Marx. Dall’altro, parlando della merce, l’apologetica degli economisti non contenti pure di identificare, dimenticandone le differenze peculiari, la circolazione delle merci con lo scambio immediato (baratto) dei prodotti, ignorano le contraddizioni del processo capitalistico di produzione, risolvendo nelle relazioni semplici di produzione e circolazione delle merci – che appartengono insieme a differentissimi modi di produzione [<=], sia pure in mole e con portata differenti – i rapporti specifici degli agenti della produzione capitalistica.

Appiattire questi ultimi sui primi, come fanno gli economisti, significa conoscere malamente soltanto le categorie astratte della circolazione e perciò ignorare la loro differenza specifica; del resto, la confusione contraria, storicamente meno grave, implica attribuire già ai semplici scambisti la forma di rapporti più sviluppati che è propria degli agenti operanti nel modo di produzione capitalistico.

Allorché il denaro si presenta nello scambio e nella circolazione semplice, in quanto valore, esiste materialmente, come ricchezza astratta, indipendentemente da essa; le preesiste proprio in quanto valore prodotto, determinato da tempo di lavoro, merce generale dei contratti. Per tale motivo era già oggetto di tesaurizzazione nel mondo antico e nel medioevo, e oggi ancora esiste così solo subordinatamente – come raccolta del reddito, e non cumulo di capitali, eventualmente insufficienti e dispersi – nel sistema bancario; e non è perciò un caso che, ancora oggi, nei periodi di crisi capitalistica, l’importanza del denaro (e dell’oro [<=]) appaia di nuovo in codesta forma. Ma il denaro fissato in quest’ultima forma, scomparendo nel suo supporto materiale, cessa di essere un rapporto economico, sta al di fuori di esso, proprio alla stessa maniera – precisa Marx – del processo finale che è il consumo delle merci (per quanto ciò possa sembrare paradossale per l’accademia trionfante).

Nell’economia marginalistica dominante (i cui fondamenti definitori si trovano tal quali in Keynes e tutti quanti) il denaro, in quanto tale, è del tutto inessenziale, e non se ne parla economicamente, ma solo per bon ton. L’assurdo è che ciò avvenga, sotto mentite spoglie, perfino presso i cosiddetti “monetaristi” (questi “meteorologi dell’economia”, come li scherniva Marx – senza offesa per i meteorologi veri). Sicché, il nome di capitale è usato in maniera surrettizia anche da Keynes, che, al pari di coloro che si aggirano nella superficie dei fenomeni economici, mostra confusione nel capovolgimento dei nessi formali e nella conseguente mancanza di proprietà del linguaggio.

Quello che opera sotto il falso nome di “capitale”, nel suo sistema, come denaro, è solo reddito monetario (in particolae, speculativo). E così siamo da capo. La ricordata vecchia storia apologetica, scagliata da Marx contro James Mill (il padre), è ancora attuale: “in nessuna scienza domina il costume di darsi tanta importanza con luoghi comuni elementari come in economia politica”. Tutta la rappresentazione monetarista con cui Keynes cerca di accreditare una sua teoria del capitale – strizzando l’occhio al ciclo marxiano – è solo fumisteria.

Quel denaro anticipato, dunque, non opera mai come capitale. Si tratta semplicemente di moneta [<=] – mero “segno” formale del denaro medesimo – che qui aggiunge solo, alla sua funzione di intermediario degli scambi e di conservazione del valore, quella di anticipazione speculativa [<=] nella circolazione del reddito di quei consumatori “risparmiatori” che si improvvisano affaristi. Tutto ciò, col capitale come modo di produzione, non ha assolutamente nulla a che fare.

Infatti, qui non si produce alcunché di nuovo (pure meno che nella “nuova economia”) ma si resta fermi al modo di circolazione del reddito (e del plusvalore come reddito); tant’è vero che proprio Keynes, nel suo scimmiottare il ciclo marxiano del capitale (da lui citato attraverso McCracken l’oscuro), non può sostenere altro che il denaro finale, nel ciclo stesso, è a volte maggiore di quello iniziale, e a volte minore di esso, poiché “in media” è uguale. Ovviamente, secondo come vanno gli affari speculativi dei percettori di rendita (che è una forma di reddito): chi ci sa fare, o imbroglia bene, vince ai danni dei gonzi del “parco buoi”!

Dunque, le trovate keynesiane su moneta e denaro [differenza che, pure linguisticamente, in inglese è assai difficile percepire] rinviano immediatamente alla mancata differenziazione tra reddito e capitale; sicché il denaro – fuori di sé – è  rabbassato a semplice e generica “moneta”, che sempre e sola funziona come reddito, anche quando, in impieghi speculativi, per épater le bourgeois (è proprio il caso di dire!), è simbolicamente da Keynes chiamata “capitale”. Perciò, quella che il lord definisce “preferenza per la liquidità”, sull’esempio fisheriano e sulla traccia del preesistente marginalismo della “preferenza temporale”, si risolve nell’attribuire, con un madornale e paradossale errore, all’agente del capitale nientemeno che l’avversione al rischio, che invece è tipica proprio e solo del consumatore percettore di reddito.

Poco importa ai keynesiani-post-marginalisti che Pietranera abbia mostrato, marxianamente, come invece sia specificità del comportamento capitalistico l’esatto contrario: e cioè, non avversione bensì propensione al rischio, il che logicamente dovrebbe comportare un tasso di preferenza temporale e, perciò, di interesse negativo; con il che ogni illusione marginalistica e keynesiana di “spiegare” l’interesse naufraga miseramente (inutile aggiungere che simili bravate, in una forma o nell’altra, appena modificata, si ritrovano tutte già in Proudhon o Gesell).

È da codesta confusione tra reddito e capitale che Pietranera stesso, coerentemente con la teoria marxiana del valore, diceva che per quella gestione monetaria, incentrata su varie forme di “risparmio coatto”, sarebbe meglio parlare di “non consumo”. In effetti, tutta l’economia borghese, culminando con quella keynesiana, si nasconde dietro la falsa categoria del “risparmio”  [<=]. Essa, infatti, è concettualmente per sé inesistente, perché il denaro accantonato, se proviene dal plusvalore affluito alla classe proprietaria, è neo-capitale; viceversa, se si tratta di denaro non speso immediatamente dalla classe lavoratrice è soltanto, complementarmente, consumo differito.

Per l’appunto, gli economisti, e anche non pochi “sinistri”, confondono (sia per pura ignoranza, sia per voluta mistificazione) tra “circolazione” e “capitale”, non comprendendo che codeste sono due categorie concettualmente diverse, poiché la circolazione sussiste ugualmente in ambedue le funzioni. La confusione è dunque questa: tra la determinazione fondamentale della forma monetaria del reddito, e l’altra, ugualmente fondamentale e specifica nel modo di produzione oggi prevalente, relativa alla forma monetaria del capitale. La differenza risiede nel fatto che solo nel secondo caso il denaro che circola sostituisce capitale per entrambi i contraenti.

Da un lato, dunque, il mezzo di circolazione è denaro che circola come tale, moneta, quando serve per la spesa del reddito, vale a dire per lo scambio a fini di consumo individuale. Quantunque, nel modo capitalistico di produzione, esso sostituisca sempre capitale – né potrebbe essere altrimenti – qui il denaro circola unicamente con la funzione di moneta. Dall’altro lato, invece, soltanto in quanto il denaro serva al trasferimento di capitale, sia come mezzo di circolazione che di pagamento, esso è capitale. Il medesimo denaro può infatti funzionare ora come mezzo di acquisto per il consumatore individuale che spenda il proprio reddito, ora come mezzo di pagamento per capitalisti che facciano affari tra loro.

Tale confusione è empiricamente giustificata dal fatto che le stesse monete d’oro, le stesse banconote, ecc., possono rappresentare, per colui che le ha, indifferentemente capitale o reddito, poiché la natura fisica del denaro non cambia. Ma le specie di denaro che circolano nelle due sfere sono affatto diverse, compiendo alternativamente ambedue le funzioni proprio passando da una sfera all’altra.

Perciò, anche quando il denaro operi nell’ambito del capitale, e non immediatamente del reddito, tuttavia è rilevante capire, anzitutto, se il denaro funzioni come mezzo di circolazione o come mezzo di pagamento (e necessariamente anche di circolazione, l’una forma non toglie l’altra); e ciò dipende, ulteriormente, dalla forma (semplice o capitalistica) della produzione e dello scambio delle merci.

L’elementare operazione “tecnica” di incassare e versare denaro, cioè, rappresenta un costo di circolazione [<=] (e anche lavoro improduttivo [<=]) e non crea valore, e tantomeno plusvalore per il capitale. Se pure  in codesti costi (“false spese della produzione”) ci fosse, com’è senz’altro vero nelle forme storicamente sviluppate del capitalismo stesso, un continuo movimento di quella parte del capitale che lì esiste come denaro, esso sarebbe comunque separato dalla funzione stessa di capitale – ossia dall’autovalorizzazione.

Ecco, allora, che cosa significa dire che il denaro, e tutto ciò che lo concerne, ha la sua origine a monte del capitale, ossia nello scambio dei prodotti (tra diverse comunità); di qui ha origine il commercio di oro e di argento, dapprima considerati come merci, poi come base naturale del commercio dei lingotti (bullion), e quindi le attività del cambio, ecc., che si sono venute sviluppando già presso i greci e i romani. Quando tutto ciò (il traffico dei lingotti e il cambio) rientra nell’attività particolare del commercio di denaro si mostra la doppia veste del denaro, di moneta nazionale e di moneta mondiale; e questa forma del tesoro, come ammassamento del denaro, in quanto moneta mondiale [<=] nella sua veste metallica (oro o argento), appare anche prima del modo di produzione capitalistico.

Ma soltanto in quest’ultimo il tesoro riappare specificamente nella forma di denaro del capitale; altrimenti esso, come mero tesoro in perpetuo movimento, che in continuo si riversa nella circolazione e di continuo ne fuoriesce, è solo denaro come denaro (ché il capitale ancora non esiste neppure). In codesta forma puramente monetaria, il denaro opera perciò anche come moneta mondiale, e sta così di fronte anche alle diverse divise straniere. Qui – e particolarmente nella speculazione, che appunto non crea neo-valore ma solo lo trasferisce – è una questione di denaro, e non di capitale, poiché ciò che è richiesto non è quest’ultimo, che è indifferente alla forma particolare in cui esiste, bensì il valore nella forma specifica di denaro.

Se, allora, la precisa distinzione funzionale tra denaro come reddito, denaro come denaro, in quanto tale, e denaro come capitale ha la profondissima differenza di significato sopra esposta, essa rimanda a quello che è il carattere peculiare specifico del solo modo capitalistico della produzione sociale: ovverosia, lo scambio equo tra lavoro morto e lavoro vivo, per un suo uso iniquo, che è alla base della spiegazione scientifica della produzione di plusvalore (o, detta in termini sociali, dello “sfruttamento” capitalistico).

La forza-lavoro [<=] è merce, non capitale, prodotta come sua proprietà dal lavoratore e costituisce per lui semplicemente un reddito in quanto egli ne può costantemente ripetere la vendita; e opera come capitale soltanto dopo la vendita, durante il processo di produzione, in mano del capitalista, il quale all’inizio di esso ha come capitale in forma di denaro solo la parte variabile di esso. Non è perciò il denaro, ma la forza-lavoro che ha la duplice funzione prima di merce reddito e poi di capitale. (Ma tutto ciò merita un discorso specifico). Perciò è fin troppo facile capire perché l’apologetica economica politica dominante rifiuti finanche di sentir parlare di ciò che pone la trasformazione del denaro in capitale come essenzialmente differente dalla forma semplice del denaro come reddito.

Analiticamente, la faccenda è perfino più elementare di quanto possa apparire a prima vista. Basta rinviare alle definizioni basilari laddove Marx tratta appunto della trasformazione del denaro in capitale: “denaro come denaro e denaro come capitale si distinguono in un primo momento soltanto attraverso la loro differente forma di circolazione”. Quel che importa è in primo luogo caratterizzare le distinzioni di forma tra il ciclo della produzione e circolazione semplice delle merci, il vendere per comprare, trasformazione di merce in denaro e ritrasformazione del denaro in merce [M-D-M], e quello della produzione circolazione capitalistica di esse, il comprare per vendere, trasformazione di denaro in merce e ritrasformazione della merce in denaro (valorizzato), [D-M-D].

È soltanto qui che il denaro si trasforma in capitale, ossia diventa capitale ed è già capitale per sua destinazione. Così, conclude Marx, si avrà anche “la distinzione di contenuto che sta in agguato dietro quelle distinzioni di forma”. Il “formalismo” superficiale dell’economia (e della scienza) borghese, per la quale la forma è indifferente al contenuto, cade facilmente in quell’agguato.        

[gf.p.]

(Ovviamente, la farina proviene tutta, letteralmente, dal sacco di Marx;

tra le tante cose, in particolare, cfr. Lettera a Engels, 2.4.1858 – Il capitale, I,3; III,28)

 

 

Referendum # 1

(plebiscito)

I referendum in Italia sono nati dai plebisciti fatti ad imitazione di quelli francesi. La storia dei referendum italiani non può non iniziare quindi che dalla storia dei plebisciti bonapartisti; dal mito della democrazia diretta trasformatosi, dopo la rivoluzione francese, in bonapartismo. La procedura che i Bonaparte chiamavano plebiscito e che De Gaulle chiama, invece, referendum è una “originalità costituzionale” dei due Imperi e della V Repubblica, un’originalità francese. È stato affermato che non è possibile segnare una precisa distinzione fra “plebiscito” e “referendum”. Sul piano politico va affermato che il plebiscito scioglie nodi costituzionali fondamentali ed intricati, mentre il referendum, disciplinato dalle varie costituzioni, riguarda l’ordinaria amministrazione. Precisato questo concetto di fondo, è da aggiungere subito che i “referendum” gollisti sono da considerare plebisciti nella più schietta tradizione Bonapartista. Il termine “referendum”, scelto da De Gaulle, serve solo ad occultare la indicata, diretta derivazione; rientra, cioè, fra le manipolazioni del tipo bonapartista.

L’essenza politico autoritaria del plebiscito sta, comunque, precisamente in questo: è l’autocrate, dotato di potere politico e capace di influenzare la pubblica opinione, a porre la domanda nel momento da lui ritenuto più appropriato perché, nella democrazia passiva e ampiamente manipolata, i cittadini rispondano con un “sì” o con un “no”, firmando, così, in favore dell’autocrate (dietro al quale si raggruppano precisi interessi) mandati in bianco. Nella dichiarazione del 31 dicembre 1851 Luigi Napoleone indica un’altra precisa funzione dei plebisciti: quella di assolvere gli uomini politici dai loro pregressi misfatti. In particolare dai colpi di stato. Il plebiscito “taglia”, rispetto al passato, apre un capitolo nuovo, fonda una diversa legalità. Il potere costituente appartiene al popolo – lo aveva insegnato Sieyés, mèntore di Napoleone I – sicché chi è investito dell’autorità dal popolo direttamente è al di sopra delle leggi, è la “vivente” costituzione. Come Napoleone III, de Gaulle, per ratificare le sue azioni passate, è saldamente antiparlamentare. È questa la tradizione bonapartista che si ritrova pari pari, ancor oggi in Italia. Si potrebbe descrivere il bonapartismo in termini di vocabolario: nuovo, instaura il “nuovo ordine”, mentre i “partiti” sono il vecchio; vecchia è la politica come fatto di partecipazione di massa; vecchia è la libertà di stampa [<=], di associazione. Il “nuovo”, in assoluto, è il dittatore che dètta i criteri del vecchio e del nuovo. Nuova è la politica dei notabili e delle combriccole, nuova è la giustizia ampiamente manipolata, nuovi sono i giudici-funzionari pronti a sedersi sul carro del vincitore.

In linea di principio, il referendum contrasta con il sistema rappresentativo, con il principio di supremazia del parlamento. È per questo che negli Stati Uniti ed in Germania, a livello nazionale, non è stato introdotto ed in Gran Bretagna è stato introdotto in maniera limitata ed in modo da renderlo del tutto compatibile (da fonderlo, si potrebbe dire) con il sistema rappresentativo. Il referendum contrasta con la democrazia partecipativa garantita dal sistema dei partiti in competizione democratica fra di loro. In Gran Bretagna i referendum vengono decisi di volta in volta dal parlamento su limitati e precisi oggetti. In altri termini, ogni referendum ha le sue regole. Il principio della democrazia diretta è reso così compatibile con quello dell’assoluta sovranità del parlamento. La diffidenza tedesca verso i referendum nasce dalla consapevolezza che essi si prestano alle manipolazioni. Essa deriva anche dal fatto che lo Stato federale è uno “Stato dei partiti”. Gli Stati Uniti non conoscono il referendum a livello federale, lo conoscono solo a livello locale, ma non tutti gli stati ammettono i referendum. Ma i magnati americani, le Corporation si sono impossessati dello strumento di “democrazia diretta” e lo hanno piegato ai loro fini. Negli Stati Uniti, ancora una volta la “ricchezza” ha vinto, ha avuto il sopravvento. I referendum sono stati usati in America – come anche, largamente in Italia – per eliminare “lacci e lacciuoli”.

La Costituzione italiana ammette tre tipi di referendum [<= #2]: 1) l’art.75 prevede il referendum abrogativo delle leggi ordinarie; 2) l’art.132 prevede il referendum regionale; 3) l’art.139 prevede il referendum costituzionale facoltativo relativo alle leggi di revisione costituzionale. Consapevoli delle manipolazioni alle quali i referendum sono soggetti, i Costituenti italiani hanno ammesso i referendum in limiti ben precisi, ma la Corte costituzionale li ha enormemente allargati. In particolare ha allargato il concetto di referendum abrogativo trasformandolo in referendum manipolativo-propositivo di indirizzo politico. Precisamente ciò che i costituenti hanno normativamente escluso. La Corte costituzionale ha consentito ed ha avallato la manipolazione. Una sua grave responsabilità. Un referendum formalmente abrogativo-manipolativo ma sostanzialmente propositivo “giuridicamente” è un referendum propositivo. Solo nella terra di Azzeccagarbugli la Corte costituzionale può pretendere di far passare per “giuridicamente abrogativo” (e quindi, costituzionalmente ammissibile) un referendum “sostanzialmente propositivo”. L’occasione per affrettare l’introduzione del referendum è stata costituita dal dibattito per l’introduzione del divorzio. Nel frattempo, la Dc si era dotata del potere di eliminarlo per via di ... “democrazia diretta”, secondo l’esperienza populista degli Stati Uniti; ma ha sbagliato i suoi calcoli ed ha perduto il referendum.

L’istituto referendario è divenuto però in Italia, finalmente, attivo ed a disposizione delle lobby. A partire dalla sua introduzione il referendum in Italia ha avuto un graduale slittamento in senso plebiscitario. Il referendum abrogativo è divenuto gradualmente ma sempre più marcatamente propositivo (per via di manipolazione normativa). La proposta di ammettere i referendum propositivi è stata espressamente respinta per evitare le strumentalizzazioni di carattere politico. La dottrina costituzionale italiana ha ravvisato nella normativa costituzionale “una ratio di fondo”, peraltro chiaramente emergente dalle norme, “intesa a sottrarre al referendum abrogativo” ogni legge di indirizzo politico, mentre la Corte costituzionale si è orientata in senso contrario. Il culmine è stato raggiunto quando la Corte costituzionale ha ammesso i referendum in materia elettorale. Il che significa che in Italia interessano solo i referendum “politici”. Precisamente, i referendum che tendono ad essere plebisciti (quelli vietati dalla Costituzione ma ammessi con deplorevole larghezza dalla Corte costituzionale). Qui è possibile in effetti vedere un “governo dei giudici”, dietro pressione delle lobby, del tipo di quello che si è verificato negli Usa. Oggi in Italia si parla di adeguare la Costituzione al sistema elettorale maggioritario (con essa incompatibile). Si è già affermato che l’essenza autoritaria del plebiscito bonapartista sta nel fatto che è l’autocrate a porre le domande nel momento da lui ritenuto opportuno. Ebbene, nel referendum le domande in effetti non le pongono i cittadini ma le lobby spesso appoggiate dai partiti di governo. È qui l’essenza autoritaria del referendum. La democrazia diretta storicamente è stata (quasi) sempre una democrazia manipolata.

La comprensibilità dei quesiti da parte del “popolo sovrano” è il presupposto primo dell’esercizio della democrazia diretta in senso democratico [<=]. Un popolo sovrano costretto a decidere in base a quesiti incomprensibili – e, in sostanza, in base al colore delle schede – è, certamente, un popolo “sovrano” manipolato. La Corte costituzionale ha ammesso quesiti che, invece, non dovevano essere ammessi per assoluta mancanza di chiarezza. La chiarezza deve essere infatti commisurata alla capacità del popolo sovrano di intendere “direttamente” (stiamo discutendo di uno strumento di democrazia diretta), leggendo il quesito, la scelta da fare. I referendum di tipo manipolatorio, con quesiti incomprensibili da parte del “popolo sovrano”, non realizzano la democrazia diretta; sono invece – palesemente – strumenti utili alle lobby ed ai demagoghi. Può accadere così – accade quasi sempre – che le lobby si impossessino dello strumento-referendum ai propri fini distorsivi. In tal caso l’operazione di lobby risulta chiara dai quesiti oscuri ed incomprensibili, visto che alle lobby non interessa la democrazia diretta, interessa invece realizzare i propri risultati utilizzando lo strumento della “democrazia diretta”. Le lobby agiscono in parlamento. Agiscono premendo sui giudici. Agiscono attraverso lo strumento della democrazia diretta. Ogni strumento è buono per raggiungere gli scopi e gli utili che le lobby si prefiggono.

[v.a.]

(da Vincenzo Accattatis, Il sovrano prigioniero, in Invarianti, n.27 nov.1995)

 

 

Referendum # 2

Si può prendere coscienza dell’istituto del referendum [<= #1] riportandosi all’epoca in cui si è resa possibile la sua operatività, nel contesto di quella lotta per il superamento del blocco pervicacemente opposto all’attuazione della costituzione, in ciò che di più qualificante presentava istituzionalmente, per legittimare l’iniziativa di massa verso la socializzazione del potere, sia economico che politico. All’inizio degli anni settanta si coniugarono significativamente l’emanazione dello “statuto dei lavoratori” e l’entrata in vigore del sistema regionale, imperniato non già sui princìpi  di decentramento politico-amministrativo, evocati dal neo-federalismo, ma sul ruolo autonomo delle forze operanti sul territorio, in quello che allora si presentò come fronte democratico per il controllo sociale e politico dell’economia privata e pubblica, nel segno del potere delle assemblee dei lavoratori e delle istituzioni locali, regionali e parlamentari, dando perciò un ruolo marginale all’istituto referendario, comunque evocato insieme all’istituto dell’iniziativa legislativa popolare per prevalenti ragioni di completezza di fedeltà ai princìpi della carta costituzionale.

Tale marginalità di principio – discendente dal fatto che per sua natura l’istituto del referendum mira a evidenziare l’aspetto individualistico proprio della cultura borghese, con rischi di penetrazione nelle stesse masse popolari, storicamente evolutesi viceversa all’insegna della progettualità sociale e politica prodotta con le proprie organizzazioni – è stata esemplarmente messa in luce dalle circostanze in cui il referendum abrogativo ha preso concretamente corpo negli anni settanta. Quando, cioè, nel vivo della stagione delle lotte sociali anticapitalistiche è stata invocata la democrazia diretta, nella contrapposizione alla endiadi diritti dei lavoratori / potere di classe dell’altra diritti individuali / diritti civili, con l’obiettivo di provocare  una deflagrazione nella coscienza collettiva [<=] dei lavoratori, nella cui cultura antiborghese la crescita dei diritti civili – nel caso rappresentati, com’è noto, dal divorzio e dall’aborto – veniva vista come conseguenza di una trasformazione dei rapporti sociali di produzione, senza una separatezza foriera di consolidare il primato della contraddizione di classe [<=].

La contraddizione venutasi a creare nello stato di democrazia sociale [<=] ha avuto il duplice effetto, nelle mutate condizioni storiche, non solo di assecondare l’antagonismo atavico delle minoranze elitarie e conservatrici della società civile contro il parlamento come luogo istituzionale dell’interclassismo, ma anche di affiancarvi il peso delle contraddizioni alla lunga emerse per la crisi degli istituti della democrazia di massa, con il sovrapporsi dei “gruppi dirigenti” ai militanti di base in partiti e sindacati. Sicché il referendum appare oggi come antidoto utile a quanti rinunciano alla lotta democratica, appropriandosi contraddittoriamente di uno strumento classico di separatezza e individualismo, come l’opzione tra un “sì” e un “no”, riferito a quesiti nella cui formulazione il popolo comunque inteso è estraniato dai “comitati di promotori”, che sono i reali e ristretti protagonisti di un istituto che solo a precise eccezionali condizioni può risultare coerente con l’interesse collettivo. In tale contesto, si è potuto perdere di vista il fatto che in sede costituente si era riusciti a contenere una spinta “pro referendum” che, non a caso, muoveva da un ristretto numero di giuristi impregnati della cultura istituzionale contraddittoria emersa all’epoca della costituzione di Weimar, sì che sono rimasti esclusi nel nostro sistema i referendum sospensivi, propositivi e consultivi, con la sopravvivenza del solo referendum abrogativo, che comunque poteva aver senso coerente con tutto l’impianto della costituzione se fosse stato concepito in senso rigorosamente contrario solo con le leggi del periodo liberale e fascista; ciò che, sull’altro versante della funzione di annullamento delle sentenze dichiarative di illegittimità delle leggi, la corte costituzionale fu pronta a favorire già dalla sua prima sentenza del 1956.

Orbene, quello che è sfuggito, una volta che nel conflitto tra conservatorismo e democratizzazione si è pensato di accompagnare  l’attuazione della costituzione guardando anche al referendum abrogativo, si è che il lancio concreto dell’istituto referendario si deve all’iniziativa del fronte organizzato proprio per contrastare una legge progressista appena entrata in vigore: con la conseguenza  di fare del referendum abrogativo lo strumento di recupero degli interessi sociali sconfitti nella dialettica democratica, come dialettica pervenuta alla sede parlamentare di un’istituzione rappresentativa strettamente collegata con la società. Ciò ha messo al tempo stesso i protagonisti del fronte del “no” alla cancellazione di una riforma, nella incomoda posizione di chi, per consolidare in seno al popolo [<=] una volontà trasferita dal popolo al parlamento, si trovava costretto a produrre iniziative non già di tipo positivo, ma al contrario di tipo negativo. Di fronte al prosperare dell’istituto referendario, da un lato, e alla propensione parlamentare di contenere le spinte referendarie mediante abrogazioni fittizie e fraudolente, dall’altro, va parimenti avvertito che proprio nelle circostanze in cui bloccava i tentativi di interferire sui referendum con cambiamenti legislativi di pura facciata, la corte costituzionale iniziava a instaurare una prassi eguale e contraria al proliferare delle richieste referendarie, soprattutto “radicali”, escogitando criteri di inammissibilità di un numero sempre più fitto di referendum – nelle tornate del 1978, ‘82, ‘87, ‘93, ‘97 e 2000 – sotto il simbolismo di una cosiddetta “razionalizzazione”.

Quest’ultima è frutto di quella forma di “ideologia giuridica” che la scienza costituzionalistica si è assunta il còmpito di assecondare attraverso le teorie istituzionali della “governabilità” [<=], servendosi nel caso dei referendum – che secondo l’art. 75 della costituzione italiana è ammesso tassativamente solo “per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, e di autorizzazione a ratificare trattati internazionali” – di veri e propri espedienti vòlti a rintuzzare il complesso lavoro di ritaglio di spezzoni di leggi, operato dai tecnici del diritto [<=] messisi al servizio dei comitati di promotori referendari. Sì che all’ombra di  un potere popolare, sempre più circuìto per strappare una preferenza per un “sì” o per un “no”, si è venuto consumando uno scontro polarizzato tra opposte concezioni del potere assunte variamente nella legislazione, scontro in cui peraltro si sono essenzialmente perfezionate  tecniche sfacciatamente “manipolative” con il fronteggiarsi di abilità di cursori nelle maglie della vasta e settorializzata normativa, e abilità di incassatori adusati all’arte del temporeggiamento. Tutto ciò fa comodo a quelle componenti  del ceto politico, alla lor volta imputabili di lasciar sopravvivere leggi e parti di leggi che avrebbero dovuto viceversa procedere con riforme democratiche per obiettivi più avanzati, le quali preferiscono non farsi aggredire da forze referendarie, pronte a riaprire la dialettica interrotta per creare condizioni ancor più svantaggiose per i partiti postisi ormai su un piano inclinato di deriva democratica.

Costruiti artificialmente alcuni nuclei concettuali – vòlti a precludere l’ammissibilità dei referendum, ritenuti volta per volta troppo interferenti con il ruolo politico-legislativo delle forze politiche, mascherando l’operazione dietro alla maggior visibilità dell’eccessivo numero delle iniziative referendarie – la corte costituzionale è divenuta, per progressivo riconoscimento degli stessi obiettori, soprattutto “radicali”, l’arbitro apparente, e in verità il “giocatore in più”, delle contese trasferitesi dal campo aperto della lotta politica ad una “giuridificazione” idonea a coprire i giochi in atto nelle diverse circostanze. Sicché, dopo ventitré anni (dalla sentenza n. 16/78, famosa per gli addetti ai lavori, e inconcepibile per il “popolo sovrano”), si è assistito alla prassi sempre passivamente recepita o addirittura auspicata di un più o meno largo sfoltimento dei “pacchetti di referendum”, una volta assuefattisi all’idea che non possano essere ammessi referendum difettosi di “omogeneità” nel quesito abrogativo, o che abbiano ad oggetto leggi o norme legislative cosiddette “a contenuto costituzionalmente vincolato”, il cui nucleo normativo cioè non possa essere alterato “senza che ne risultino lesi corrispondenti specifici disposti costituzionali”.

Ora, mediante le forme di dominio economico, finanziario e istituzionale del capitale internazionale, in funzione cioè della regolazione dei rapporti di produzione ma in contrasto con i bisogni di emancipazione del movimento operaio nazionale e internazionale, i gruppi di potere capitalistico con il concorso attivo e decisivo dei partiti socialdemocratici e neo-liberisti [<=] riescono a rimodellare gli apparati di vertice, demonizzando l’organizzazione democratica della politica. In ciò essi sono anche agevolati dal ruolo subalterno dei sindacati, divenuti con la “concertazione” strumenti di protezione del capitale e di assoggettamento burocratico dei lavoratori, dal ruolo dipendente delle assemblee elettive, ricollocate in posizione strumentale rispetto agli esecutivi nazionali e sovranazionali, dal tentativo di ripristinare il ruolo burocratico dei magistrati, la cui funzione di garanzia si pone come condizione di organicità complessiva di uno stato democratico-sociale, in cui la lotta per il diritto deve veder coniugabile il potere di massa, di costruire nuovi rapporti sociali, con il diritto pieno e generalizzato di vedere rispettate le leggi. E ciò è tanto più vero specie quando esse sono manomesse sistematicamente dagli esponenti del potere capitalistico usciti indenni – come è avvenuto, a es.., nel passaggio dagli anni sessanta agli anni settanta proprio in Italia – dagli attacchi che in nome della democrazia sociale avevano subìto, con alcuni importanti “spezzoni” di riforma in sede legislativa e contrattuale.

Il rischio che il successo di una manomissione, anche parziale, della costituzione vi sia non è connesso solo alle cause consolidatesi dal 1978 in poi, di deriva complessiva della democrazia, dovuta al concorso dello snaturamento della sinistra e della progressiva aggressività di uno spirito referendario, che ha contagiato persino quanti avrebbero dovuto rilanciare la lotta sul terreno dei rapporti tra movimenti di massa e rete delle assemblee elettive. Ma è connesso anche all’idoneità che lo strumento referendario ha potuto sviluppare al massimo agevolando un’incidenza “trasversale” al fronteggiarsi “destra-sinistra” [<=], il quale, dopo l’omologazione ideologica tra “ulivo” e “polo”, presenta oggi connotati simili a quelli che la lotta politica manifestò all’epoca della sinistra “storica”, che non a caso muoveva su basi maggioritarie uninominali.

[s.d’a.]

 

 

Ricchezza

(forza produttiva e accumulazione)

 

“La massa della ricchezza realmente accumulata, considerata secondo la sua grandezza ... è talmente insignificante a paragone delle forze produttive della società cui appartiene, qualunque ne sia il grado di civiltà; ovvero anche soltanto a paragone con il consumo reale di questa stessa società durante solo pochi anni; talmente insignificante che l’attenzione principale dei legislatori e degli economisti dovrebbe essere rivolta alle forze produttive e al loro futuro libero sviluppo, non invece, come finora, alla semplice ricchezza accumulata che colpisce l’occhio. La parte di gran lunga più grande della cosiddetta ricchezza accumulata è soltanto nominale e non consiste di oggetti reali, navi, case, merci di cotone, migliorie fondiarie, bensì di semplici titoli giuridici, diritti sulle future forze produttive annue della società, titoli giuridici prodotti e perpetuati mediante gli espedienti o l'istituzione dell’insicurezza... L’uso di tali articoli (accumulazioni di cose fisiche ossia ricchezza reale) come puro e semplice mezzo di rendere proprietà dei loro possessori la ricchezza che le future forze produttive della società devono ancora creare, questo uso verrebbe loro sottratto gradatamente senza impiego di violenze mediante le leggi naturali della distribuzione; con l’appoggio del lavoro cooperativo (co-operative labour), esso verrebbe loro sottratto in pochi anni” [William Thompson, Inquiry into the principles of the distribution of wealth, Londra, 1850, p.453. Questo libro apparve per la prima volta nel 1824].

“Si prende poco in considerazione, i più non se lo immaginano neppure, in quale rapporto estremamente piccolo, sia secondo la massa sia secondo l’efficacia, stiano le accumulazioni effettive della società con le forze produttive umane, anzi addirittura con il consumo usuale di una singola generazione umana durante pochi anni soltanto. Il motivo è palese, ma l’effetto è molto dannoso. La ricchezza che viene annualmente consumata scompare con il suo uso; essa sta dinanzi agli occhi solo per un istante e fa impressione soltanto mentre la si gode o la si consuma. Ma la parte della ricchezza che si consuma solo lentamente, mobili, macchine, edifici, dalla nostra fanciullezza alla nostra vecchiaia ci stanno dinanzi agli occhi, durevoli monumenti della nostra fatica. Grazie al possesso di questa parte fissa, durevole, consumata solo lentamente, della pubblica ricchezza – del suolo e delle materie prime sui quali si lavora, delle case che durante il lavoro danno riparo – grazie a questo possesso, i proprietari di questi oggetti dominano a loro proprio vantaggio le forze produttive annue di tutti i lavoratori realmente produttivi della società, per quanto insignificanti possano essere quegli oggetti in rapporto ai prodotti sempre rinnovantisi di questo lavoro.

La popolazione della Gran Bretagna e dell’Irlanda è di 20 milioni; il consumo medio di ogni singolo uomo, donna e bambino è probabilmente sulle 20 Lst. circa, il prodotto del lavoro annualmente consumato. L’importo totale del capitale accumulato di questi paesi è valutato non oltre i 1200 milioni, ossia tre volte il prodotto annuo del lavoro; secondo la stessa ripartizione, 60 Lst. di capitale a testa. Abbiamo qui a che fare più con il rapporto che con gli importi assoluti più o meno esatti di queste valutazioni. Gli interessi di questo capitale totale sarebbero sufficienti a mantenere la popolazione totale nel suo tenore di vita attuale per circa due mesi in un anno, e lo stesso capitale totale accumulato (se si potessero trovare compratori) per tre anni interi li manterrebbe senza lavoro! Alla fine di questo tempo, senza case, abiti o nutrimento essi dovrebbero morire di fame, oppure diventare gli schiavi di coloro che per tre anni li hanno mantenuti.

Nello stesso rapporto in cui sono tre anni rispetto al tempo di vita di una generazione sana, diciamo di 40 anni, in questo stesso rapporto è la grandezza e l’importanza della ricchezza reale, il capitale accumulato anche del paese più ricco, rispetto alla sua forza produttiva, rispetto alle forze produttive di una singola generazione; non rispetto a ciò che potrebbero produrre sotto ordinamenti ragionevoli di una giusta sicurezza, e particolarmente con un lavoro cooperativo, bensì rispetto a ciò che esse realmente producono in assoluto, tra gli espedienti manchevoli e demoralizzanti dell’insicurezza!... E per mantenere e perpetuare nel suo stato attuale di ripartizione forzata questa massa apparentemente grandiosa del capitale esistente, o piuttosto il comando e il monopolio per suo mezzo ottenuti sui prodotti del lavoro annuo, dev’essere perpetuato tutto il raccapricciante meccanismo, i vizi, i crimini e le sofferenze dell’incertezza. Nulla può essere accumulato senza che siano prima soddisfatti i bisogni più urgenti, e il grande fiume delle inclinazioni umane scorre dietro il godimento; da ciò l’ammontare relativamente insignificante della ricchezza reale della società in ogni dato momento. È un ciclo eterno di produzione e consumo.

In questa immensa massa di produzione e di consumo annui, la mancanza di questa manciata di accumulazione reale sarebbe appena avvertita; e tuttavia l'attenzione principale è stata diretta non a quella massa di forza produttiva, bensì a questa manciata di accumulazione. Ma questa manciata è stata sequestrata da alcuni pochi e trasformata nello strumento per l’appropriazione dei prodotti del lavoro della grande massa, che ogni anno si ripetono. Da ciò l’importanza decisiva di un tale strumento per questi pochi... Circa un terzo del prodotto nazionale annuo viene ora sottratto ai produttori sotto il nome di oneri pubblici, e consumato improduttivamente da gente che non dà per esso alcun equivalente, cioè – alcun equivalente che valga come tale per i produttori. L’occhio della moltitudine guarda meravigliato alle masse accumulate, specialmente se sono concentrate nelle mani di alcuni pochi. Ma le masse annualmente prodotte, come le onde eterne e innumerevoli di un potente fiume, scorrono innanzi e si perdono nel dimenticato oceano del consumo. E tuttavia questo eterno consumo media non soltanto tutti i godimenti, ma l’esistenza dell’intero genere umano.

 La quantità e la ripartizione di questo prodotto annuo dovrebbe essere oggetto di esame prima di ogni altra cosa. L’accumulazione reale è di importanza affatto secondaria, e riceve questa importanza anche quasi esclusivamente dal suo influsso sulla distribuzione del prodotto annuo... L’accumulazione reale e la distribuzione viene qui” (nello scritto di Thompson) “considerata sempre con riferimento e con subordinazione alla forza produttiva. In quasi tutti gli altri sistemi, la forza produttiva è stata considerata con riferimento e subordinazione all'accumulazione e al perpetuarsi del modo esistente di distribuzione. Paragonati con il mantenimento di questo modo di distribuzione esistente, la miseria o il benessere sempre ritornanti dell’intero genere umano non vengono ritenuti degni di uno sguardo. Perpetuare i risultati della violenza, dell’inganno e del caso, si è chiamato sicurezza; e al mantenimento di questa falsa sicurezza sono state sacrificate senza misericordia tutte le forze produttive del genere umano” [ivi, pp.440-443; cit. in Il Capitale, II.1, cap.17].

L’intera somma della forza-lavoro e dei mezzi sociali di produzione che viene spesa nella produzione annua di oro e argento in quanto strumenti della circolazione, forma una voce onerosa dei faux frais del modo capitalistico di produzione, e in generale del modo di produzione fondato sulla produzione di merci. Essa sottrae all’utilizzazione sociale una corrispondente somma di possibili, addizionali mezzi di produzione e di consumo, cioè della ricchezza reale. In quanto a una data scala costante della produzione, o a un grado dato della sua estensione, i costi di questo dispendioso macchinario di circolazione vengono diminuiti, in tanto viene con ciò innalzata la forza produttiva del lavoro sociale. In quanto dunque i mezzi ausiliari sviluppantisi con il sistema creditizio hanno questo effetto, essi aumentano direttamente la ricchezza capitalistica, sia che una gran parte del processo sociale di produzione e di lavoro sia con ciò compiuto senza alcun intervento di denaro reale, sia che la capacità di operare della massa di denaro realmente in funzione venga elevata [ibidem].

La piccola proprietà fondiaria presuppone che la grandissima maggioranza della popolazione sia agricola e che predomini non il lavoro sociale, ma quello isolato; perciò la ricchezza e lo sviluppo della riproduzione delle sue condizioni sia materiali che spirituali sono in tali casi esclusi, e sono quindi escluse anche le condizioni di una coltura razionale. L’effettiva ricchezza della società e la possibilità di un continuo allargamento del suo processo di riproduzione non dipende quindi dalla durata del pluslavoro, ma dalla sua produttività e dalle condizioni di produzione più o meno ampie nelle quali è eseguito. Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove finisce il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibile modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni.

La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità [Marx, C, III.3, cap 47-48].

Assurda è la frase fatta che fa derivare il capitale dal risparmio, perché ciò che lo speculatore pretende è proprio che altri risparmino per lui. Il suo lusso, poi, che ora diventa anch’esso un mezzo per ottenere credito, fa a pugni con l’altra frase fatta, che fa derivare il capitale dalla rinuncia. Concezioni che in una produzione capitalistica meno sviluppata hanno ancora un senso, qui lo perdono completamente. Il successo e l’insuccesso portano qui egualmente all’accentramento dei capitali e quindi all’espropriazione sulla scala più vasta. L’espropriazione si estende qui dai produttori diretti agli stessi capitalisti piccoli e medi. Tale espropriazione costituisce il punto di partenza del modo di produzione capitalistico, e allo stesso tempo il suo scopo, che è, in quell’analisi, quello di espropriare i singoli individui dei mezzi di produzione, che con lo sviluppo della produzione sociale cessano di essere mezzi della produzione privata e prodotti della produzione privata, e che possono essere ancora soltanto mezzi di produzione nelle mani dei produttori associati, quindi loro proprietà sociale, così come sono loro prodotto sociale.

Ma nel sistema capitalistico questa espropriazione riveste l’aspetto opposto, si presenta come appropriazione della proprietà sociale da parte di pochi individui, e il credito attribuisce a questi pochi sempre più il carattere di puri e semplici cavalieri di ventura. Poiché la proprietà esiste qui sotto forma di azioni, il suo movimento e il suo trasferimento non sono che il puro e semplice risultato del gioco di borsa dove i piccoli pesci sono divorati dagli squali e le pecore dai lupi di borsa. Nel sistema azionario è già presente il contrasto con la vecchia forma nella quale i mezzi di produzione sociale appaiono come proprietà individuale; ma la trasformazione in azioni rimane ancora chiusa entro le barriere capitalistiche; in luogo di annullare il contrasto tra il carattere sociale ed il carattere privato della ricchezza, essa non fa che darle una nuova forma. Ecco i due caratteri immanenti al credito: da un lato esso sviluppa la molla della produzione capitalistica, cioè l’arricchimento mediante lo sfruttamento del lavoro altrui, fino a farla diventare il più colossale sistema di giuoco e d’imbroglio, limitando sempre più il numero di quei pochi che sfruttano la ricchezza sociale; dall’altro lato esso costituisce la forma di transizione verso un nuovo sistema di produzione.

In che cosa si distinguono l’oro e l’argento dalle altre forme di ricchezza? Non per la grandezza del valore, tale grandezza essendo determinata dalla quantità di lavoro che vi si trova oggettivato. Ma come incarnazioni autonome, espressione del carattere sociale della ricchezza. [La ricchezza della società esiste solo come ricchezza di singoli, che ne sono i proprietari privati. Essa si presenta come sociale solo per il fatto che questi singoli individui, al fine di soddisfare i loro bisogni, si scambiano fra di loro valori d’uso qualitativamente diversi. Nella produzione capitalistica essi possono farlo soltanto per mezzo del denaro. Così soltanto per mezzo del denaro la ricchezza del singolo viene realizzata come ricchezza sociale; in questa cosa che è il denaro, è materializzata la natura sociale di questa ricchezza – F.Engels]. Questa sua essenza sociale appare come qualcosa al di fuori, come cosa, oggetto, merce, accanto e al di fuori degli elementi effettivi della ricchezza sociale. Fino a che la produzione è in movimento questo aspetto viene dimenticato.

Il credito, anch’esso forma sociale della ricchezza, soppianta il denaro e ne usurpa il posto. È la fiducia nel carattere sociale della produzione, che fa apparire la forma monetaria dei prodotti esclusivamente come qualche cosa di passeggero e ideale, come semplice rappresentazione. Ma, non appena il credito viene scosso – e questa fase si presenta immancabilmente nel ciclo dell’industria moderna – qualsiasi ricchezza reale dev’essere trasformata concretamente e improvvisamente in denaro, in oro e in argento, una pretesa assurda che deriva però necessariamente dal sistema stesso... Riguardo agli effetti del deflusso dell’oro, il fatto che la produzione, in quanto produzione sociale, non è realmente sottoposta al controllo sociale, si manifesta nel modo più evidente nel fatto che la forma sociale della ricchezza esiste come una cosa al di fuori di essa.

Da un lato l’usura mina e sconvolge in tal modo la ricchezza e la proprietà dell’antichità del feudalesimo, d’altro lato distrugge lentamente e rovina la produzione dei piccoli contadini e dei piccoli borghesi, in breve tutte le forme in cui il produttore appare ancora come proprietario dei suoi mezzi di produzione... In contrapposizione alla ricchezza consumatrice, l’usura ha una importanza storica in quanto costituisce essa stessa un processo che genera il capitale. Capitale usurario e capitale commerciale rendono possibile la costituzione di un patrimonio monetario indipendente dalla proprietà terriera. Quanto meno è sviluppato il carattere del prodotto come merce, quanto meno il valore di scambio si è impadronito della produzione in tutta la sua estensione e profondità, tanto più il denaro appare come la vera ricchezza in quanto tale, come la ricchezza universale, rispetto alla sua rappresentazione limitata sotto forma di valori d’uso. In ciò consiste la base della tesaurizzazione.

Prescindendo dal denaro in quanto moneta mondiale e tesoro, è soprattutto nella forma di mezzo di pagamento che esso si presenta quale forma assoluta della merce. Ed è particolarmente la sua funzione di mezzo di pagamento che sviluppa l’interesse e di conseguenza il capitale monetario. Ciò che la ricchezza prodiga e corruttrice vuole è il denaro in quanto denaro, denaro come mezzo per acquistare qualsiasi cosa (anche per pagare i debiti) [Marx, C, III.2, cap. 35-36].

[k.m.]

 

 

Risparmio

Marx parla assai spesso del risparmio nell’impiego dei mezzi di produzione, ossia di quell’“economia” che può farsi del loro consumo comune nel processo di lavoro di molte persone, che cooperano per il carattere sociale che il lavoro stesso ha in ogni società sviluppata, foss’anche quella capitalistica. È ovvio dunque che in quest’ultima circostanza quel particolare tipo di “economia” o “risparmio”, dettato dal modo di produzione capitalistico, imponga ai lavoratori una tensione più alta dell’uso della loro forza-lavoro [<=] per altri. Ossia, codesto risparmio è quello che i capitalisti fanno sul lavoro necessario, necessario ma contrattile – la parte pagata della giornata lavorativa [<=] – per estorcere una maggior quantità di pluslavoro relativo da trasformare in plusvalore [<=]. Questo è il concetto semplice e ultimo di risparmio nelle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico.

I padri dell’economia politica, consapevoli del carattere truffaldino delle “teorie del risparmio”, preferivano camuffarsi da asceti “padri della chiesa” chiamando il risparmio “astinenza” [del resto, l’economia politica del capitale è una chiesa]. Con astinenza, dunque, voleva farsi intendere l’astenersi dall’esborsare più denaro di quanto fosse strettamente necessario per pagare le condizioni di lavoro a fini di profitto. Si produsse così quel paralogismo secondo cui – procedendo dall’ascetismo dell’etica protestante nei riguardi del proprio consumo individuale ed estendendolo alla parsimonia nell’impiego di denaro e mezzi di produzione a spese del lavoro altrui – il profitto è frutto dell’“astinenza” e il capitale [<=] è il risultato del “risparmio”. In questo Trionfo della Virtù svanisce, come in una mistica nebbia, di chi siano tali astinenza e risparmio: se il soggetto storico impersonale è il capitale, e il capitalista la sua personificazione, tutto può essere attribuito impunemente a loro merito e gloria. Emerge così dalle pagine dei sacri testi dell’economia politica quello strano santo, quel cavaliere dalla triste figura, che è il capitalista “astinente”, colui che si astiene dal proprio istinto di godimento. E siccome non può mangiar denaro, allora si mette a catechizzare sulla necessità che si rifletta alla sua “astinenza”, al suo spirito di sacrificio.

Era suonata l’ora dell’economia volgare. Nassau W.Senior – l’esponente della scuola di Manchester che inventò la teoria secondo cui il profitto proviene dall’“ultima ora” [la dodicesima allora, più o meno l’ottava oggi] della giornata lavorativa – prima di allora aveva già annunciato solennemente al mondo un’altra scoperta: – Io sostituisco la parola “capitale” con la parola “astinenza”. Questo esempio insuperato delle “scoperte” dell’economia volgare mostra come una categoria economica possa venir sostituita con una frase da sicofante: voilà tout! Tutte le condizioni del processo lavorativo si trasformano d’ora in poi in altrettante pratiche ascetiche del capitalista. Occorre perciò mettere in rilievo unicamente che il compito del risparmio effettivo, in quanto fornisce elementi di accumulazione, tramite la divisione del lavoro viene lasciato a coloro che ricevono in misura minima i benefici di tale accumulazione e che anzi molto spesso per di più perdono i loro “risparmi”. Dunque, a smentita delle scoperte dell’economia volgare, si capisce assai facilmente come il capitale del capitalista industriale non venga “risparmiato” da lui stesso; ma come, al contrario, in rapporto alla grandezza del suo capitale, egli disponga di risparmi altrui. D’altro lato, è il capitalista monetario [<=] che trasforma i risparmi altrui in capitale proprio. Cade così – o dovrebbe cadere – l’ultima illusione del sistema capitalistico, che il capitale sia il frutto del proprio risparmio e del proprio lavoro. Tuttavia, con l’estendersi del sistema capitalistico nel mondo, quell’illusione non sta cadendo affatto come dovrebbe, per effetto dell’ideologia del risparmio che attraverso l’economia volgare ha conquistato tutta l’economia moderna e contemporanea. Si è giunti perfino a celebrare la Giornata Mondiale del Risparmio.

Il “risparmio”, per i motivi detti, non rappresenta però una categoria economica in senso proprio, giacché a esso non corrisponde propriamente alcun concetto. E senza concetto non si dà razionalità del reale. Non per caso, la mistificazione libresca dei manuali di economia politica fa cominciare la descrizione del “risparmio” associando la sua immagine all’“istinto” di animali “come le formiche o gli scoiattoli”. La complicazione del risparmio monetario viene sùbito introdotta come ovvia, per essere però immediatamente fraintesa e volutamente confusa. La forma monetaria del risparmio nella società capitalistica non è sufficiente di per sé a identificare la funzione del denaro che la rappresenta. Il problema di quell’ambiguità è tutto qui. Se il denaro è capitale il cosiddetto “risparmio” altro non è che l’appropriazione di plusvalore (pluslavoro altrui) da parte dei capitalisti per concentrare elementi di accumulazione. È forma di raccolta di capitale da investire. È capitale. Se il denaro è reddito il medesimo supponente “risparmio” non è. Si tratta unicamente di consumo differito; cioè, rientra direttamente nella rubrica del consumo, con una particolare dimensione temporale. E se precipuamente è consumo di reddito salariale, diventa solo salario [<=] non consumato: sottrazione di salario, il cui consumo differito in un eventuale futuro è quanto mai aleatorio. Per tali ragioni è assurda la frase fatta che fa derivare il capitale dal risparmio dei capitalisti, perché ciò che lo speculatore pretende è proprio che altri risparmino per lui.

In questa preordinata confusione teorica e politica rientra a pieno titolo la forsennata teoria keynesiana del risparmio [dell’occupazione, dell’interesse e della moneta – lui dice per completare], che così voluttuosamente seduce affascinati economisti politici “disinistra”. Per lord Keynes – da buon neopositivista logico – il risparmio viene tautologicamente definito come “l’eccedenza di reddito rispetto al consumo”. E se la categoria complementarmente specifica è, con parziale correttezza si può dire, il consumo, quella generica di riferimento è appunto il “reddito”: laddove si vede prontamente che il problema del “capitale” è esorcizzato. In generale tutta l’economia borghese descrive il processo economico come circolazione [<=] e distribuzione di reddito, finalizzato al consumo mediante scambi di valori uguali, già cristallizzati in termini di moneta pura e semplice; il processo di produzione finalizzato all’accumulazione di capitale, sotto forma di denaro che in esso si è trasformato grazie allo scambio, sì uguale, ma autovalorizzantesi attraverso il lavoro vivo, è ignorato. E dunque anche la questione del “risparmio” rimane distorta. Tuttavia, da Walras (che fu il primo) a Keynes, tutti gli “economisti illuminati” rimasero sconvolti dal timore che anche un soldo non consumato potesse non trasformarsi in capitale. Così, mentre il primo dette la prescrizione che il risparmio si trasmutasse in investimento, a maggior gloria dell’equilibrio dell’accumulazione di capitale, il secondo, a motivo del suo empiriocriticismo, fornì solo la descrizione di codesta sospirata uguaglianza, la cui eventuale mancanza avrebbe provocato una “crisi” [<=]: per evitare la quale, la deontologia del risparmio si abbia a rappresentare come l’ontologia del capitale; e, per cercare di evitare la quale, la sottrazione capziosa di salario tramite il suo improbabile differimento avvenga per l’interposta “mano visibile” dello “stato sociale” [<=] del capitale.

Per sancire istituzionalmente siffatta confusione il capitale si avvale infatti della leva dello stato, innalzando il “risparmio” a virtù della nazione [<=]: una virtù che produce plusvalore. Ecco allora che ogni emissione di titoli pubblici nasconde sempre l’imbroglio della cattura di quelle briciole di salario che i prudenti lavoratori non riescano a consumare sùbito. Tale cattura dei pesci piccoli – altrimenti detti “mano debole” o, volgarmente, “parco buoi” – fu trionfalmente celebrata in Francia da Napoleone III. Sperimentata la truffa col prestito per la costruzione del canale di Suez, l’ing. Lesseps col concorso del novello Bonaparte sviluppò la truffa nell’impresa del canale di Panama che si trasformò, per i libri di storia, in “scandalo” [Engels ebbe infatti modo di indicare quel caso come esemplare, commentando così le premonitrici analisi di Marx]. Il sistema del debito pubblico [<=], ossia ciò che Marx, si sa, chiamò “l’alienazione ai privati dello stato” – dispotico, costituzionale o repubblicano che sia – è il sistema del “credito” pubblico, cioè dei debiti dello stato, che imprime il suo marchio all’era capitalistica che vuol confondere “pubblico” con “stato”. L’unica parte della cosiddetta “ricchezza nazionale” che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è dunque proprio il loro ... debito pubblico: giacché dove c’è un debito, dall’altra parte c’è un credito.

Il “credito pubblico” diventa perciò il credo del capitale, che – “magicamente” – conferisce al denaro, di per sé improduttivo, la capacità di procreare, trasformandolo in capitale, ormai anche e soprattutto, attraverso il debito estero [<=], in un sistema di credito internazionale. Sempre pregnante è ripetere con Marx che “col sorgere dell’indebitamento dello stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico”. Di qui, quando troppo la speculazione [<=] tira la corda del furto del “risparmio” altrui, per lo stato si affaccia il “rischio” di insolvenza rispetto al “pubblico” dei creditori, di consolidamento del debito, di crisi fiscale e bancarotta. Poiché il debito pubblico ha il suo sostegno nelle entrate dello stato che debbono coprire i pagamenti annui di interessi, il sistema fiscale moderno ne è diventato l’integrazione necessaria. Il fiscalismo [<=] moderno, il cui perno è costituito dalle imposte sui mezzi di sussistenza e di consumo di prima necessità (quindi dal rincaro di questi), porta perciò in se stesso il germe della crescita automatica. Dunque, il sovraccarico di imposte non è un incidente, ma è anzi il principio del capitalismo finanziario [<=] nell’epoca dell’imperialismo [<=]: non si elimina il primo se non si abbatte il secondo, questo senza quello è impensabile, è un desiderio tanto pio quanto sciocco.

La conoscenza scientifica dell’operare del denaro come capitale – nel processo di appropriazione della ricchezza altrui, che esso ideologicamente fa chiamare “risparmio”, e che fa incanalare verso di sé in piccoli rivoli dispersi, attraverso il “credito pubblico”, il sistema di borsa [<=] e la bancocrazia moderna – potrebbe essere di grande ausilio per tutte quelle scelte politiche che riguardano l’appropriazione indebita di quote di salario differito: dalle pensioni ai fondi di liquidazione, dai titoli pubblici ai fondi patrimoniali. La lotta sulla relativa politica fiscale e contributiva – per non scadere in appelli demagogici, tanto facili quanto privi di senso – potrebbe trarre non poco giovamento da tale conoscenza. [Si ringrazia il dr. Karl Marx per il copioso materiale fornito e per le chiare parole suggerite].

[gf.p.]

 

 

Rivolta

(popolo, terrore e “civiltà”)

Gli inglesi hanno appena concluso una guerra in Asia, e ne stanno già cominciando un’altra. La resistenza offerta dai persiani,e quella che i cinesi hanno finora opposto all’invasione britannica, esprimono un contrasto che merita attenzione. In Persia, il sistema europeo di organizzazione militare si è innestato sulla barbarie asiatica; in Cina, la putrida semicivilizzazione del più vecchio stato del mondo si scontra con gli europei e le loro risorse.

Mentre la sconfitta della Persia è servita da esempio, la Cina, sconvolta e mezza dissolta, ha messo su un sistema di resistenza che, se portato avanti, renderà impossibile il ripetersi delle marce trionfali della prima guerra anglo-cinese. Le truppe che hanno conquistato la Persia sono ora state mandate in Cina. Senza alcun riguardo per le tattiche europee, l’irregolare dispiegamento delle masse asiatiche vi si oppone; che avverrà se i cinesi muoveranno una guerra nazionale e popolare, se i “barbari” non avranno scrupolo di servirsi delle sole armi di cui conoscano a fondo l’impiego?

Oggi, fra i cinesi, regna manifestamente uno stato d’animo ben diverso da quello della guerra 1840-42. Allora il popolo non si mosse: lasciò che i soldati imperiali lottassero contro gli invasori e dopo ogni sconfitta si inchinarono con fatalismo orientale alla volontà superiore del nemico. Ora invece, almeno nei distretti del sud ai quali il conflitto è rimasto finora limitato, le masse popolari partecipano attivamente, quasi con fanatismo, alla lotta contro lo straniero.

Con fredda premeditazione, esse avvelenano in blocco il pane della colonia europea di Hongkong. [Liebig poté stabilire in alcune pagnotte, che gli erano state mandate in esame, la presenza diffusa e uniforme di grandi quantità di arsenico: segno indubbio che il veleno era già stato lavorato nella pasta. Ma la dose era così potente che agì come emetico, annullandone gli effetti mortali]. I cinesi salgono armati sulle navi mercantili, e durante il viaggio massacrano la ciurma e i passeggeri europei. Si impadroniscono dei vascelli. Rapiscono e uccidono qualunque straniero capiti vivo nelle loro grinfie.

Perfino i coolies a bordo delle navi-trasporto degli emigranti si ammutinano come per un’intesa segreta; lottano per impossessarsi degli scafi; piuttosto che arrendersi, colano a picco con essi o muoiono nelle loro fiamme. Anche i coloni cinesi all’estero – finora i sudditi più umili e remissivi – cospirano e, come a Sarawak, insorgono in brusche rivolte o, come a Singapore, son tenuti in scacco solo da un rigido controllo poliziesco e dalla forza. A questa rivolta generale contro lo straniero ha portato la brigantesca politica del governo di Londra, che le ha imposto il suggello di una guerra di sterminio.

Che cosa può fare un esercito, contro un popolo che ricorre a questi mezzi di lotta? Dove, fino a che punto, deve spingersi in territorio nemico? Come può mantenervisi? I trafficanti in civiltà, che sparano a palle infuocate contro città indifese, e aggiungono lo stupro all’assassinio, chiamino pure “barbari”, atroci, codardi, questi metodi; ma che importa, ai cinesi, se sono gli unici efficaci? Gli inglesi, che li considerano barbari, non possono negar loro il diritto di sfruttare i punti di vantaggio della loro barbarie.

Se i rapimenti, le sorprese, i massacri notturni, vanno qualificati di codardia, i trafficanti in civiltà non dimentichino che, come hanno essi stessi dimostrato, i Cinesi non sarebbero mai in grado di resistere, coi mezzi normali della loro condotta di guerra, ai mezzi di distruzione europei.

Insomma, invece di gridare allo scandalo per le crudeltà dei cinesi (come suol fare la cavalleresca stampa britannica), meglio faremmo a riconoscere che si tratta di una guerra pro aris et focis, di una guerra popolare per la sopravvivenza della nazione cinese – con tutti i suoi pregiudizi altezzosi, la sua stupidità, la sua dotta ignoranza, la sua barbarie pedantesca, se volete, ma pur sempre una guerra popolare. E, in una guerra popolare, i mezzi dei quali si serve la nazione insorta non si possono misurare né col metro d’uso corrente nella guerra regolare, né con altri criteri astratti, ma solo col grado di civiltà che il popolo in armi ha raggiunto.

Gli inglesi si trovano, questa volta, in una situazione difficile. Finora non sembra che il fanatismo nazionale cinese si estenda al di là delle province del sud, che non hanno aderito alla grande rivolta [non xenofoba]. Ma la guerra potrà restarvi circoscritta? Se così fosse, non si otterrebbe nulla di concreto, poiché nessun territorio vitale dell’Impero ne sarebbe minacciato.

Senonché il grande pericolo, per gli inglesi, è che il fanatismo si estenda ai popoli della Cina interna. Si può radere al suolo Canton, si possono sbocconcellare interi pezzi di costa: ma tutte le forze che gli Inglesi riescono a mettere insieme non sarebbero mai sufficienti ad occupare e mantenere le due province del Kwangtung e del Kwangsi. Che cosa, dunque, possono fare di più?

La zona a nord di Canton fino a Shanghai e Nanchino è nelle mani dei ribelli, e sarebbe cattiva politica aizzarli; a nord di Nanchino, il solo punto che varrebbe la pena di attaccare per un successo decisivo è Pechino. Ma dov’è l’esercito in grado di stabilire sulla costa una base di operazioni fortificata e ben protetta, di superare tutti gli ostacoli nell’avanzata verso l’interno, di lasciare distaccamenti a protezione delle strade fra il retroterra e il litorale, e di apparire in forze che incutano un certo timore davanti alle mura di una città grande come Londra, distante cento miglia dal luogo di sbarco?

D’altro lato, una dimostrazione militare riuscita contro la capitale scuoterebbe le stesse basi di esistenza dell’Impero, affretterebbe la caduta della dinastia mancese, aprirebbe la strada all’avanzata non dei britannici, ma dei russi.

[k.m.]

(da Persia-Cina, in NY daily tribune, 1857)

 

 

Rivoluzione

(condizioni oggettive)

Questo termine, forse più d’ogni altro, è caduto sotto il maglio di un uso appositamente inflazionato, che ne stravolgesse la concettualizzazione cui doveva riferirsi. Indicato come progetto di lotta delle masse contro l’arbitrio e l’oppressione di chi detiene il potere, ha subìto oltre alla repressione della sua fattibilità nell’ambito dell’azione storica, lo smembramento conoscitivo nella formazione della coscienza [<=]. Divenuto quindi preda ideologica e oggi materiale pubblicitario adeguato ai fini del capitale – che ne ha cancellato ogni contenuto riferito alle condizioni storiche in cui trovava determinazione – il termine “rivoluzione” [<=] va ripensato, e ridefinita una sua possibilità di percorso reale lontano da nostalgie, passionalità o entusiasmi vòlti a una facile gratificazione di identità da “salvare”. L’identità rivoluzionaria da costruire è, al contrario, infinitamente più complessa se deve riunificare esperienze passate nella razionalità di una prospettiva reale per ora fortemente opacizzata. Considerata la “rivoluzione” da sempre peculiarità dell’apporto soggettivo nella trasformazione storica, sembra indispensabile riflettere anche sull’aspetto, sicuramente finora troppo trascurato, della sua necessità oggettiva nelle forme della transizione. Per consentire una comprensione rapida su quanto si vuole richiamare all’attenzione, sintetizziamo l’analisi marxiana nel Capitale [III.20], relativa alla transizione dal feudalesimo al capitalismo.

Marx parla di “rivoluzioni profonde” nei sec. XVI e XVII relativamente alle articolazioni di attuazione del “commercio in seguito alle scoperte geografiche ... accelerando il passaggio dal modo feudale di produzione a quello capitalistico”. Queste articolazioni furono: “l’improvvisa espansione del mercato mondiale, la molteplicità delle merci in circolazione, la rivalità fra le nazioni europee ..., il sistema coloniale”, cioè forme nuove in cui confluivano, trasformandosi, le tradizionali attività del modo di produzione feudale. “Il cammino effettivamente rivoluzionario” del passaggio a un altro modo di produzione (che diverrà poi quello capitalistico), Marx lo individua nella metamorfosi del “produttore [in] commerciante e capitalista, [che] si oppone all’economia agricola naturale e al lavoro manuale stretto in corporazioni della industria medievale urbana”. La “rivoluzione”, nelle sue condizioni oggettive, pertanto, è quella in cui vengono dissolti “gli antichi rapporti” sociali, sostituiti da quelli in grado di sottomettere la produzione. È “l’industria che rivoluziona continuamente il commercio”. Come si può osservare, l’elemento rivoluzionario qui non ha niente a che fare con fattori soggettivi di consapevolezza storica di atti, unicamente vòlti al compimento dei propri fini intrinseci (lucro, estensione del controllo delle fonti di arricchimento, prestigio, dominio, ecc.), la cui tendenzialità non riguarda chi li realizza. E nemmeno con fattori soggettivi di coscienza sociale, culturalmente, politicamente o ideologicamente intesa.

Questa, infatti, sembrerebbe dover sorgere da e su questo mutamento di rapporti materiali (ma non necessariamente interna), senza i quali è indimostrabile se la sua costruzione sarebbe stata possibile. In altre parole, la “rivoluzione” sembra essere il compimento necessario di attività svolte in una continuità, il cui sbocco assume un carattere di frattura e negazione di ciò che improvvisamente si presenta come “passato” da eliminare; comporta cioè una trasformazione qualitativa di quelle stesse attività, che assumono un ruolo, un’importanza e una funzione sociale diversificata, ad apertura di un’organizzazione produttiva complessivamente più ampia ed estensibile, sottomessa alla strutturazione dei nuovi obiettivi. L’“accelerazione” di tale processo consisterebbe nello “spezzare i limiti feudali della produzione”, ovvero nell’eliminare la minaccia di conclusione definitiva di quelle stesse attività, qualora fossero rimaste entro l’angustia di quei confini (rendite, interessi, leggi, ecc.) divenuti soffocanti. Esistono altre forme di trasformazione – nell’analisi marxiana – compresenti a quella rivoluzionaria, e che sono conservate e salvaguardate dallo stesso sistema da cui sorgono. Solo quei mutamenti che tendono a rompere le relazionalità nate in precedenza sono rivoluzionari, e la coscienza di ciò non può che apparire a processo avvenuto, non prima.

[c.f.]

 

 

Salario diretto

(busta paga)

Che il salario, in quanto “forma” mutata (e occultatrice) del valore della forza-lavoro [<=], sia da considerare come elemento globale di classe, ossia come salario sociale [<=], anziché come grandezza individuale, pur essendo questione della massima importanza non è sufficientemente compresa. Nondimeno, è necessario inserire in quel preciso contesto sociale la considerazione di quella parte di esso che più immediatamente corrisponde alla retribuzione individuale (la busta-paga) del lavoro dipendente, in quanto salario diretto. Si può delineare, in via di massima, secondo la forma più tipica del contratto di lavoro [<=], quello collettivo nazionale (ccnl) finora vigente in Italia, qual è la composizione caratteristica del salario diretto, individuando quattro componenti principali della retribuzione: base, anzianità, produttività, merito.

La retribuzione di base è l’elemento direttamente collegato alla riproduzione del valore di scambio e del valore d’uso della forza-lavoro. È costituito da tre quote: i. quota professionale, ossia la parte di salario che paga il costo di riproduzione della forza-lavoro secondo il suo particolare valore d’uso; è rappresentata nel contratto dal minimo tabellare per ciascun livello categoriale; ii. quota di mantenimento, ossia la parte di salario che mantiene o integra la retribuzione base, tenendo conto di eventi sociali come l’aumento delle necessità o del costo della vita; è (o era) rappresentata nel contratto dalla scala mobile, il terzo elemento; iii. indennità di mantenimento, ossia la parte di salario che copre le spese della forza-lavoro per recarsi e mantenersi sul posto di lavoro; è rappresentata nel contratto dall’indennità di trasferta, dai servizi o dalle indennità sostitutive per la mensa, il trasporto, il vestiario, ecc..

La retribuzione di anzianità è l’elemento che collega automaticamente il livello di stipendio e una quota di salario differito agli anni di lavoro nella stessa azienda; è stato finora rappresentato nel ccnl dalla somma di scatti di anzianità (5% della retribuzione base o di una sua parte) e dal trattamento di fine rapporto (tfr).

La retribuzione di produttività è l’elemento che recupera salario dagli incrementi di produttività nelle seguenti due forme: a riparto, come forma che utilizza parte di aumento di produttività per migliorare le condizioni di tutti i lavoratori; è rappresentata, nel contratto tipo, da premi in cifra fissa, riduzione di orario di lavoro (rol), ecc.; a cottimo o incentivo, come forma che si basa su un aumento individuale che dovrebbe pagare il contributo dato dai lavoratori all’aumento del rendimento economico del capitale; è rappresentata nel contratto da premi su obiettivo, paga di cottimo, straordinario, ecc.

La retribuzione di merito è l’elemento pagato discrezionalmente dal padrone al singolo lavoratore; nel contratto è rappresentato dagli assegni individuali, dai superminimi, dai benefit, ecc..

Assieme a questa composizione della retribuzione, nella prassi rivendicativa della classe lavoratrice italiana, si è formata e ha operato una struttura contrattuale del salario diretto particolarmente forte e stabile, basata sui seguenti tre livelli:

1. Contrattazione generale dei meccanismi di difesa del potere d’acquisto del salario. Con la lotta e la contrattazione generale, i sindacati di classe (confederali) avevano costruito un meccanismo di difesa del potere di acquisto dei salari regolato dai seguenti accordi interconfederali: del 6.12.1945, 23.5.1946, 27.10.1946, per l’istituzione della scala mobile; del 21.3.1951, per la definizione dell’indice nazionale del costo della vita e del relativo punto di contingenza; del 15.1.1957, 29.7.1963, 18.3.1969, per l’adeguamento del valore del “punto” agli aumenti retributivi; del 25.1.1975, per l’istituzione del punto unico di contingenza, il conglobamento della contingenza pregressa, e la ridefinizione della base indice del costo della vita e della scala mobile.

2. Contrattazione nazionale della composizione e degli elementi della retribuzione. Con la lotta e la contrattazione nazionale, i sindacati di categoria hanno imposto, nel ‘69-70, la durata e il rinnovo biennale del contratto nazionale; hanno costruito e mantenuto (fino al luglio ‘93) un sistema retributivo stabile, composto dei quattro elementi di retribuzione descritti; hanno generalmente migliorato gli elementi citati (almeno fino al contratto ‘76).

3. Contrattazione articolata degli elementi che compongono la retribuzione. Con la lotta e la contrattazione articolata, i sindacati di fabbrica hanno affermato il diritto di attività sindacale all’interno del luogo di lavoro; hanno affermato il diritto di contrattare in ogni momento le condizioni di lavoro e salariali dei gruppi omogenei o dei reparti; hanno imposto nel ‘70 la durata e il rinnovo annuale del contratto aziendale.

La forza e la stabilità di questa struttura derivava dal fatto che il primo livello (contrattazione generale) irrigidisce verso il basso il salario reale, garantisce cioè a tutta la classe un recupero non completo, ma consistente, del salario eroso dai padroni con l’inflazione e, in questo modo, costituisce una solida base salariale per gli altri livelli della struttura contrattuale; il terzo livello (contrattazione articolata), sviluppando l’azione sindacale dal gruppo omogeneo all’azienda, completa il recupero di salario reale, lo aumenta con miglioramenti retributivi aziendali e, in questo modo prepara l’azione di secondo livello; infatti questo secondo livello (contrattazione categoriale), generalizza il recupero e l’aumento del salario reale, allineando il contratto nazionale ai miglioramenti aziendali.

Si era formata così una struttura contrattuale di classe capace di allargare notevolmente e migliorare l’elemento salariale storico-sociale, realizzando le seguenti relazioni:

- maggior produzione = miglioramento della regolazione del mercato del lavoro e della struttura del salario sociale globale di classe;

- maggior produttività = aumento del salario sociale globale di classe.

Questa struttura contrattuale è stata attaccata dalla classe dei capitalisti. La riduzione del salario sociale è la più immediata influenza antagonistica alla svalorizzazione del capitale. Dunque la classe dei capitalisti lo attacca, disgregando la struttura contrattuale esistente e liberalizzando il lavoro e il suo “prezzo”. Così, le relazioni sopra stabilite sono rovesciate nel loro opposto, affermando:

- liberalizzazione del lavoro (ovverosia disoccupazione, precarizzazione, decomposizione della struttura del salario sociale) = sostegno della produzione;

- liberalizzazione del prezzo (ovverosia completa libertà di riduzione del salario sociale) = sostegno della produttività.

Dall’inizio della lunga ultima crisi [<=] irrisolta, le necessità della ricapitalizzazione hanno portato il capitale a mettere in atto le influenze antagonistiche alla caduta del saggio del profitto puntando, nell’àmbito dell’attacco generale al salario sociale globale di classe, alla riduzione del monte delle retribuzioni dirette. Ciò è stato perseguito attraverso due linee: da un lato, la riduzione dell’occupazione, realizzata con la riduzione del numero dei dipendenti attraverso l’aumento della produttività, la gestione delle eccedenze occupazionali tramite la mobilità, la cassa integrazione, i prepensionamenti, e con la precarizzazione dei rapporti di lavoro e delle prestazioni, che si traducono poi in precarietà anche delle condizioni di reddito; dall’altro, la riduzione della “paga” con l’eliminazione della scala mobile e di ogni altra forma di indicizzazione delle retribuzioni, il blocco della restituzione del “drenaggio fiscale” (fiscal drag), l’attacco alle forme stesse di determinazione del salario per via contrattuale e di legge, l’introduzione del salario di produttività e per obiettivo, l’eliminazione dei sistemi classificatori a “inquadramento unico”, l’introduzione del salario di mansione, l’introduzione del salario d’ingresso, di formazione lavoro, delle gabbie salariali per area geografica, ecc. (fino all’intenzione di “farla finita” con il ccnl). I lavoratori vengono precarizzati, resi disponibili e sottomessi alle flessibilità [<=] proprie dei nuovi modelli organizzativi, e quando ciò non avviene mostrano drammaticamente ciò che sono: manodopera eccedente da espellere. Il numero di questi lavoratori “obsoleti” cresce così tanto che lo stato, per pagare alle imprese il sostegno, previsto dalla legislazione, alla sospensione del lavoro e alla ricollocazione, dovrebbe aumentare le entrate contributive attraverso un rilevante incremento di costo del salario tassato.

La strategia della deregolamentazione per eliminare ogni vincolo alla libertà d’impresa (quindi anche alla libertà di licenziare) crea una maggioranza di disoccupati e precari (esercito industriale di riserva [<=]) disponibile a ridurre il salario, la sicurezza, i diritti e la democrazia nei luoghi di lavoro. Per questo i capitalisti intendono affermare nei contratti di lavoro (finché non saranno aboliti!) i princìpi di variabilità occupazionale e flessibilità professionale, eliminando quelli attuali di garanzia e stabilità: il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la posizione professionale non dequalificabile e il relativo livello categoriale non devono più essere diritti automaticamente derivati dall’assunzione. Rapporto di lavoro, prestazione professionale e livello categoriale devono cambiare casualmente secondo le mutevoli condizioni dell’impresa e del mercato: quindi allargamento dei contratti di formazione lavoro, legalizzando il lavoro interinale e favorendo assunzioni a termine, a salario ridotto e sostenute con sgravi fiscali e previdenziali. Con l’assenso sindacale il “nuovo” sistema retributivo prevede il predominio del salario a incentivo e di merito, come compenso della capacità dei “produttori” di aumentare il rendimento del capitale: siamo al ritorno della forma del cottimo [<=]. Il capitale promuove e sostiene nei sindacati la strategia neocorporativa [<=] della sottomissione alla ricapitalizzazione. È così che viene attaccato il salario diretto con la sua destrutturazione per la riduzione o la distruzione dei suoi elementi, e con la completa subordinazione dei sindacati alle confederazioni già dominate dalla strategia neocorporativa. “Il successo giapponese – sostiene Taiichi Ohno – sta nel pieno controllo dell’impresa sul sindacato”.

[a.v.]

 

 

Salario minimo

(valore della forza-lavoro)

I costi di produzione del lavoro ammontano ai costi di esistenza e di riproduzione del lavoratore. Il prezzo di questi costi di esistenza e di riproduzione costituisce il salario. Il salario così determinato si chiama salario minimo. Questo salario minimo, come, in generale, la determinazione del prezzo delle merci secondo i costi di produzione, vale non per il singolo individuo, ma per la specie. Singoli lavoratori, milioni di lavoratori, non ricevono abbastanza per vivere e riprodursi; ma il salario dell’intera classe lavoratrice, entro i limiti delle sue oscillazioni, è uguale a questo minimo. Gli economisti classici consideravano perciò questo “minimo” di salario come il “prezzo naturale” del lavoro: ovverosia, esattamente ciò che è necessario per far produrre gli oggetti indispensabili al sostentamento dei lavoratori, per metterli in condizioni di nutrirsi, bene o male, e di propagare alla meglio la propria classe.

Il salario, al suo livello minimo sociale, dunque, è storicamente determinato come prezzo dei mezzi di sussistenza necessari, per l’esistenza e la riproduzione dell’intera classe proletaria, ossia come salario sociale [<=]. Come Marx ebbe sempre modo di precisare, in quei costi necessari per l’esistenza e la riproduzione rientrano anche i prezzi (o le tariffe, le imposte, le tasse, ecc.) pagati per ottenere tutte le merci (oggetti e servizi) avute in cambio del salario nominale. Non sono solo, quindi, i costi di quelle merci che servono al lavoratore singolo che percepisce il salario diretto [<=] nella busta-paga, ma i costi sostenuti per tutte le persone, vecchie e giovani, abili o inabili al lavoro, che dipendono per la loro esistenza da quella “minima” fonte di reddito. La definizione di salario come entità sociale, reale e relativa, “minima” (nel senso storico chiarito), è quella che si palesa in generale nel comando del capitale sul lavoro. Se non crediamo per questo che i lavoratori avranno solo un tale minimo di salario, tanto meno crediamo che essi avranno sempre questo minimo. Durante un certo arco di tempo, che è sempre periodico, in cui l’economia attraversa il ciclo di prosperità, sovraproduzione, ristagno, crisi, se prendiamo la media di ciò che i lavoratori ricevono in più o in meno del minimo, troviamo che nell’insieme, giacché quel minimo vale per l’intera classe e non per il singolo, essi non hanno ricevuto né più né meno che il minimo; o, in altre parole, che il proletariato si è conservato come classe.

Con lo sviluppo della crisi [<=] tale processo assume sempre più evidenza mondiale, fino al punto che l’espulsione dal mercato del lavoro per molti diviene definitiva. E non si tratta certo di una novità odierna. Non solo, ma per i rimanenti, più o meno occupati, regolarmente o irregolarmente, a fronte di più lavoro corrisponde sempre meno salario. Ogni lavoratore è spinto, osservò Marx, a fare “concorrenza a se stesso in quanto membro della classe operaia”. E una concorrenza tra lavoratori salariati entro la classe [<=] diventa letale se, soprattutto in fasi di crisi, un minimo di salario venga fissato (magari per legge) al di sotto del valore della forza-lavoro, la qual cosa accade assai spesso negli interventi di tipo assistenzialistico. Per questi motivi la determinazione del minimo del salario (come “prezzo naturale” del lavoro) fa sì, come asseriva Smith, che esso sia più basso per il salariato libero che per lo schiavo; e accade che nella produzione capitalistica completamente sviluppata l’accumulazione possa operare rapidamente sulla domanda di lavoro solo se prima dell’accumulazione si è avuto un grande aumento del proletariato (soprattutto attraverso la riproduzione dell’esercito industriale di riserva [<=] in tutte le sue forme), se quindi il salario è a un livello molto basso dimodoché anche un suo aumento lo lasci basso.

Insomma, per una corretta definizione del “salario minimo” occorre che anche tale concetto sia coerentemente basato sulla teoria del valore e del plusvalore: a ciò si riduce l’intera questione. Non serve che il proletariato si dia la pena di definire un livello minimo del salario, giacché esso è dato, sia nella pratica sia nella formulazione scientifica, dal rapporto di valore del capitale. Anzi, ogni volta che il proletariato si provi a dire la sua sul tema – posta la vigenza e dominanza del modo di produzione capitalistico – ottiene l’effetto contrario, autolesionistico, di contribuire a deprimere ancor più il salario normale al di sotto di quel minimo, per effetto della concorrenza che il minimo legale ha sul livello salariale normale degli occupati (la storia ultrasecolare di codesto fenomeno, ossia delle diverse forme di salario minimo garantito [<=] dovrebbe insegnarlo con abbondanza di argomenti).

Infatti, se in base alla generale teoria marxiana del valore e del plusvalore si intende, come ha da essere, il salario (sociale) in quanto valore globale della forza-lavoro, esso appare anzitutto come capitale variabile per il complessivo processo di autovalorizzazione del capitale anticipato: è il pluslavoro che produce (o riproduce conservandolo nella circolazione) il plusvalore [<=]. Stando così le cose, e la loro rappresentazione scientificamente esatta, qualsiasi “reddito” dei lavoratori non può che provenire dalla capacità di incidere sul plusvalore, positivamente (lavoro produttivo) o negativamente (lavoro improduttivo). Ossia la fonte di quel reddito salariale è rintracciabile solo o nell’ammontare del valore globale prodotto (uso della forza-lavoro) o nell’adeguamento del valore di scambio della forza-lavoro, e in nient’altro: il capitale non regala niente. Se i mezzi di sussistenza (sotto qualunque forma e a qualsiasi titolo ottenuti: per contratto, per legge o per assistenza) non fossero “capitale” non manterrebbero la forza-lavoro dei lavoratori salariati; mentre è proprio il loro carattere di capitale – e non di reddito – che dà a essi precisamente la proprietà di mantenere il capitale stesso per mezzo di lavoro altrui. La massa dei mezzi di sussistenza che i lavoratori riescono a sottrarre al mercato [<=] dipende perciò dal rapporto tra il plusvalore e il “prezzo del lavoro” (ovverosia, il valore della forza-lavoro [<=]), e tra questo capitale variabile e quello costante: non si tratta cioè, originariamente, di reddito. Il salario è prima capitale, che solo dopo lo scambio si trasforma in reddito per i lavoratori, così come la loro forza-lavoro è prima merce di loro proprietà che solo dopo lo scambio, con il suo uso, si trasforma in capitale autovalorizzantesi.

Dalla corretta definizione data di “salario minimo”, dunque, si possono capire meglio alcune cose.

i. Ogni conquista in termini di elevamento del livello salariale dipende dalla capacità storica, o anche contingente e perciò assai provvisoria, del proletariato di imporre con la forza della lotta un aumento di valore della propria complessiva forza-lavoro.

ii. Se si ha una tale forza non si vede per quale ragione essa non debba essere esercitata per ottenere, globalmente per la classe, la corresponsione piena del salario normale degli occupati e l’allargamento della stessa occupazione, anziché disperdere quella (poca) forza per elemosinare un’assistenza minimale, controproducente perché necessariamente inferiore al valore normale della forza-lavoro.

iii. L’idea che il salario sia un reddito tout court, senza che se ne sia prima compresa la sua essenza di capitale metamorfosato, ne fa presumere una sua variabilità arbitraria, giacché così facendo lo si considera smithianamente quale addendo indipendente per il computo del prodotto netto complessivo; ossia, lo si stima come grandezza monetaria assolutamente svincolata dalla produzione di valore, la quale dipende invece dalle sue parti costitutive di capitale variabile (appunto, e non immediatamente salario), pluslavoro altrui non pagato e capitale costante.

iv. Una siffatta teoria del salario come reddito può albergare solo nel campo delle analisi economiche borghesi, marginalistiche vecchie e nuove, pure e spurie (keynesismo e sraffismo inclusi, perciò), quali ultime estensioni esoteriche di una concezione del reddito senza valore, volgarizzata a partire dall’erronea sommatoria smithiana; e si tratta pertanto di una teoria che svincola il “reddito” salariale dalla forza-lavoro come merce (dal suo valore) e perfino dal lavoro medesimo, pretendendo così di esautorare dalla scena tutta l’analisi di classe e di lotta di classe [<=], che viceversa la teoria del salario richiede, sostituendola facilmente con l’indifferenza comune della “cittadinanza”.

v. Risulta ora chiaro dai punti che precedono le ragioni per le quali Marx – tenendo fermo alla teoria di valore, plusvalore e capitale e alla teoria delle classi – non abbia mai trattato della questione del “salario minimo”; se non, da un lato, come corretta definizione di valore storico normale della forza-lavoro, data direttamente dalle leggi del capitale, senza bisogno di aggiungere altro; e, dall’altro, solo per rispondere di sfuggita alla vasta e dispersiva mole di interventi sul tema, tutti non per caso provenienti dai circoli utopistici e filantropici, cristiani e caritatevoli, del socialismo e della borghesia, piccola e media, illuminata, tutti sentimentalisticamente protesi a un salario minimo garantito.

Dunque, conclude Marx stesso, questa legge della forza-lavoro come merce, cioè la legge del “minimo del salario”, si verifica sempre più a misura che il presupposto degli economisti, il libero scambio, sia divenuto una realtà, un’attualità. Così, delle due possibilità l’una: o è necessario rinnegare tutta l’economia politica basata sul presupposto del libero scambio, il mitico “mercato” oggi invocato anche per la piena flessibilità [<=] di lavoro e salario, ovvero bisogna convenire che in regime di libero scambio sul mercato capitalistico i lavoratori saranno colpiti da tutto il rigore delle leggi economiche. “E se i signori borghesi e i loro economisti, nei loro momenti di filantropia, sono così delicati da calcolare nel minimo salariale, cioè dell’esistenza, un po’ di the o di rhum o di zucchero e un po’ di carne, è evidente che deve sembrar loro al contrario scandaloso e incomprensibile che i lavoratori prelevino da questo minimo una parte delle spese per la loro guerra contro la borghesia e che essi si aspettino dalla loro attività rivoluzionaria la più grande soddisfazione della loro vita”.

[gf.p.]

 

 

Salario minimo garantito

(reddito di cittadinanza)

Il carattere “sociale” e “minimo” del salario non deve assolutamente essere frainteso. Vi sono difatti molti, oggigiorno, che sull’onda delle mode riproduttive e fuori mercato, intendono con codesto tipo di dizioni forme spurie di salario o reddito garantito dallo stato o da altre istituzioni pubbliche, mediante prestazioni più o meno accessorie fornite a lavoratori e disoccupati, donne e giovani, cittadini e utenti. Una tal commistione di categorie, e meglio anzi sarebbe dire una tale lista di attributi tra loro incongruenti, conduce a un pasticcio di rapporti di forza [<=], di lotta e di diritti, di assistenzialismo e di elemosina (quel tipo di confusione concettuale “inetta e barbarica” sulla quale Hegel ironizzava chiamandola “un ferro di legno”).  L’essere sociale e minimo [<=] del salario è invece unicamente conseguenza dell’essere merce della forza-lavoro [<=] entro il rapporto di capitale posto da questo modo della produzione sociale. Non vi è spazio né teorico né storico, perciò, per confondere il carattere sociale del salario con sole sue parti o con differenti forme assistenziali cui le istituzioni borghesi saltuariamente provvedono per concessioni parziali, né il suo livello minimo con analoghe forme assistenziali o contrattuali che dànno veste legale all’ipocrita solidarietà della filantropia borghese.

Numerosissime sono le argomentazioni che consentono di chiarire questo equivoco, annoso ma sempre più invasivo nell’epoca della putrescenza del corpo imperialistico del capitale. Anzitutto, al relativo disinteresse di Marx per la questione della fissazione, legale o contrattuale, di un minimo salariale (al contrario, a es, dalla riduzione di orario nell’uso della forza-lavoro), che non fosse quello esattamente stabilito dalla legge del valore della forza-lavoro stessa, la quale già definisce il salario minimo [<=], fa riscontro, sul piano teoretico, l’indicazione delle principali fonti di siffatta tematica. Da tali fonti si capisce in quale assurdità filantropica e utopica, se non addirittura ipocrita e interessata, dell’ideologia borghese, piccola e media o illuminata, laica o cristiana, consistesse la rivendicazione di un “salario minimo” garantito. Anche codesta trovata è perlopiù di provenienza francese; ieri, come oggi, è facile rintracciarla nelle varie apparizioni del proudhonismo vecchio e nuovo imperversante. Nondimeno essa, grazie alla precocità del capitalismo inglese, la si trova corroborata al di là della Manica.

Sicuramente una prima base, che ambirebbe essere “teorica”, per sostenere tale trovata è appunto dovuta a Proudhon stesso. Proudhon, per sottrarsi alla conseguenza fatale del fatto che il minimo del salario è il prezzo “naturale” e normale della forza-lavoro viva, al fine di non accettare lo stato attuale della società fa un voltafaccia e pretende che la forza-lavoro stessa non sia una merce, ossia che non abbia un valore. Dimentica così, e si prova a far dimenticare a chi si metta sulla sua strada, che è la forza-lavoro come merce l’unica fonte immediata del reddito dei lavoratori. E sulla sua strada ci si sono messi in tanti, nel socialismo piccolo borghese di ieri e di oggi come nel filantropismo utopico e mistico della borghesia. Osserva Marx: “Proudhon vuole librarsi come uomo di scienza al di sopra dei borghesi e dei proletari, e non è che il piccolo borghese, al di sotto degli economisti e al di sotto dei socialisti, poiché non ha né sufficienti lumi né sufficiente coraggio, sballottato costantemente tra il capitale e il lavoro, tra l’economia politica e il comunismo”. Se Proudhon fosse finito lì, nei suoi anni di metà ottocento, non ci interesserebbe più di tanto. Senonché le sue metastasi riaffiorano sempre più fitte nei programmi di diverse componenti dell'’“asinistra”, attraverso i vari Keynes o Gorz o Rifkin o Bihr del momento.

Ecco allora che le sue tesi si ritrovano, insieme a un po’ di Saint-Simon e di Comte, presso un oscuro “socialista” belga dei suoi stessi anni (ma non più oscuro di quanto potrà esserlo Gorz tra un secolo!), il barone Jean Hyppolyte de Colins, che si dichiarava “antimaterialista”. Costui, al posto delle classi [<=], infatti, riproponeva il contrasto tra ricchi e poveri, per risolvere il quale escogitava ricette magiche proudhoniane per la distribuzione della terra, per le banche di credito senza interesse a favore del popolo, per l’imposta sulla rendita, e via con l’interclassismo di una società dipinta come una “grande famiglia”. Ma, per quello che qui più interessa, salta fuori la specifica ricetta proudhoniana di un “reddito minimo” (che si sarebbe poi trasformato in piccolo capitale per l’avvio di libere attività professionali) da assicurare come apprendistato ai giovani che avessero svolto lavori pubblici di utilità sociale. Non era una novità neppure allora – gli ateliers nationaux di fourierista memoria erano già stati sepolti, pur nella loro sicura maggior serietà, dati i tempi della storia – ma oggi poi! E che dire allora del coevo tal conte von Ketteler, vescovo di Magonza, per il quale “la questione operaia e il cristianesimo” si coniugavano proprio sul tema dei lavori pubblici capaci di dare assicurazioni sui salari. Ci si potrebbe dilungare assai facilmente sul proliferare di una tale oscura genìa di tanti piccoli alchimisti sociali, pronti a risolvere i problemi dei poveri da assistere, ma non si troverebbe un comunista e tanto meno un marxista (per non dir di Marx), ma solo piccoli disarmati profeti laici o religiosi di stampo borghese.

Per offrire perciò un quadro teorico di riferimento più compiuto e organico conviene trasferire l’osservatorio nel luogo dello sviluppo capitalistico moderno, dove anche il socialismo antimarxista ha trovato un’espressione più analitica: l’Inghilterra. Occorre rifarsi alle “basi” (così le chiamavano) del programma fabiano, radici del moderno laburismo (anche quando esso si è presentato, e si presenta tuttora, a volte, usurpando il nome di “comunismo” – tanto che una simile questione richiederà un chiarimento specifico). Quelle “basi” furono formulate – giusto sùbito dopo la morte di Marx – con un dichiarato intento di eliminare l’influenza marxista nel movimento socialista, tanto sul piano politico quanto su quello scientifico: ovviamente a cominciare dal rigetto della teoria del valore e delle classi. Obiettivo mirato dell’attacco fabiano alla società esistente non era quindi il plusvalore e il suo modo di produzione, bensì – udite, udite! – la “rendita” (nella quale veniva incluso l’interesse, rendita finanziaria si direbbe oggi, ma non il guadagno d’impresa) in chiave eminentemente di redistribuzione del reddito; lo strumento principale per condurre tale attacco sarebbe stata la sua “tassazione”, fino a far dissolvere il capitalismo per morte propria (“eutanasia?”).

Del resto le “basi” fabiane concepivano esplicitamente il socialismo come punto d’arrivo dell’evoluzione “spontanea” del capitalismo, il suo compimento, da assecondare non con la lotta di classe [<=] ma con la “democrazia sociale” [<=] e la “democrazia industriale”, con la propaganda e l’efficienza amministrativa gerarchica affidata al “governo dei tecnici” (o “governabilità” [<=], si direbbe preferibilmente oggi). Non deve stupire, allora, che le fonti teoriche di questo “socialismo” siano, oltre alla ricordata rendita ricardiana, l’utilitarismo di Bentham, l’economia di Jevons e Stuart Mill, il falso evoluzionismo darwiniano applicato alla società, e uno storicismo senza rivoluzione. Può stupire semmai l’ingenuità di chi, ancora oggi, beve queste chiacchiere che imbonitori della politica presentano come “comunismo”, magari invocando insieme un incompatibile “ritorno a Marx”.

Non conviene approfondire qui la disamina delle posizioni del socialismo antimarxista, ma basta definire sommariamente il quadro del contesto culturale e della temperie politica in cui anche la “questione del salario minimo” garantito per legge si sviluppò. I giovanotti “lib-lab” [non credano i seguaci postmoderni di Micromega o di Limes che quella etichetta l’abbiano coniata i Flores d’Arcais o i Galli della Loggia, perché così si chiamavano i fabiani un secolo fa] intesero infatti affermare il laburismo nascente dalla cosiddetta “permeazione” fabiana (una prova di “entrismo”) nel partito liberale, facendo leva sul filantropismo umanitario e sui princìpî etici del socialismo cristiano di contro all’allora prevalente anglosassone radicalismo della responsabilità individuale. Diventò in quel periodo una “moda” (soprattutto tra gli universitari, oltre che per i fondatori di “missioni” e di eserciti della salvezza, ecc.) andare nei sobborghi per aiutare i disoccupati e i poveri. “Questi idealisti borghesi – scrive un borghese loro pari come G.D.H.Cole – non pensavano affatto all’instaurazione del socialismo, ma a una riconciliazione tra le classi”, al fine di ripristinare, seguendo un “impulso etico” a sostegno dei “miserabili”, un “livello minimo di vita civile” – secondo la dizione cara all’aristocratica Beatrice Potter in Webb.

Ecco: quello del “salario minimo” (insieme a un non meglio definito “diritto al lavoro”, più consono all’etica protestante della “civiltà del lavoro” che alla marxista conflittualità di classe per l’esistenza, e all’appoggio ormai allora inevitabile alla campagna per le “otto ore”, ma intese più sul versante culturale e morale che non materiale pratico) era il principale slogan lib-lab. G.B.Shaw fu l’antesignano del “divorzio” totale del reddito percepito dalla remunerazione per l’attività svolta (questa è la “novità” gorziana del “reddito di cittadinanza”!), mentre il socialista opportunista Hyndman si limitava a richiedere il reddito garantito come forma di assistenza per i disoccupati impiegati nei lavori pubblici. Essendo la caratteristica di tale forma di “reddito” quella di essere svincolato dall’attività lavorativa e, soprattutto, dalla forma di merce della forza-lavoro (come pure in quella sua forma particolare del “salario alle casalinghe” di cui perfino il papa è giunto a essere fautore), con la bella conseguenza di trasformare così un elemento antitetico e conflittuale del proletariato – l’unico nella sua immediatezza – in un affidamento alla filantropia del capitale e all’assistenzialismo statale, si può già cominciare a capire perché Marx l’avversasse decisamente. Ma conviene ancora procedere con ordine in tema di salario minimo garantito.

Fu il lib-lab Sidney Webb che propugnò per primo sistematicamente l’assistenza pubblica ai disoccupati con la creazione di posti di lavoro a salario minimo garantito (per lavori industriali privati, razionalmente organizzati) e lavori pubblici (ma limitati a manodopera non qualificata, perché ritenuti inefficienti). Insieme a altre proposte di carattere assistenziale quei due punti costituivano il cardine del futuro “welfare state”, come prodromi del cosiddetto “stato sociale” [<=], che oggi i comunisti si ritrovano tra i piedi in tutte le occasioni nel nome di un improbabile “keynesismo-di-sinistra” o di un assurdo “keynesomarxismo”. Finché si trattasse di vederlo come senso di colpa di giovani intellettuali liberali che moralisticamente anelavano a un “livello minimo di civiltà”, facendo appello alla carità pelosa dei loro anziani borghesi, sarebbe anche comprensibile (tuttavia non accettabile); ma dal punto di vista della lotta di classe del proletariato tutto ciò non va al di là di un semplice “acconto”, come diceva Engels, su quanto, assai di più, la borghesia deve ai lavoratori.

L’occasione di codeste proposte webbiane fu offerta dalla battaglia parlamentare per l’abolizione della vecchia “legge sui poveri” del 1834 – per cancellare l’“onta” della definizione di “povero”, fu peraltro la motivazione moralistica addotta dallo stesso Webb (e l’idea ha fatto strada se oggi i poveracci sono eufemisticamente chiamati, in negativo, “non abbienti” e “meno favoriti”!). Quella legge – come si può riscontrare su qualsiasi serio libro di storia dell’industria e del movimento operaio – colpiva duramente gli operai dell’industria con la concorrenza dei disoccupati: “i capitalisti industriali, padroni del parlamento – scrive Dolléans – hanno fatto votare la legge sui poveri per deprimere i salari e procurare manodopera a buon mercato. Il diritto all’assistenza è un’assicurazione contratta dai ricchi: la sicurezza concessa ai poveri garantisce ai ricchi il rispetto della loro proprietà”. Inoltre la borghesia fa la beneficenza – l’infame beneficenza di un borghese cristiano!, esclama Engels – come un affare per comprarsi anche il “diritto” alla propria tranquillità, per “esser preservati da sgradevoli e impudenti molestie” (come scrive una “signora” borghese, della quale Engels sottolinea la mancanza di coraggio di chiamarsi ancora “donna”).

Le leggi sui poveri di un tempo, come tutte le leggi di stampo assistenzialistico fino alle più recenti proposte di “salario minimo o reddito garantito”, rientrano nella più generale legislazione sul lavoro salariato. Marx ricorda che la forma stessa di “statuto” o “carta” dei diritti dei lavoratori quale “pomposo catalogo dei diritti inalienabili dell’uomo”, fin dalla nascita è coniata per lo sfruttamento del lavoratore e gli è sempre ugualmente ostile [il primo statuto dei lavoratori fu promulgato in Inghilterra da Edoardo III (1349)]. Del resto, anche Smith, insospettabile padre del liberismo [<=] borghese, sapeva che “tutte le volte che il legislatore tenta di regolare le differenze fra i padroni e i loro operai, i suoi consiglieri sono sempre i padroni”. Infatti, le leggi sulla regolamentazione dei salari vengono considerate una “anomalia ridicola”, e abolite, non appena i capitalisti siano in grado di regolare l’impresa con la loro “legislazione privata”, facendo integrare con la tassa sui poveri (o con altri marchingegni giuridici: minimo garantito, indennità di disoccupazione, cassa integrazione, fiscalizzazione di oneri sociali, imposta negativa, ecc.) il salario fino al minimo indispensabile, a esclusivo vantaggio dei rapporti di forza padronali. Non è un caso che oggi un liberale conservatore reazionario come Milton Friedman, l’economista ispiratore della reaganomics, si sia pronunciato a favore di una forma di “salario minimo garantito” mediante il meccanismo dell’imposta negativa. Stabilito un minimo, tutti coloro che percepiscono un reddito superiore a questo, pagano le imposte, gli altri ricevono un’integrazione dallo stato. In questo modo il capitale dei paesi più sviluppati accetta un sistema di gestione della disoccupazione [<=] che perpetui la spaccatura tra lavoro e non lavoro favorendo la pace sociale.

La storia è prodiga di insegnamenti del genere (e non si dica che la fattispecie delle antiche “leggi sui poveri” è distante dalle esperienze e proposte più recenti: si tratta di comprenderne appieno la tipologia). Ancora Marx, a proposito della più vecchia legge inglese sui poveri del seicento, commenta così: “Per salvare i comodi della nostra santissima religione dagli assalti dei miscredenti francesi, gli onesti agrari inglesi ridussero i salari dei lavoratori agricoli persino al di sotto del minimo puramente fisico, e fecero aggiungere, mediante la legge sui poveri, il rimanente necessario per la conservazione fisica della razza”. Grazie a quella legge, la parrocchia integrava il salario nominale sotto forma di elemosina fino alla somma minima necessaria per la riproduzione della forza-lavoro. Del resto le virtù della carità pubblica per il mantenimento dell’ordine sociale sono ben note, oltre che al parroco, ad ogni sobrio difensore dell’accumulazione capitalistica. Camillo Benso conte di Cavour proclamava l’assoluta necessità di stabilire il principio della carità legale: “Se ci vien fatto di dimostrare che la carità legale, applicata secondo questo principio, può essere utilmente introdotta nelle società moderne, noi avremo tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti, e segnata la via a migliorare le sorti delle classi più numerose, senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’ordine sociale”.

La proporzione tra il salario pagato dal padrone e la parte assistenziale compensata dalla parrocchia, o dallo stato, indica due cose: i. quanto il salario contrattuale si possa abbassare così sotto il suo minimo; ii. in che misura il lavoratore sia composto di “salariato” e di “povero”, trasformato in servo della fondazione parrocchiale “non profit” e dello stato assistenziale. “Fu questo un modo brillante per trasformare il lavoratore salariato in uno schiavo e il fiero libero yeoman di Shakespeare in un povero”. Dalla vecchia legge destinata soprattutto ai distretti agricoli, si passò alla nuova per gli operai dell’industria. E ora, potremmo aggiungere noi, all’ultima “legge sui nuovi poveri” per i lavoratori dei servizi – dai cosiddetti “lavori socialmente utili” alle nuove forme contrattuali (tempo parziale, ingresso, formazione, interinato, ecc.). Ma il criterio dell’intervento legislativo è sempre il medesimo: provvedere con l’assistenzialismo laddove il pauperismo divenga  permanente, anziché intermittente.

Se oggi, dunque, il tema del salario minimo è spesso associato a quello dei lavori socialmente utili o comunque a qualche altra forma di “garanzia”  per i disoccupati, rivolto prevalentemente a lavori non qualificati e non competitivi, di fronte alla crisi dell’industria inglese del secolo scorso i padroni avevano affrontato il problema sostituendo l’antica elemosina, il sussidio in denaro, con le “case di lavoro”. Lì le condizioni di lavoro e di vita (salario, mense, alloggi, ecc.) erano molto peggiori di quelle normali degli occupati, nei cui confronti quindi l’accettazione del lavoro nelle “case” da parte dei disoccupati costituiva una gravissima minaccia di concorrenza: ed era ciò che appunto volevano i padroni. Tanto erano infami le condizioni che molti disoccupati, piuttosto che andare nelle “case di lavoro”, preferivano compiere piccoli reati per finire in prigione, dove si dormiva e mangiava meno peggio! (“viva viva la galera, ci dà il pane verso sera!”, dice un vecchio proverbio carcerario romano). Forse per questo un ministro italiano della giustizia ha proposto i lavori socialmente utili come condanna alternativa al carcere!

È importante capire quale fosse la logica, già allora, della legge sui lavori pubblici. Essa era applicata attraverso il controllo esercitato da un Comitato d’assistenza in mano alla borghesia. Questa authority (così si chiamerebbe oggi) teneva d’occhio i lavoratori, offriva agli operai espulsi dalla fabbriche tutti i lavori di pubblica utilità, non qualificati, ai quali potessero essere adibiti (costruzione di strade, fogne, canalizzazioni, pavimentazioni, impianti idrici, ecc.) per ricevere in cambio il loro sussidio minimo dalle autorità. Nonostante che l’aiuto da parte dello stato fosse invocato dai lavoratori stessi, in realtà – scrivevano i commentatori dell’epoca – quello era un sussidio agli industriali. Infatti, se un salario vergognosamente misero fosse stato offerto a un disoccupato per un altro lavoro e il lavoratore non avesse voluto accettarlo, “perché il guadagno sarebbe stato soltanto nominale e il lavoro invece straordinariamente duro” (secondo il rapporto dell’ispettorato del lavoro, 1863), il Comitato d’assistenza lo avrebbe escluso automaticamente dalla lista dei disoccupati (clausole analoghe sono riproposte ancora adesso). Erano “tempi d’oro questi per i padroni – commenta Marx – in quanto i lavoratori erano costretti a morire di fame o a lavorare a qualsiasi prezzo che fosse più vantaggioso ai borghesi: e i Comitati d’assistenza erano i loro cani da guardia”. [Giugni, Prodi, Treu, Mastella, Authority o Agenzie per il lavoro ... de te fabula narratur: va bene la convergenza d’intenti per lorsignori, ma non si capisce allora che c’entrino invece i comunisti con salario minimo e dintorni?].

Si lègge che la maggioranza dei lavoratori, ridotti alla fame e alla disperazione, accettavano “volonterosamente” qualsiasi genere di lavoro pubblico. La legge prevedeva le forme di finanziamento pubblico, statale e locale, e le norme per l’esecuzione dei lavori. I signori borghesucci – osserva Marx – traevano da tale stato di cose un doppio profitto: i. ottenevano il denaro per l’esecuzione delle opere a un interesse eccezionalmente basso; ii. davano ai lavoratori una retribuzione di gran lunga inferiore a un salario normale. Conseguenze analoghe si avevano a seguito di altri interventi assistenziali sul salario. Era il caso del “calmiere” sul prezzo del pane, gestito attraverso un fondo costituito emettendo obbligazioni garantite dal comune e coperte con raccolta di dazî locali in aggiunta ai trasferimenti di imposte erariali. Ancora una volta il risultato era che la popolazione [<=] locale doveva pagare quel che risparmiava sul pane con maggiori imposte indirette e quella dell’intera nazione [<=] con la tassa sui poveri a favore della metropoli in cui il calmiere operava. L’esperimento si rivelò un fallimento completo, favorendo la speculazione nella raccolta dei fondi necessari e nella costruzione, in appalto, dei depositi di grano, il che comportò il conseguente rialzo del prezzo del pane: benché il decreto fosse presentato come “provvidenza socialista” per i proletari delle città.

Ecco di che pasta è fatto un simile “socialismo” assistenziale minimo! Viceversa, era del tutto logico, da parte degli industriali, dedurre dal salario le sovvenzioni pubbliche ricevute dai lavoratori grazie alla legislazione “sociale”, considerandole come parte integrante del salario, che – per loro sì – era sicuramente già salario sociale [<=]. E questo è il punto: nell’esatta teoria marxiana del salario (sociale) come valore globale di classe della forza-lavoro, se non si riesce a incidere positivamente su tale valore, ogni altra pretesa “garanzia” di maggior reddito non può che risolversi in un trasferimento da una voce salariale all’altra – ossia in un riprovevole e pacchiano gioco delle “tre carte”. È di un siffatto trucco che sembrano non avvedersi quanti, recentemente, nei movimenti di sinistra (partitici, sindacali, autorganizzati e di centri sociali) hanno fatto riapparire la rivendicazione del reddito garantito. Tra le varie argomentazioni addotte c’è chi sostiene che tale forma di reddito costituirebbe una nuova forma di statuto per il cosiddetto “lavoratore postfordista”. Questi, infatti, nella sua condizione di precarietà generalizzata è privo di un luogo certo (la vecchia fabbrica) dove poter rendere effettive le norme di difesa dallo sfruttamento e dalla rappresaglia capitalistici. A fronte di questo problema il presunto “reddito garantito” servirebbe dunque a proteggere il singolo indipendentemente dal luogo determinato di occupazione, assicurandogli un “minimo” di sostegno, una protezione di base.

Ma, a parte i problemi della composizione di classe generati dalle mutazioni indotte dalle recenti ristrutturazioni tecnologiche, ciò che è più importante è che le questioni salariali non sono facilmente raggirabili con cure che rischiano di rendere cronica la malattia. Se immaginiamo infatti che si riesca a conquistare un reddito minimo, da un punto di vista quantitativo, qualora tutte le altre variabili non mutino, si dovrebbe ottenere un’espansione del monte-salari (salari da lavoro più redditi garantiti), che richiederebbe una forza del proletariato che non sembra essere quella propria di una fase in cui i salariati disoccupati accedono sommessamente all’assistenza pubblica. La soglia minima del reddito garantito, dunque, sarebbe con ogni probabilità attratta verso il basso e sottoposta al ricatto dell’eliminazione del sussidio da un giorno all’altro. Sorgerebbero quindi inarrestabilmente lavori precari (più o meno neri) a più alto tasso di sfruttamento. Così la spaccatura tra lavoro e non lavoro non solo rimarrebbe insanata ma peggiorerebbe, non migliorando i rapporti di forza a favore della classe dei salariati. Inoltre, il permanere della classe in una posizione di divisione e di ricatto favorirebbe di certo anche la compressione dei salari da lavoro, ridimensionando il monte-salari che in primo momento si presumeva in espansione. E così si ritornerebbe da capo a dodici con un plusvalore complessivo espanso, rapporti di forza sfavorevoli e salario sociale globale ridotto.

Da quanto detto risulta quindi chiaro che la parola d’ordine del reddito garantito, malgrado astrattamente possa essere considerata un mezzo per redistribuire quote di plusvalore espropriato, nella realtà – non sanando la divisione tra lavoro e non lavoro – lascia i salari in balìa delle decurtazioni più selvagge senza poter opporre alcuna valida resistenza. Anzi, se il “salario minimo” si accompagna a forme di lavoro di massa non qualificato – come nelle antiche “case di lavoro” – la compressione dei salari normali al di sotto del valore della forza-lavoro diviene conseguenza immediata e necessaria della concorrenza di quelle forme di lavoro precario e sottopagato. Una volta espulsi dai luoghi di produzione del capitale – dove il salario minimo sia quello pienamente rispondente alla “norma” del rapporto salariale di vendita della forza-lavoro al suo valore – l’esercizio dell’antagonismo diventa più problematico e il suo esito massimamente incerto. Quale antagonismo può esercitare, di norma, un pensionato se non sfogarsi con l’impiegato della posta? Quale antagonismo esercitano i percettori di reddito assistito britannici se non una tragica rivolta ogni dieci anni?

Se si tiene giustamente conto della massa salariale sociale ottenibile in base, da un lato, alla forza di classe rispetto, dall’altro, all’inevitabile trasferimento interno tra voci salariali allorché non si abbia la forza di accrescere quella massa, aggiungere alla parola d’ordine del “salario minimo garantito”, sganciato dal lavoro salariato, quelle connesse con la prestazione di “lavori socialmente utili” in una “riduzione del tempo di lavoro” e della complessiva giornata lavorativa [<=], è perfetta incoerenza e il truffaldino “gioco delle tre carte” è fatto! Dato che la pressione da esercitare sui profitti è sempre la stessa e il risultato che se ne ricava può essere speso o in riduzione del tempo di lavoro o in reddito sociale o in occupazione o nel recupero di livelli “normali” di salario, se tale pressione fosse capace di strappare il finanziamento del “reddito minimo garantito” per tutti i disoccupati tanto varrebbe finanziare la riduzione del tempo di lavoro a parità di salario sociale e di intensità lavorativa, con aumento dell’occupazione, anziché cercare di fuggire fuorimercato. È così facilmente dimostrato come i problemi del salario, da sempre e ancora oggi, non potrebbero essere risolti con alcuna legislazione in materia di “reddito minimo garantito”; in mancanza della pressione esercitata dalla conflittualità sociale, infatti, esso può solo erodere, e solo provisoriamente, altre componenti del salario sociale di classe anziché il plusvalore, in una forma di invisibile “solidarietà coatta” tra poveri imposta e mascherata dalla forza e dagli interessi padronali.

La “legge sui poveri” – sosteneva Ricardo, così come noi potremmo dire per ogni altra provvidenza assistenzialistica – tende fatalmente a “trasformare la ricchezza e la forza in miseria e debolezza”. Come detto, in luogo della lotta di classe subentra la “questione sociale” – la panacea del profeta Lassalle – o lo “stato sociale”, formule da giornalisti: asseriva Marx, il quale proseguiva osservando come, anziché da un processo di trasformazione rivoluzionaria della società, i lassalliani pretendevano che “l’organizzazione socialista di tutto il lavoro sorga dall’aiuto dello stato”, e credevano che si possa costruire una società nuova grazie all’assistenza statale, come si costruisce una ferrovia – “degna presunzione di Lassalle” e dei suoi posteri! Così pure Guesde ritenne necessario imporre alcune “inezie” ai lavoratori francesi, come il salario minimo stabilito per legge, tanto che Marx gli disse: “se il proletariato francese è ancora così infantile da aver bisogno di tali lusinghe, non vale neppure la pena di formulare un qualsiasi programma”. La cosa più scandalosa non è nell’aver inserito nel programma simili specifiche cure miracolose, ma nell’aver abbandonato il punto di vista del movimento di classe. E dire che già perfino i Cartisti rifiutavano gli aiuti esterni, l’ipocrisia delle belle promesse, chiedendo solo il potere di aiutarsi da sé. Di fronte alla crisi [<=], l’assistenza spinge i lavoratori all’“egoismo”, a non far nulla piuttosto che lavorare, all’isolamento sociale e politico e al qualunquismo, nonostante che il minimo di reddito “garantito” sia al disotto del valore normale della forza-lavoro “considerato dai lavoratori stessi come il minimo del salario. È per tale ragione che i sindacati non permettono mai ai loro aderenti di lavorare per un salario inferiore al minimo” (J.T.Dunning, del sindacato rilegatori, 1860).

[a.b.-gf.p.]

 

 

Salario sociale reale

Quando si parla di salario si è soliti, nel senso comune, riferirsi alla “busta-paga”: il che significa pensare al salario come alla retribuzione individuale, ovverosia salario diretto [<=], in forma monetaria. Che la forma salariale, nella sua espressione in denaro, sia costitutiva ed essenziale per il modo di produzione capitalistico, è una delle precise affermazioni scientifiche di Marx. Secondo gli economisti socialisti e progressisti della sua epoca [Marx cita Rossi, a esempio], è casuale che la “partecipazione” [<=] – già la chiamavano così – del lavoratore prenda la forma del salario, come se si trattasse di un atto particolare in margine al processo di produzione, di cui non formerebbe un elemento costitutivo. “Il salario non è una partecipazione dell’operaio alla merce da lui prodotta” – osservò senza esitazioni Marx; precisando che ciò che caratterizza il salario è dunque questo: quello che il lavoratore produce per sé non è la seta, l’oro, i palazzi, o le macchine, risultato del suo processo di lavoro, ma è il salario. Ciononostante, dopo un secolo e mezzo si è costretti ancora ad assistere al trionfo dell’ideologia della partecipazione – in nome della cosiddetta. qualità totale, della solidarietà, e di altre fandonie. Qui si può meglio comprendere la precisazione di Marx sulla duplice modalità di consumo del salario anticipato dal capitalista: prima produttivo, come capitale, per il capitalista stesso, che estorce pluslavoro e plusvalore; poi improduttivo, come reddito, per il lavoratore, per il quale i mezzi di sussistenza acquistati e consumati sono “irrimediabilmente perduti”, perché non sono serviti per produrre nuovi mezzi di sussistenza ma il lavoratore stesso – riproducendo così anche le condizioni di sottomissione del lavoro al capitale e l’intero rapporto stesso. Se gli economisti moderni amano discettare sul passaggio da una “economia salariale” (wage economy) a una “economia della partecipazione” (share economy), pure questa è una delle non poche “novità” che furono già anticipate da altri remoti ideologi borghesi.

Come si vede, non c’è molta differenza con le chiacchiere che oggi vengono propinate dai fautori di azionariato popolare, public company, proprietà diffusa, fine della proprietà [<=] e quant’altro. “Tutto questo ameno ragionamento – commenta Marx – si riduce a ciò: se i lavoratori possedessero a sufficienza lavoro accumulato, ossia il capitale, per non essere costretti a vivere direttamente della vendita del loro lavoro, la forma del salario sparirebbe: cioè, se tutti i lavoratori divenissero capitalisti, ossia se anche il capitale potesse mantenersi senza il suo opposto, il lavoro salariato, senza il quale però esso non può esistere. Nondimeno, questa affermazione è da ricordare. Il salario non è una forma accidentale della produzione borghese, ma tutta la produzione borghese è una forma storica transitoria della produzione. Tutte le sue caratteristiche, il capitale come il salario, la rendita, ecc., sono transitorie e suscettibili di essere soppresse a un certo punto dell’evoluzione”. Dunque, quella forma – in quanto “forma” – risponde adeguatamente al contenuto del rapporto di capitale. Facendo così giustizia dello pseudo-criterio della partecipazione del lavoratore al risultato dell’impresa, la forma di salario rimane il perno del rapporto di lavoro col capitale: ed è precisamente questo il concetto da chiarire.

Anche l’economia borghese volgare sa che il prezzo in denaro della forza-lavoro, il salario nominale, non coincide con il salario reale, cioè con la quantità di merci che vengono realmente date in cambio del salario. Quando si parla di aumento o diminuzione del salario, non avrebbe senso riservare l’attenzione principale a quel prezzo in denaro, al salario nominale (tanto che, sotto i colpi della crisi [<=], se ne accorse bene anche Keynes). Ma la discrepanza tra salario nominale e salario reale non può limitarsi, come si fa presso il keynesismo stesso, a una mera formalità notarile, risolta col dividere l’un per l’altro in base a un anodino e inspiegato “potere d’acquisto”. Il problema era connesso, da Marx ed Engels, con il concetto di salario relativo alla capacità del capitale di rivolgere a proprio vantaggio ogni aumento di produttività [<=], aumentando l’estorsione dell’eccedenza del prodotto del lavoratore sul suo costo. Ciò determina la perdita di capacità sociale di acquistare merci da parte del proletariato, in rapporto all’accumulazione di capitale e all’arricchimento della borghesia. Né il salario nominale né il salario reale esauriscono i rapporti contenuti nel salario. “Il salario è determinato anche dal suo rapporto col guadagno, col profitto del capitalista. Questo è il salario proporzionale, relativo. Il salario reale esprime il prezzo del lavoro in rapporto col prezzo delle altre merci, il salario relativo, invece, il prezzo del lavoro immediato, in confronto col prezzo del lavoro accumulato, il valore relativo di lavoro salariato e capitale, il valore reciproco di capitalisti e lavoratori. Il salario reale può restare immutato, anzi può anche aumentare, e ciononostante il salario relativo può diminuire”.

Altri elementi di relatività sociale occorre ulteriormente precisare. La vendita di forza-lavoro non riguarda il lavoratore come individuo, ma in quanto appartenente a una classe sociale, e di contro a un’altra classe sociale. Il lavoratore salariato non dipende dal singolo capitalista ma dalla classe capitalista, “egli non appartiene a questo o quel borghese ma alla classe borghese”. La confusione su questo punto, ancora oggi nella sinistra, è somma. La deriva contrattualistica e lo sfacelo riformista dei sindacati sono conseguenze di quella confusione, così come la concezione individualistica e remunerativa del salario è tale da farne smarrire ogni connotazione di classe [<=]. Il salario, in quanto “costo di produzione” dei lavoratori, è ciò che serve “per assicurare che la classe operaia si riproduca nella misura necessaria” – precisava Engels. Il salario – spiegava Marx – “vale non per il singolo individuo ma per la specie”. Il salario – al suo livello minimo sociale, storicamente determinato – è il prezzo dei mezzi di sussistenza necessari, per l’esistenza e la riproduzione dell’intera classe proletaria. Come Marx ebbe modo di precisare fino alla stesura del Capitale e anche dopo, in quei costi necessari per l’esistenza e la riproduzione rientrano i prezzi (o le tariffe, le imposte, le tasse, ecc.) pagati per ottenere tutte le merci [<=] (oggetti e servizi) avute in cambio del salario nominale: non solo, quindi, quelle che servono al lavoratore individuale che percepisce la busta-paga, ma a tutte le persone, vecchie e giovani, abili o inabili al lavoro, che dipendono per la loro esistenza da quella “minima” fonte di reddito.

Il salario si concepisce come grandezza sociale, per altre due ragioni: sia perché riguarda il proletariato intero come classe: ciò spiega sia il motivo per cui l’ideologia borghese tenda a rappresentarlo nella sua parvenza remunerativa individuale, per spezzare così nella coscienza collettiva [<=] del proletariato il più profondo carattere di reale “solidarietà” di classe che nel rapporto salariale è inscritto; sia perché il salario non si esaurisce nell’acquisto diretto delle merci di sussistenza, ma è composto anche dall’insieme di prestazioni collettive che derivano dalla ricchezza sociale generale [in forma di merci o anche di valori d’uso immediati, messa in parte anche a disposizione del proletariato da parte dello stato, a contropartita dei prelievi fiscali [<=] e parafiscali – la cui congruità quantitativa e qualitativa occorre verificare specificamente]. La definizione di salario come entità sociale, reale e relativa, “minima” (nel senso storico chiarito) spiega anche perché – in generale nel comando del capitale sul lavoro – “singoli lavoratori, milioni di lavoratori non ricevono abbastanza per vivere e riprodursi, ma il salario dell’intera classe operaia, entro i limiti delle sue oscillazioni, è uguale a questo minimo”.  Sui rapporti tra crisi mondiale, concorrenza tra lavoratori e livello medio minimo [<=] del salario si è già detto quanto basta.

È facile perciò capire quale portata, per la lotta di classe del proletariato, abbia la coscienza del significato sociale reale del salario, di contro alle forme ideologiche che ne fanno un elemento meramente remunerativo e partecipativo individuale. Anche in merito a lotte connesse, da un lato, alla riduzione del tempo di lavoro e, dall’altro, ai servizi dello stato sociale [<=], dovrebbe risultare evidente quale distanza intercorra tra il riferire quelle lotte al salario sociale reale anziché alla sua apparenza nominale individuale, quasi contabile. Marx era cinicamente consapevole di ambiguità e limiti delle lotte sindacali. Osservava che se i sindacati “riuscissero a mantenere in un dato paese un livello salariale tale che il profitto diminuisse sensibilmente in rapporto al profitto medio di altri paesi, o che il capitale subisse un arresto nel suo sviluppo, il ristagno o la recessione dell’industria, che ne sarebbero la conseguenza, provocherebbero la rovina dei lavoratori con i loro padroni. Se si trattasse solo di questo per quanto riguarda le associazioni – e questa è l’apparenza – cioè di determinare il salario, se il rapporto tra capitale e lavoro fosse eterno, le coalizioni si arenerebbero pietosamente davanti alla necessità delle cose”. Ogni coalizione di lavoratori, ogni associazione operaia, ha una storia davanti a sé solo se agisce affinché le lotte per il salario assumano quella portata sociale che compete a tale categoria, condizionando l’evoluzione storica dell’intero rapporto di capitale.

[gf.p..]

 

 

Schiavitù e salariato # 1

(abuso del termine neoschiavismo)

I libri sono strumenti di lavoro e non oggetti di lusso: “sono i miei schiavi e devono ubbidire alla mia volontà”. Così diceva Marx, intorno al 1865, a Paul Lafargue [che lo riferì in una lettera del 1890]. Mentre –proseguiva Marx – il proletariato faceva della sua bara la culla della repubblica borghese, costringeva questa a presentarsi nella sua forma genuina, come lo stato il cui scopo riconosciuto è di perpetuare il dominio del capitale – la schiavitù del lavoro. L’uso del termine “schiavitù” come metafora – metafora reale della verità oppressiva del comando del capitale sul lavoro salariato – è più che evidente. E proseguiva osservando che “il dominio della borghesia, sciolto da ogni catena, doveva trasformarsi ben presto nel terrorismo della borghesia”.

Poche parole possono introdurre le specifiche precisazioni marxiane, in merito all’uso della categoria di schiavitù, tanto per ciò che ne concerne l’impiego terminologico metaforico in relazione al modo di produzione capitalistico, quanto per il preciso significato concettuale di essa a differenza di quanto riguarda il sistema salariale e le rispettive loro specifiche forme antagonistiche [in successive “voci”, relative al termine schiavitù, tutte dovute a Marx e tratte dagli indici analitici – infradi suoi testi fondamentali, Il capitale e i Lineamenti fondamentali, oltre a poche frasi di alcuni opuscoli minori, si fa ricorso ai tantissimi luoghi, impossibili da indicare specificamente nel “montaggio” articolato].

Sulla base di quelle precisazioni è anzitutto essenziale sottolineare la specifica differenza economica tra “schiavitù” e “lavoro salariato”, al di là della loro possibile assimilazione sociologica, e giornalistica. Infatti, osservazioni superficiali, esistenziali ed emotive, consentono proprio quell’uso prima detto metaforico del termine “schiavitù”, e precisamente per le “repellenti” – come le definisce proprio Marx – condizioni di vita portate da ogni forma di lavoro dipendente, dalla schiavitù alla servitù, dal salariato alla fittizia autonomia.  

Ma sono precisamente le condizioni economiche, che caratterizzano il lavoro salariato nel modo capitalistico di produzione, a fare la differenza: e che si riassumono sostanzialmente nella produzione di plusvalore. Ciò implica che il prodotto abbia la forma di merce, ossia raddoppi con il valore il valore d’uso. Quest’ultimo infatti costituisce la base unica, pur nelle loro diversissime manifestazioni, per tutte le forme sociali di classe precapitalistiche, compresa ovviamente quella che basa la produzione sulla schiavitù. Infatti, Marx non indugia neppure un attimo a far osservare quale siano le differenze che contraddistinguono “lavoro salariato” da schiavitù ecc.: soltanto nel primo caso si tratta della vendita ad altri, solo temporanea, della capacità di lavoro (non del lavoro e tanto meno del lavoratore) per produrre merce capitalistica – valore che contiene plusvalore. Ciò può avvenire esclusivamente se la produzione non ha limiti materiali predefiniti (valori d’uso soltanto) e tutto questo, a sua volta, non può essere generalizzato se anche la forza-lavoro stessa non diviene merce.

Ora, queste e tutte le altre condizioni, da codeste implicate, non sono integrate altro che dal modo di produzione capitalistico e dal lavoro salariato. Anche se le condizioni di vita dei salariati più emarginati evocano la miseria, lo squallore e la violenza della schiavitù, la struttura concettuale del lavoro salariato non è confrontabile con nessuna forma di schiavismo. Anche laddove possano esistere, in qualche angolo del mondo, secondarie realtà schiavistiche, ciò che dà il segno è la forma dominante nel mercato mondiale o, quanto meno, nell’area di riferimento (che nell’attuale integrazione transnazionale tende a essere la stessa cosa). La schiavitù, perciò, è categorialmente e tendenzialmente incompatibile con la dominanza del capitale – come Marx ha ampiamente mostrato, e come è riportato nelle successive voci sulla “schiavitù” in altri numeri di questa rubrica – e il lavoro salariato è il necessario punto di approdo della vecchia forma in dissolvimento.

In questo senso, la sempre più diffusa definizione di “neoschiavismo”, la stanca ripetizione giornalistica a effetto di “riduzione in stato di schiavitù”, e locuzioni simili sovente impiegate anche in formulazioni giuridiche, costituiscono chiari abusi terminologici per l’inconfutabile significato economico di schiavitù. Del resto tale improprietà linguistica, e ancor prima concettuale, fa il paio con l’abuso di “neocolonialismo”, laddove il colonialismo è stato disgregato dall’imperialismo del capitale monopolistico finanziario. Basterebbe conoscere il significato, anzitutto economico, di “imperialismo” per sapere che questo ha superato la forma istituzionale coloniale, di dipendenza “giuridica” degli stati dominati. Ma il saccheggio delle risorse naturali, l’impoverimento endemico delle popolazioni subordinate, la loro fame, sete, morte per malattie, ecc., la costrizione alla fuga migratoria più o meno clandestina, e così via, sono tutte caratteristiche dilaganti dell’imperialismo, che il capitale ha ereditato dall’epoca coloniale precedente, senza che occorra parlare di “neocolonialismo”.

Queste stesse realtà attuali, appunto, comportano quei medesimi casi “repellenti” di lavoro salariato che fanno chiamare neoschiavismo ciò che rientra nell’ordinario “terrorismo della borghesia” (Marx). Perfino Owen chiamava “schiavi” i lavoratori salariati che “vengono ridotti alla degradazione più disperata” per l’“atroce oppressione” dovuta al dispotismo dei capitalisti: che cosa c’entra il neoschiavismo? Ma c’è di più.

Nelle formazioni capitalistiche più recenti, in cui ancora tracce residue dei vecchi modi di produzione sono evidenti, al posto dei vecchi proprietari terrieri o dei padroni di “schiavi”, antichi sfruttatori di tipo più o meno patriarcale, subentra la potenza politica di “nuovi ricchi, crudeli e avidi di denaro”. Così il produttore diretto, “schiavo” di un salario misero e incerto, è costretto a rivolgersi al capitale di chi dà il denaro in prestito; un capitale che tradizionalmente è il “capitale usurario” – ma che oggi può chiamarsi anche “microcredito”.

L’usura e le sue forme più moderne spingono per la formazione del nuovo modo di produzione capitalistico, sia rovinando i puri proprietari e la piccola produzione, sia centralizzando le condizioni del lavoro e trasformandole in capitale – come osservava Marx. L’usuraio, o il “banchiere dei poveri” di turno, diventa egli stesso il gestore diretto dello sfruttamento e dell’estorsione del pluslavoro ai nuovi “poveri che lavorano” (i labouring poor di cui parlava Smith).

“In una nazione libera in cui non siano consentiti gli schiavi, la ricchezza più sicura consiste in una massa di poveri laboriosi. Per rendere felice la società (composta naturalmente di coloro che non lavorano) e per render il popolo contento anche in condizioni povere, è necessario che la grande maggioranza rimanga sia ignorante che povera. Le cognizioni aumentano e moltiplicano i nostri desideri, e quanto meno un uomo desidera, tanto più facilmente i suoi bisogni potranno essere soddisfatti” [Bertrand de Mandeville].

Un simile dissanguamento dei piccoli produttori poveri fa da complemento all’“usura” delle banche ordinarie esercitata sui ricchi redditieri; congiuntamente ambo i tipi di usura portano alla formazione e alla concentrazione di grandi capitali monetari; e quindi anche le forme più infime di lavoro tendono non alla schiavitù, esistenzialmente così descrivibile, ma alla forma salariale.

[gf.p.]

 

 

Schiavitù e salariato # 2

(metafora del sistema salariale)

“La primitiva e relativamente più felice situazione di uguaglianza tra i produttori deve far posto alla massima disuguaglianza tra padrone e lavoratore, quale mai prima si era vista nella storia dell’umanità. Il grande capitalista è innalzato ora alla posizione di un signore dispotico che indirettamente ha in mano la salute, la vita e la morte dei suoi schiavi. La sua ricchezza e il suo potere accecano la sua mente, fino a fargli credere che ogni sua più atroce oppressione sia una grazia accordata; come vengono chiamati di fatto – i suoi schiavi – vengono ridotti alla degradazione più disperata; la maggioranza di essi viene privata della salute, del conforto domestico, delle comodità e dei sani piaceri goduti all’aria aperta nei tempi passati. Insomma, l’esistenza che una parte molto consistente dei lavoratori conduce sotto l’attuale sistema, non vale la pena di essere posseduta” [Owen].

Nella storia reale il lavoro salariato deriva dalla dissoluzione della schiavitù e della servitù della gleba – o dalla decadenza della proprietà comune, come è accaduto presso i popoli orientali e slavi – e nella sua forma adeguata che fa epoca investe l’intera esistenza sociale del lavoro. Gli apologeti del sistema schiavistico moderno sanno servirsi del lavoro di sorveglianza come motivo per giustificare la schiavitù, allo stesso modo che gli altri economisti se ne servono per giustificare il sistema di lavoro salariato. “Alla frusta del sorvegliante di schiavi subentra il registro delle punizioni del sorvegliante. Tutte le punizioni si risolvono naturalmente in multe e in ritenute sul salario, e l’acume legislativo di questi Licurghi di fabbrica rende loro l’infrazione delle proprie leggi anche, se mai possibile, più redditizia della loro osservanza. Finalmente i capitalisti cercarono di liberarsi di questa insopportabile schiavitù (cioè delle condizioni del contratto di lavoro che davano loro fastidio), invocando le risorse della scienza, e presto furono reintegrati nei loro legittimi diritti, che sono quelli della testa nei confronti delle altre parti del corpo” [Ure].

Il Morning star, organo dei signori del libero scambio, parlava dei “nostri schiavi bianchi, che s’affaticano a morte, languono e muoiono in silenzio. Lavorare a morte è all’ordine del giorno in mille luoghi, in ogni luogo dove prosperano gli affari. Mutato nomine de te fabula narratur! Invece di "tratta degli schiavi", lèggi "mercato del lavoro"!”. I lavoratori non debbono ledere appunto la libertà degli attuali imprenditori – la libertà di mantenere i lavoratori in schiavitù! – moderando così quella loro “assoluta dipendenza che è quasi schiavitù”.

Smith pensa soltanto agli “schiavi del capitale”. Ma lo stesso lavoratore semiartigiano del medioevo per esempio non è raggruppabile sotto la sua definizione. Tuttavia la nostra intenzione principale qui non è di affrontare la sua teoria del lavoro, il suo momento filosofico, bensì il momento economico. Il lavoro considerato come sacrificio e perciò come creatore di valore, come prezzo che viene pagato per le cose e perciò dà loro un prezzo a seconda che costino più o meno lavoro, è una determinazione puramente negativa.

I rapporti economici, sui quali si fondano tanto l’esistenza della borghesia e il suo dominio di classe quanto la “schiavitù” dei salariati, sono: 1) il rapporto fra il lavoro salariato e il capitale, la schiavitù del lavoratore, il dominio del capitalista; 2) la decadenza inevitabile delle classi medie borghesi e del ceto contadino nel sistema attuale; 3) l’asservimento commerciale e lo sfruttamento delle classi borghesi delle diverse nazioni da parte del despota del mercato mondiale.

L’ordinamento giuridico borghese considera – sotto il profilo formale – il proletario “libero”, mentre il sistema economico borghese ne fa, di fatto, una sorta di “schiavo”. Il lavoratore salariato è, per così dire, “libero di essere schiavo”. E, del resto, questa sua condizione di completa subordinazione economica è sancita da quello stesso ordinamento giuridico borghese che – mentre tutela solo formalmente la “libertà” e la “uguaglianza” dei cittadini – disciplina, nella sostanza, attraverso la tutela della proprietà privata, la disuguaglianza e due ben diversi concetti di libertà.

Da questa evidente contraddizione tra rapporti giuridici formali e rapporti economici reali scaturisce il rifiuto marxista della democrazia liberale borghese. Le forme giuridiche in cui queste operazioni economiche appaiono come atti di volontà di quelli che vi partecipano, come manifestazioni della loro volontà comune e come “contratti” di cui il potere giudiziario può esigere l’esecuzione rispetto alle singole parti, non possono, in quanto semplici forme, determinare questo stesso contenuto. Esse non fanno che esprimerlo. Questo contenuto è giusto quando corrisponde al modo di produzione, quando gli è adeguato. Richiedere, sulla base del sistema salariale, una paga uguale è lo stesso che richiedere la libertà sulla base del sistema schiavistico. Ciò che si considera come “giusto”, non c’entra per niente. È ingiusto quando si trova in contraddizione con esso. La schiavitù, sulla base del modo di produzione capitalistico, è ingiusta: parimenti la truffa sulla qualità delle merci. La questione che si pone è la seguente: che cosa è necessario e inevitabile entro un dato sistema di produzione?

La società non consiste di individui, bensì esprime la somma delle relazioni, dei rapporti in cui questi individui stanno l’uno rispetto all’altro. È come se uno dicesse: dal punto di vista della società non esistono schiavi e cittadini: sono entrambi “uomini”. In realtà, invece, uomini lo sono al di fuori della società. Essere schiavo ed essere cittadino sono determinazioni sociali, rapporti degli uomini. Schiavo lo è nella e per la società. L’uomo si isola soltanto attraverso il processo storico. Originariamente egli si presenta come un essere che appartiene alla specie umana, alla tribù, come un animale gregario – anche se assolutamente non come un “animale” nel senso politico. Lo scambio stesso è uno dei mezzi principali di questo isolamento. Ma nel momento stesso in cui egli in quanto individuo isolato si riferisce ormai solamente a se stesso, i mezzi per porsi come individuo isolato sono diventati il suo processo di trasformazione in senso universale e comunitario. Nella società borghese il lavoratore, a es., non ha un’esistenza oggettiva, esiste solo soggettivamente; ma la cosa che gli si contrappone è ora diventata la vera comunità, che egli cerca di far sua e dalla quale invece viene ingoiato. Solo così, per quanto riguarda la singola persona reale, gli è lasciato un vasto campo di scelta, di decisione volontaria, e perciò di libertà formale.

Non è l’unità degli uomini viventi e attivi con le condizioni naturali inorganiche del loro ricambio materiale con la natura, e per conseguenza la loro appropriazione della natura, che ha bisogno di una spiegazione o che è il risultato di un processo storico, ma la separazione di queste condizioni inorganiche dell’esistenza umana da questa esistenza attiva, una separazione che si attua pienamente soltanto nel rapporto tra lavoro salariato e capitale. Lo schiavo non si trova assolutamente in nessun rapporto con le condizioni oggettive del suo lavoro; bensì il lavoro stesso, tanto nella forma dello schiavo, quanto in quella di servo della gleba, viene posto come condizione inorganica della produzione, sullo stesso piano degli altri esseri della natura, accanto al bestiame e come accessorio della terra. Le condizioni originarie della produzione si presentano come presupposti naturali, condizioni naturali di esistenza del produttore, proprio come il suo corpo vivente; per quanto egli lo riproduca e lo sviluppi, non è posto originariamente da lui stesso, ma si presenta come suo presupposto; la sua stessa esistenza (corporea) è un presupposto naturale, che egli non ha posto.

Nel rapporto di schiavitù e di servitù della gleba, quella separazione non avviene; bensì una parte della società viene essa stessa trattata dall’altra come mera condizione inorganica e naturale della propria riproduzione. In tutte le forme in cui il lavoratore diretto rimane “possessore” dei mezzi di produzione delle condizioni di lavoro necessarie alla produzione dei propri mezzi di sussistenza, il rapporto di proprietà deve al tempo stesso affermarsi come un rapporto diretto di signoria e servitù. Il produttore diretto non è libero, si trova qui in possesso dei propri mezzi di produzione, delle condizioni di lavoro oggettivamente necessarie per la realizzazione del suo lavoro e la produzione dei suoi mezzi di sussistenza.

In tali condizioni il pluslavoro per il proprietario nominale della terra può essere estorto soltanto con una coercizione extra economica, qualsiasi forma essa possa assumere. Nell’economia schiavistica lo schiavo lavora con condizioni di produzione appartenenti ad altri e non in modo autonomo. La sovranità è qui la proprietà terriera concentrata, sebbene vi sia il possesso e l’uso tanto privato che comune della terra. La specifica forma economica, in cui il pluslavoro non pagato è succhiato ai produttori diretti, determina il rapporto di signoria e servitù, come esso è originato dalla produzione stessa e da parte sua reagisce su di essa in modo determinante.

La determinazione del prezzo viene generata da altri rapporti, dalle leggi generali che per così dire si muovono alle spalle di questo atto di scambio, e dall’affermarsi del modo di produzione capitalistico. Le due parti si contrappongono come persone. Formalmente il loro rapporto è quello, uguale e libero, tra individui che scambiano in generale. Che questa forma sia una parvenza, e una parvenza illusoria, è un fatto che, finché si guarda al rapporto giuridico, rimane esterno al rapporto stesso. In questo scambio egli è di fronte al capitalista un uguale al pari di qualsiasi altro individuo che scambia; per lo meno in apparenza. In realtà, questa uguaglianza è già turbata per il fatto che il suo rapporto di lavoratore salariato verso il capitalista – ossia la sua condizione di valore d’uso nella forma specificamente differente dal valore di scambio, in antitesi cioè al valore posto come valore – è il presupposto di questo scambio apparentemente semplice; e quindi egli si trova già in un rapporto economico diversamente determinato – ossia fuori dal rapporto di scambio in cui la natura del valore d’uso, il valore d’uso particolare della merce, è in quanto tale indifferente. Questa apparenza esiste tutta via come illusione da parte sua e in un certo grado dall’altra parte, e quindi modifica anche sostanzialmente il suo rapporto, a differenza di quello in cui i lavoratori si trovano in altri modi sociali di produzione.

I lavoratori genitori, in rapporto al traffico dei fanciulli, sono veramente rivoltanti e del tutto degni di mercanti di schiavi; il fariseo capitalistico denuncia questa bestialità che da lui stesso vien creata, esternata e sfruttata e che altrove egli battezza “libertà del lavoro”. La richiesta di lavoro infantile rassomiglia spesso anche nella forma alla richiesta di schiavi negri, come si era avvezzi a leggerla nelle inserzioni dei giornali americani. Abbiamo visto il sovraccarico di lavoro di Londra, eppure il mercato londinese del lavoro è sempre straboccante di candidati alla morte. Prima il lavoratore vendeva la propria forza-lavoro della quale disponeva come persona libera formalmente. Ora vende moglie e figli: diventa “mercante di schiavi”. La schiavitù dei negri – una schiavitù puramente industriale – la quale senz’altro scompare e diventa incompatibile con lo sviluppo della società borghese, la presuppone; nell’àmbito del sistema di produzione borghese in singoli punti è possibile la schiavitù. Se accanto a essa non esistessero altri stati liberi con lavoro salariato, ma esistesse essa soltanto isolata, tutte le condizioni sociali negli stati in cui esiste la schiavitù dei negri si ribalterebbero immediatamente in forme precivili. Un negro è un negro. Soltanto in determinate condizioni egli diventa uno schiavo.

Appena popoli la cui produzione si muove nelle forme inferiori del lavoro degli schiavi vengono attratti in un mercato internazionale dominato dal modo di produzione capitalistico, allora sull’orrore barbarico della schiavitù, della servitù della gleba ecc. s’innesta l’orrore civilizzato del sovraccarico di lavoro. Perciò, negli stati meridionali dell’Unione americana, il lavoro dei negri conservò un carattere patriarcale moderato, finché la produzione fu prevalentemente orientata sui bisogni locali immediati. Ma, nella stessa misura in cui l’esportazione del cotone divenne interesse vitale di quegli stati, il sovraccarico di lavoro del negro divenne fattore d’un sistema calcolato e calcolatore: il loro mercato dei negri, con tutti gli orrori della frusta e del traffico di carne umana, è proprio più detestabile di questa macellazione lenta di esseri umani, che ha luogo a vantaggio di capitalisti? Non si trattava più di trarre dal negro una certa massa di prodotti utili. Ormai si trattava della produzione del plusvalore stesso. Il sistema è un sistema di schiavitù illimitata, schiavitù socialmente, fisicamente, moralmente, intellettualmente parlando.

L’industria cotoniera in Inghilterra dette allo stesso tempo l’impulso alla trasformazione dell’economia schiavistica negli Stati Uniti, prima più o meno patriarcale, in un sistema di sfruttamento commerciale. In genere, la schiavitù velata dei lavoratori salariati in Europa aveva bisogno del piedistallo della schiavitù sans phrase nel nuovo mondo. Ovunque esiste la schiavitù, il liberto cerca i mezzi per vivere nelle occupazioni (commercianti e artigiani), grazie alle quali egli poi spesso accumula ricchezze; sicché queste attività anche nei tempi antichi erano prevalentemente nella mani dei liberti e pertanto non convenivano al cittadino: di qui l’opinione che l’ammissione degli artigiani ai pieni diritti politici fosse una cosa pericolosa (di regola essi ne erano esclusi presso gli antichi greci). A nessun romano era permesso esercitare il mestiere di bottegaio o di artigiano. Presso gli antichi la manifattura figura già come corruzione (occupazione di liberti, clienti, stranieri) ecc.

Lo straordinario aumento raggiunto dalla forza produttiva nelle sfere della grande industria, accompagnato com’è da un aumento, tanto in estensione che in intensità, dello sfruttamento della forza-lavoro in tutte le restanti sfere della produzione, permette di adoprare improduttivamente una parte sempre maggiore della classe operaia, e quindi di riprodurre specialmente gli antichi schiavi domestici sotto il nome di “classe dei servitori”, come domestici, servi, lacchè, ecc. sempre più in massa. Quasi tutti gemono sulla schiavitù del lavoratore di fabbrica. Le macchine in ultima istanza aumentano gli “schiavi del lavoro” invece di finire per diminuirli!

[k.m.]

 

 

Schiavitù e salariato # 3

(differenze dal lavoro salariato)                         

Per il capitale, condizione della produzione non è il lavoratore, ma solo il lavoro. Se può farlo compiere dalle macchine o addirittura dall’acqua, dall’aria, tanto meglio. E il capitale non si appropria del lavoratore, ma del suo lavoro – non immediatamente ma mediatamente attraverso lo scambio. Questi sono ora i presupposti storici necessari per trovare il lavoratore come lavoratore libero, come capacità lavorativa priva di oggettività, puramente soggettiva, che si contrappone alle condizioni oggettive della produzione come alla sua non proprietà, come a proprietà altrui, a valore per se stante, a capitale.

Ciò che il lavoratore vende non è direttamente il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro, che egli mette temporaneamente a disposizione del capitalista. Se fosse permesso all’uomo di vendere la sua forza-lavoro per un tempo illimitato, la schiavitù sarebbe di colpo ristabilita. Una tale vendita, se fosse conclusa, per esempio per tutta la vita, farebbe senz’altro dell’uomo lo schiavo a vita del suo imprenditore. Il capitalista non può rivendere il lavoratore come merce, perché questi non è il suo schiavo, ed egli inoltre non ha comperato se non l’utilizzazione della sua forza-lavoro per un tempo determinato. Questa falsa apparenza distingue il lavoro salariato dalle altre forme storiche del lavoro.

Sulla base del sistema del salario anche il lavoro non pagato sembra essere lavoro pagato. La parte pagata e la parte non pagata del lavoro sono confuse in modo inscindibile, e la natura di tutto questo procedimento è completamente mascherata dall’intervento di un contratto e dalla paga che ha luogo alla fine della settimana. Il lavoro non pagato, in un caso sembra dato volontariamente, nell’altro caso sembra preso per forza. La differenza è tutta qui. Nel lavoro degli schiavi persino la parte della giornata lavorativa, in cui lo schiavo non fa che reintegrare il valore dei propri mezzi di sussistenza, in cui dunque egli lavora in realtà per se stesso, appare come lavoro per il suo padrone. Tutto il suo lavoro appare come lavoro non retribuito. Nel lavoro salariato, al contrario, persino il pluslavoro ossia il lavoro non retribuito appare come lavoro retribuito. Là il rapporto di proprietà cela il lavoro che lo schiavo compie per se stesso, qui il rapporto monetario cela il lavoro che il lavoratore salariato compie senza alcuna retribuzione.

Si comprende quindi l’importanza decisiva che ha la metamorfosi del valore e del prezzo della forza-lavoro nella forma di salario, ossia in valore e prezzo del lavoro stesso. Con lo schiavo, al contrario, anche quella parte di lavoro che è pagata appare come lavoro non pagato. Naturalmente lo schiavo per poter lavorare deve vivere, e una parte della sua giornata di lavoro serve a compensare il valore del suo proprio sostentamento. Ma poiché tra lui e il suo padrone non viene concluso nessun patto e tra le due parti non ha luogo nessuna compravendita, tutto il suo lavoro sembra lavoro dato per niente. In questo caso il lavoro pagato e quello non pagato erano visibilmente separati, separati nel tempo e nello spazio, e i nostri liberali si sdegnavano, scandalizzati dall’idea assurda di far lavorare un uomo per niente!

Come schiavo il lavoratore ha un valore di scambio, ha un valore; come libero lavoratore invece egli non ha nessun valore; solamente la disposizione sul suo lavoro, prodotta dallo scambio con lui, ha valore. Non è lui che sta come valore di scambio di fronte al capitalista, ma il capitalista di fronte a lui. La sua mancanza di valore, la sua svalutazione è il presupposto del capitale e la condizione del lavoro libero in generale. Con ciò il lavoratore è formalmente posto come persona che è ancora qualcosa per sé al di fuori del suo lavoro, e che aliena le sue energie vitali solo come mezzo per la sua vita personale. Nel capitale la socializzazione dei lavoratori non è imposta attraverso la violenza fisica diretta, il lavoro coercitivo, servile, schiavistico; essa è imposta nel senso che le condizioni della produzione sono proprietà altrui ed esistono esse stesse come socializzazione oggettiva, che coincide con l’accumulazione e la concentrazione delle condizioni di produzione.

Non sentiamo mai dire che nell’antichità ci sia stata un’eccedenza di schiavi. L’invenzione di lavoratori eccedenti, ossia di uomini senza proprietà che lavorano, appartiene all’era del capitale. Nel rapporto di schiavitù egli appartiene al proprietario particolare, singolo, di cui è la macchina da lavoro vivente, che perciò ha un valore per altri o piuttosto è un valore. Nel rapporto di servitù della gleba egli si presenta come momento della stessa proprietà fondiaria, è un accessorio della terra, proprio come il bestiame da lavoro. Nel rapporto di schiavitù il lavoratore non è altro che una macchina da lavoro. Se insieme con la terra viene conquistato anche l’uomo come suo accessorio organico, esso lo è come una delle condizioni della produzione, e così nasce la schiavitù e la servitù della gleba, che presto falsificano e modificano le forme originarie di tutte le comunità e ne divengono persino la base. La struttura semplice acquista così una determinazione negativa. La schiavitù e la servitù della gleba sono pertanto solamente sviluppi ulteriori della proprietà che si basa sull’organizzazione tribale, di cui esse modificano necessariamente tutte le forme (nella forma asiatica questo può avvenire di meno). A questo livello la differenza tra la produzione del capitale e i precedenti livelli di produzione è ancora semplicemente formale. La razzìa di uomini, la schiavitù, il commercio di schiavi e il lavoro coatto di questi, la moltiplicazione di queste macchine lavoratrici, il plusprodotto delle “macchine che producono” sono attuati qui direttamente con la violenza, mentre nel capitale sono mediati dallo scambio.

La sfera dei godimenti del salariato non è delimitata qualitativamente, ma soltanto quantitativamente. È questo che lo distingue dallo schiavo, dal servo della gleba ecc. Certamente il consumo reagisce sulla produzione stessa; ma questo contraccolpo non interessa il lavoratore nel suo scambio così come non interessa qualsiasi altro venditore di una merce; anzi, dal punto di vista della semplice circolazione – e per ora non abbiamo dinanzi nessun altro rapporto sviluppato – esso cade al di fuori del rapporto economico. Ma come il vestiario, l’alimentazione, il trattamento migliori e un maggiore peculio non aboliscono il rapporto di dipendenza e lo sfruttamento dello schiavo, così non aboliscono quello del salariato. Un aumento del prezzo del lavoro in séguito all’accumulazione del capitale significa effettivamente soltanto che il volume e il grosso peso della catena dorata che il salariato stesso si è ormai forgiato, consentono una tensione allentata. “I lavoratori diventano quasi schiavi dei negozianti dei quali sono debitori” [Fawcett].

Le condizioni essenziali sono poste nel rapporto stesso così come si presenta originariamente: 1) presenza della forza-lavoro viva come mera esistenza soggettiva separata dai momenti della sua realtà oggettiva (tanto dalle condizioni del lavoro vivo quanto dai mezzi di sussistenza); 2) il valore che si trova dall’altra parte, o lavoro oggettivato, deve essere un’accumulazione di valori d’uso, abbastanza grande da fornire le condizioni materiali non soltanto per la produzione dei prodotti o valori necessari a riprodurre o a conservare la forza-lavoro viva, ma anche per assorbire pluslavoro; 3) libero rapporto di scambio – circolazione di denaro – tra le due parti; una relazione tra gli estremi basata sui valori di scambio – non su rapporti di signoria e di servitù, quindi una produzione che non fornisce immediatamente i mezzi di sussistenza al produttore, ma è invece mediata dallo scambio; 4) una delle due parti – quella che rappresenta le condizioni materiali del lavoro sotto forma di valori autonomi, per sé stanti – deve presentarsi come valore e contemplare come scopo ultimo la creazione del valore, l’autovalorizzazione, la creazione di denaro – e non immediatamente il godimento e la creazione di un valore d’uso.

Tanto gli agenti pratici della produzione capitalistica che i loro azzeccagarbugli ideologici sono incapaci di pensare il mezzo di produzione distaccato dalla maschera sociale antagonistica che oggi gli aderisce, allo stesso modo che un padrone di schiavi non è capace di pensare il lavoratore stesso distaccato dalla sua caratteristica di schiavo. La forza-lavoro si riferisce al lavoro vivo come a un lavoro estraneo, e se il capitale volesse pagarla senza farla lavorare, essa accetterebbe volentieri l’affare. Il suo stesso lavoro le è dunque altrettanto estraneo – e lo è anche per la sua direzione ecc. – quanto il materiale e lo strumento. Perciò poi anche il prodotto, come combinazione di materiale altrui, strumento altrui e altrui lavoro, le si presenta come proprietà altrui, e dopo la produzione essa si ritrova più povera soltanto a causa delle energie spese, salvo a ricominciare a sgobbare come pura capacità lavorativa soggettiva la cui esistenza è separata dalle condizioni che la fanno vivere.

Riconoscere i prodotti come prodotti suoi e giudicare la separazione dalle condizioni della sua realizzazione come separazione indebita e forzata – è una coscienza enorme che è essa stessa un prodotto del modo di produzione basato sul capitale, al pari della coscienza dello schiavo di non poter più essere proprietà di un terzo, la sua coscienza di essere una persona, la coscienza che la schiavitù ormai continua a vegetare soltanto come un’esistenza artificiosa e non può più continuare ad essere la base della produzione.

[k.m.]

 

 

Schiavitù e salariato # 4

(antagonismo e povertà)

La legge che equilibra costantemente sovrapopolazione relativa, ossia esercito industriale di riserva, da una parte e volume ed energia dell’accumulazione dall’altra, incatena il lavoratore al capitale in maniera più salda che i cunei di Efesto non saldassero alla roccia Prometeo. Questa legge determina un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto, ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale.

“Ma, se non hanno lavoro sufficiente ecc., gli uomini non muoiono di fame se possono mendicare o rubare; di conseguenza il primo carattere assunto dai poveri fu quello di ladro e di mendicante. Un carattere fortemente distintivo dello stato presente della società è che la Legge sui poveri fu particolarmente un atto che mirava al rafforzamento dell’industria” [Owen]. L’ultima parte di questo statuto prevede che certi poveri debbano ricevere occupazione presso il luogo o presso gli individui che dànno loro da mangiare e da bere e che sono disposti a trovar loro lavoro. Questa specie di schiavi della parrocchia si è conservata in Inghilterra fin al xix secolo molto inoltrato, col nome di roundsmen [uomini a disposizione].

La produzione di lusso che si riscontra presso gli antichi è un risultato del rapporto schiavistico. Non si tratta di sovraproduzione, ma di sovraconsumo o di consumo irrazionale, che sfociando in manifestazioni mostruose e bizzarre, segna il tramonto del sistema politico antico. Non la povertà sorta naturalmente bensì la povertà prodotta artificialmente, non la massa di uomini meccanicamente oppressa dal peso della società ma la massa di uomini che proviene dalla sua acuta dissoluzione, anzi dalla dissoluzione del ceto medio, costituisce il proletariato, sebbene gradualmente entrino nelle sue file, com’è naturale, anche la povertà naturale e la servitù della gleba. Se il proletariato annunzia la dissoluzione dell’ordinamento tradizionale del mondo, esso esprime soltanto il segreto della sua propria esistenza, poiché esso è la dissoluzione effettiva di questo ordinamento del mondo. Se il proletariato richiede la negazione della proprietà privata, esso eleva a principio della società solo ciò che la società ha elevato a suo principio, ciò che in esso è già impersonato senza suo apporto, in quanto risultato negativo della società.

Nella produzione basata sul capitale il consumo è mediato a tutti i livelli dello scambio e il lavoro non ha mai un valore d’uso immediato per coloro che lavorano. Essa poggia interamente sul lavoro come valore di scambio e come creatore di valore di scambio. Il lavoratore salariato, a differenza dello schiavo, è già un centro autonomo di circolazione, un soggetto di scambio che crea valore di scambio e lo conserva mediante lo scambio. Il rapporto è impossibile se la stessa forza-lavoro viva si presenta come proprietà dell’altra parte, ossia non come soggetto che scambia. La schiavitù è però possibile in singoli punti se non esiste in altri punti e si presenta come un’anomalia rispetto al sistema borghese stesso. A eccezione dei suoi propri lavoratori, per ciascun capitalista la massa complessiva di tutti gli altri non è una massa di lavoratori, ma una massa di consumatori, di possessori di valori di scambio (salario), di denaro, che essi scambiano con la sua merce. Essi sono altrettanti centri di circolazione dai quali parte l’atto di scambio e viene conservato il valore di scambio del capitale.

Lo sviluppo del valore di scambio, favorito anche dal denaro esistente nella forma del ceto mercantile, dissolve la produzione indirizzata poi verso il valore d’uso immediato e le forme di proprietà a essa corrispondenti – rapporti del lavoro con le sue condizioni oggettive – e spinge cosi alla creazione del mercato del lavoro (da distinguere bene dal mercato degli schiavi). Il commercio esercita perciò dovunque un’azione più o meno disgregatrice sulle organizzazioni preesistenti della produzione che, in tutte le loro diverse forme, sono principalmente orientate verso il valore d’uso. Ma dove sfoci questo processo di disgregazione, ossia quale nuovo modo di produzione si sostituisce all’antico, non dipende dal commercio, ma dal carattere stesso del vecchio modo di produzione. Nel mondo antico l’influenza del commercio e lo sviluppo del capitale commerciale sfociano sempre nell’economia schiavistica; e, secondo il punto di partenza, nella trasformazione di un sistema schiavistico patriarcale, orientato verso la produzione di mezzi di sussistenza immediati, in un sistema orientato verso la produzione di plusvalore.

Il capitale industriale, sia in quanto capitale monetario sia in quanto capitale-merce, si incrocia con la circolazione di merci dei più differenti modi sociali di produzione: siano le merci il prodotto della produzione fondata sulla schiavitù, o di contadini (cinesi, ryots indiani) o di comunità (Indie orientali olandesi) o della produzione di stato (come quella che, fondata sulla servitù della gleba, si presenta in epoche passate della storia russa), o di popolazioni semiselvagge di cacciatori, ecc. – come merci e denaro esse si trovano di fronte a denaro e merci in cui si presenta il capitale industriale ed entrano sia nel ciclo di questo sia in quello del plusvalore contenuto nel capitale-merce.

Qualunque sia il modo di produzione in base a cui sono stati fabbricati i prodotti che entrano nella circolazione come merci – sia sulla base della comunità primitiva, o della produzione schiavistica o dei piccoli contadini e dei piccoli borghesi o capitalistica – ciò non modifica per nulla il loro carattere di merci ed in quanto merci esse devono percorrere il processo di scambio e le modificazioni di forma che lo accompagnano. È indifferente il carattere del processo di produzione dal quale provengono; come merci esse operano sul mercato, come merci entrano sia nel ciclo del capitale industriale, che nella circolazione del plusvalore in esso contenuto. È dunque il carattere onnilaterale della loro origine, l’esistenza del mercato come mercato mondiale che contrassegna il processo di circolazione del capitale industriale.

Prima che il denaro entri nel processo di autovalorizzazione si presentano varie condizioni che devono essere nate o essere date storicamente affinché il denaro diventi capitale e il lavoro diventi lavoro salariato, ossia lavoro che crea capitale: lavoro salariato, qui, nel senso strettamente economico in cui noi soltanto lo adoperiamo – e in seguito dovremo distinguerlo da altre forme di lavoro, a salario giornaliero ecc. – è lavoro che crea, che produce capitale, ossia lavoro vivo che produce sia le condizioni materiali della sua realizzazione come attività, sia i momenti oggettivi della sua esistenza come capacità lavorativa, in quanto sono forze estranee a se stesso, valori per sé stanti, indipendenti da esso.

L’usura mediante prestito di denaro ai piccoli produttori, che si trovano in possesso delle loro condizioni di lavoro, fra cui l’artigiano, ma soprattutto il contadino, poiché in generale, nelle condizioni precapitalistiche, nella misura in cui queste ammettono piccoli produttori individuali autonomi, la classe contadina deve costituire la grande maggioranza. La rovina del ricco proprietario terriero per opera dell’usuraio e il dissanguamento dei piccoli produttori portano entrambi alla formazione e alla concentrazione di grandi capitali monetari. In quale misura questo processo dissolva l’antico modo di produzione, come si è verificato nella moderna Europa e se lo sostituisca col modo di produzione capitalistico, dipende interamente dal grado dello sviluppo storico e dalle circostanze concomitanti.

Il capitale usurario, in quanto forma caratteristica del capitale produttivo d’interesse, corrisponde al prevalere della piccola produzione, dei contadini che lavorano in proprio, dei piccoli artigiani. Quando al lavoratore, come si verifica nel modo di produzione capitalistico sviluppato, le condizioni di lavoro e il prodotto del lavoro si contrappongono come capitale, egli non ha bisogno di prendere in prestito il denaro come produttore. Quando egli lo prende in prestito, lo fa per i suoi bisogni personali, per es. al monte dei pegni; dove invece il lavoratore è proprietario nominale o effettivo delle sue condizioni di lavoro e del suo prodotto, egli come produttore entra in rapporto con il capitale di chi dà il denaro in prestito e questo capitale sta di fronte a lui come capitale usurario. Newman, quando dice che il banchiere è stimato mentre l’usuraio è odiato e disprezzato perché quello presta ai ricchi, questo ai poveri, non vede che si tratta qui di una differenza fra due modi di produzione sociali e dei corrispondenti ordinamenti sociali e che la cosa non è risolta con il contrasto fra ricchi e poveri.

In realtà l’usuraio che succhia il sangue dei piccoli produttori poveri si accompagna all’“usura” che succhia il sangue al ricco latifondista. Il proprietario di schiavi o signore feudale che si trova indebitato finisce col cedere il posto all’usuraio, che diventa esso stesso proprietario terriero o padrone di schiavi. In luogo degli antichi sfruttatori, il cui sfruttamento aveva un carattere più o meno patriarcale, rappresentando in gran parte un mezzo di potenza politica, subentrarono nuovi ricchi, crudeli e avidi di denaro. In tutti i modi di produzione precapitalistici l’usura esercita un’azione rivoluzionaria solo in quanto distrugge e dissolve quelle forme di proprietà, sulla cui solida base e riproduzione costante nella stessa forma poggia l’ordinamento politico.

Nelle forme asiatiche l’usura può durare lungamente, senza provocare altre conseguenze che non siano la decadenza economica e la corruzione politica. Soltanto dove e quando sussistono le altre condizioni del modo di produzione capitalistico, l’usura costituisce uno dei fattori che concorrono alla formazione del nuovo modo di produzione, rovinando da un lato i signori feudali e la piccola produzione, d’altro lato centralizzando le condizioni del lavoro e trasformandole in capitale. Il produttore diretto non è libero, egli coltiva il suo campo ed esercita in modo “autonomo” l’industria domestica rurale connessa a questa coltivazione. Questa autonomia non è annullata dal fatto che questi piccoli agricoltori possono formare fra di essi, all’incirca come avviene in India, una comunità di produzione più o meno naturale, poiché qui si tratta soltanto di autonomia rispetto al proprietario nominale della terra. Lo schiavo può quindi avere un’esistenza migliore del proletario, ma il proletario appartiene a uno stadio di sviluppo superiore della società, e si trova egli stesso su di un grado superiore a quello dello schiavo. Lo schiavo si emancipa abolendo tra tutti i rapporti di proprietà privata solo il rapporto della schiavitù e divenendo solo in tal maniera egli stesso proletario; il proletario si può emancipare solo abolendo la proprietà privata in genere.

Solo la forma per spremere al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione, foss’anche questo un proprietario “bello e buono” – nobile ateniese, teocrate etrusco, civis romanus, barone normanno, negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno, o capitalista. Quando in una formazione sociale economica è preponderante non il valore di scambio, ma il valore d’uso del prodotto, allora il pluslavoro è limitato da una cerchia di bisogni più o meno ampia, ma non sorge dal carattere stesso della produzione nessun bisogno illimitato di pluslavoro.

Nel sistema capitalistico come in quello schiavistico ecc., il pluslavoro in generale, inteso come lavoro eccedente la misura dei bisogni dati, deve sempre continuare a sussistere; assume semplicemente una forma antagonistica ed è completato dall’ozio assoluto di una parte della società. Una determinata quantità di pluslavoro è necessaria per l’assicurazione contro le disgrazie, per il necessario e progressivo ampliamento del processo di riproduzione corrispondente allo sviluppo dei bisogni e all’incremento della popolazione, che dal punto di vista capitalistico si chiama accumulazione. Uno degli aspetti in cui si manifesta la funzione civilizzatrice del capitale è quello di estorcere questo pluslavoro in un modo e sotto condizioni che sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive, dei rapporti sociali e alla creazione degli elementi per una nuova e più elevata formazione, di quanto non avvenga nelle forme precedenti della schiavitù, della servitù della gleba, ecc.

Smith senza dubbio ha ragione nel fatto che nelle forme storiche del lavoro, quale lavoro schiavistico, lavoro servile e lavoro salariato, il lavoro si presenti sempre come qualcosa di repellente, sempre come lavoro coercitivo esterno, di fronte a cui il non-lavoro si presenta come libertà e felicità. Si tratta, di questo lavoro antitetico, che il lavoro ancora non si è create le condizioni, soggettive e oggettive, affimché il lavoro sia lavoro attraente, autorealizzazione dell’individuo; il che non significa affatto che sia un puro spasso, un puro divertimento. Un lavoro realmente libero, per esempio comporre, è al tempo stesso la cosa maledettamente più seria di questo mondo, lo sforzo più intensivo che ci sia. Le condizioni materiali e spirituali della negazione del lavoro salariato e del capitale, che a loro volta sono già la negazione di precedenti forme di produzione sociale non libera, sono esse stesse risultati del processo di produzione del capitale.

[k.m.]

(il termine “schiavitù” è tratto dagli indici analitici – infra – del Capitale e dei Lineamenti fondamentali)

 

 

Scienza

(sviluppo della verità)

L’inizio della cultura e della liberazione dall’immediatezza della vita sostanziale dovrà sempre consistere nell’acquistare cognizioni di princìpi e punti di vista generali; nel sollevarsi, così, fino al pensiero della cosa nella sua generalità, sostenendola o confutandola tuttavia fondatamente; nell’accoglierne secondo determinati modi la concreta e ricca pienezza, e nel saperne impartire un’onesta informazione e un giudizio non avventato. Ma questo inizio della cultura, prima di tutto, farà posto al rigore della vita piena, che introduce all’esperienza della cosa stessa; e quando, poi, il rigore del concetto sarà disceso nel profondo della cosa, allora quella cognizione e apprezzamento sapranno restare al posto che loro si conviene nella conversazione. La vera figura nella quale la verità [<=] esiste, può essere soltanto il sistema scientifico di essa. Collaborare a che la filosofia si avvicini alla forma della scienza – alla meta raggiunta la quale sia in grado di deporre il nome di amore del sapere per essere vero sapere – ecco ciò ch’io mi son proposto.

L’interiore necessità [<=] che il sapere sia scienza, sta nella sua natura; e, rispetto a questo punto, il chiarimento che più soddisfa è unicamente la presentazione della filosofia stessa. Ma la necessità esteriore in quanto essa, a parte l’accidentalità della persona e della particolare occasione che l’ha sollecitata, venga concepita in modo universale, non è niente di diverso dalla necessità interiore, e consiste nella forma nella quale un’età rappresenta l’esserci dei suoi momenti. Se si potesse mostrare che la nostra età è propizia all’innalzamento della filosofia a scienza, ciò costituirebbe l’unica vera giustificazione dei tentativi che hanno tale scopo, giacché di esso si metterebbe in rilievo la necessità o lo si realizzerebbe addirittura.

La vera forma della verità viene dunque posta in questa scientificità; ciò che equivale ad  affermare che solo nel concetto la verità trova l’elemento della sua esistenza: eppure io so bene che questo sembra contraddire a una certa rappresentazione – e alle conseguenze che ne derivano – la quale, non meno presuntuosa che desiderosa di notorietà, trova il suo appagamento nella convinzione dell’età nostra.

Vale a dire, se il vero esiste solo in ciò o, piuttosto, solo come ciò che vien chiamato ora Intuizione, ora immediato Sapere dell’Assoluto, Religione, Essere – non l’essere nel centro di questo amore divino, ma l’essere stesso di questo centro – allora, prendendo di qui le mosse, per la rappresentazione della filosofia si richiede proprio il contrario della forma del concetto. L’Assoluto deve venir non già concepito, ma sentito e intuito; non il suo concetto, ma il suo sentimento e la sua intuizione debbono aver voce preminente e venire espressi.

Attraverso tutto ciò lo spirito non solo è passato nell’altro estremo della riflessione – priva di sostanza – di sé in sé stesso; ma ha sorpassato anche questa. Non soltanto la sua vita essenziale è per esso perduta; esso è anche consapevole di una tale perdita e della finitezza che ora costituisce il suo contenuto. Respingendo il cibo dei porci, confessando la sua abiezione, imprecando contro di essa, lo spirito pretende ora dalla filosofia non tanto di sapere che cosa esso è, quanto di riuscire, mediante lei, alla ricostituzione della perduta sostanzialità e della compattezza dell’essere.

Lo spirito si mostra così povero, che sembra impetrare, per un po’ di ristoro, il magro sentimento del divino, simile al viandante che nel deserto brama una sola goccia d’acqua. Dalla facilità con cui lo spirito si contenta, si può misurare la grandezza di ciò che ha perduto. Chi cerca soltanto edificazione, chi pretende di avvolgere nella nebbia la terrena varietà della sua determinata esistenza e del pensiero, chi invoca l’indeterminato piacere di quella indeterminata divinità, veda pure dove possa trovare tutto ciò; egli troverà facilmente il mezzo di vagheggiare qualche fantasma e di farsene bello. Ma la filosofia deve ben guardarsi dal voler produrre edificazione. Mentre si abbandonano all’incomposto fermentare della sostanza, costoro, imbavagliando la coscienza [<=] e rinunciando all’intelletto, si ritengono i Suoi ai quali Iddio, durante il sonno, infonde la saggezza; ma ciò che durante il sonno essi effettivamente concepiscono e partoriscono altro non è che sogno.

 Senza tale raffinamento la scienza non può avere il carattere della universale intelligibilità, e assume la parvenza di un esoterico possesso di alcuni individui – un esoterico possesso: infatti in questo caso essa è data soltanto nel suo concetto, o è dato soltanto il suo interno – di alcuni individui singoli: infatti l’apparenza senza espansione singolarizza la sua esistenza. Soltanto ciò che è perfettamente determinato  è anche essoterico, da tutti concepibile e suscettibile di venir da tutti imparato e di essere proprietà di tutti. La via della scienza è la sua forma intelligibile, via aperta a tutti e per tutti eguale.

La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’amore con sé stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e addirittura all’insipidezza quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo.

 Si disconosce quindi la ragione, quando la riflessione, esclusa dal vero, non viene accolta come momento positivo dell’Assoluto. È la riflessione che eleva a risultato il vero, ma che anche toglie questa opposizione verso il suo divenire; giacché il divenire è altrettanto semplice e quindi non diverso da quella forma del vero, la quale fa sì che esso, nel suo risultato, si mostri semplice; esso è, per meglio dire, l’esser ritornato nella semplicità. Se, indubbiamente, l’embrione è in sé uomo, non lo è tuttavia per sé; per sé lo è soltanto come ragione spiegata, fattasi ciò che essa è in sé; soltanto questa è la sua effettuale realtà.

Tra le varie conseguenze che discendono da quello che si è detto, può venir messa in rilievo la seguente: soltanto come scienza o come sistema il sapere è effettuale, e può venire presentato soltanto come scienza o come sistema; inoltre, un così detto principio fondamentale della filosofia, se pur è vero, è poi già falso in quanto esso è soltanto principio. È perciò facile confutarlo. La confutazione consiste nell’indicarne la deficienza; ma deficiente esso è perché è solo l’universale, o perché è soltanto principio, soltanto cominciamento. Se la confutazione è esauriente, essa lo è proprio perché tratta e sviluppata da quel principio stesso, non già perché dal di fuori messa in opera mediante opposte gratuite asserzioni. Così la confutazione sarebbe propriamente lo sviluppo del principio e quindi il complemento di ciò che gli manca, se essa non si misconoscesse badando soltanto al proprio operare negativo, senza divenir consapevole del proprio processo e del proprio risultato, anche secondo il loro lato positivo.

È nel vero senso della parola positiva quella realizzazione del cominciamento la quale viceversa costituisca nello stesso tempo verso di esso un comportamento altrettanto negativo; e, più precisamente, un comportamento negativo verso quella sua forma unilaterale per cui esso è soltanto immediatamente o è il fine. La realizzazione può quindi venire anche presa come confutazione di ciò che costituisce il fondamento del sistema; meglio però essa è da riguardarsi come un indice che il fondamento o il principio del sistema sono, nel fatto, soltanto il suo cominciamento.

Lo spirito che si sa così sviluppato come spirito, è la scienza. Questa ne è la realtà effettuale, ed è quel regno che esso si costruisce nel suo proprio elemento. Il puro autoriconoscersi entro l’assoluto esser-altro, questo etere come tale, è il fondamento, il terreno della scienza, o il sapere nella sua universalità generale. Il cominciamento della filosofia presuppone o esige che la coscienza si trovi in questo elemento.

Ma questo elemento riceve anch’esso la sua perfezione e la sua trasparenza soltanto mediante il movimento del suo divenire. Esso è la spiritualità pura, come l’Universale che ha il modo della semplice immediatezza; tale semplicità, quando ha esistenza come tale, è il terreno, il pensiero che è soltanto nello spirito. Poiché questo elemento, questa immediatezza dello spirito è la sostanza in generale dello spirito, essa immediatezza è anche l’essenza trasfigurata, la riflessione che, a sua volta, è semplice; è l’immediatezza come tale per sé, è l’essere che è riflessione in sé stesso.

Da parte sua la scienza chiede che l’autocoscienza si sia elevata a tale etere, perché questa possa vivere in lei e con lei, e per vivere. Viceversa l’individuo ha il diritto di pretendere che la scienza gli fornisca almeno la scala che conduce a quella superiore posizione, indicandogliela in lui stesso. Il suo diritto si fonda su quella sua assoluta sufficienza a sé stesso che egli sa di possedere in ogni figura del suo sapere; che in ogni figura, dalla scienza riconosciuta o meno, qualunque sia il contenuto, l’individuo è la forma assoluta, vale a dire è la certezza immediata di sé stesso ed è quindi, se si preferisce questa espressione, incondizionato essere. Se per la scienza la posizione della coscienza (sapere, cioè, di cose oggettive in contrapposizione a se stessa, e di se stessa in contrapposizione a quelle) vale come l’Altro – come ciò in cui la coscienza si sa presso se stessa, o addirittura come la perdita dello spirito – per la coscienza, all’incontro, l’elemento della scienza è un lontano al di là, dove essa coscienza più non si possiede. Ciascuna di queste due parti sembra costituire per l’altra l’inverso della verità. Può accadere che la coscienza naturale, senza neppur sapere che cosa la spinga a ciò, voglia affidarsi immediatamente alla scienza; ma questa pretesa non è che un nuovo tentativo di camminare con le gambe per aria.

Il noto in genere, appunto perché noto, non è conosciuto. Quando nel conoscere si presuppone alcunché come noto e lo si tollera come tale, si finisce con l’illudere volgarmente sé e gli altri; allora il sapere, senza nemmeno avvertire come ciò avvenga, non fa un passo avanti nonostante il grande e incomposto discorrere che esso fa.

Senza ponderazione, il soggetto e l’oggetto ecc., Dio, la natura, l’intelletto, la sensibilità ecc., vengon posti a fondamento come noti e come qualcosa che ha valore sicuro, e costituiscono dei punti fissi per l’andata e il ritorno; il movimento corre su e giù tra questi punti che restano immoti e ne sfiora soltanto la superficie.

Il vero e il falso appartengono a quei pensieri determinati che, privi di movimento, vorrebbero valere come particolari essenze delle quali l’una sta di qua, l’altra di là rigidamente isolate e senza reciproca comunanza. Contro una simile concezione si deve decisamente affermare che la verità non è moneta coniata, la quale, così com’è, possa venir spesa e incassata. C’è un falso, quanto poco c’è un cattivo. Falso e cattivo non son mica perfidi come il diavolo, tant’è vero che, volendoli prendere per diavoli, di essi si verrebbe a fare dei soggetti particolari; mentre essi, in quanto falso e cattivo, sono soltanto degli universali pur avendo, l’uno rispetto all’altro, una propria natura.    

[g.w.f.h.]

(da G.W.F. Hegel, Prefazione alla Fenomenologia dello spirito)

 

 

Sciopero

(concetto)

Il nostro presente di crisi è contrassegnato – ancora – da manifestazioni di dissenso politico e sindacale; alcune di queste culminano in scioperi. Sembra opportuno o proprio necessario, in specie per l’attuale, emblematica vicenda Alitalia che ultimamente ha anche rinverdito la prassi dello sciopero selvaggio con tanto di precettazione al seguito, fornire alcune informazioni storico-giuridiche in merito al concetto e alla pratica dello sciopero.

Che in quanto cittadini di uno “stato di diritto” si goda di diritti di libertà, di diritti politici e del diritto di sciopero, è acquisizione teorica ormai comune, saldata nella garanzia costituzionale italiana. Ciò che non tutti sanno è che però la Costituzione garantisce solo una diseguale possibilità di avvalersi di tali libertà. Apparentemente universali, le libertà costituzionali non lo sono più, infatti, nel momento in cui il loro esercizio contrasta con l’esistenza e l’efficacia del potere costituito (in ogni sua formulazione di classe). La conquista delle libertà democratiche è stata possibile nell’ambito delle lotte storiche vòlte alla modifica dei rapporti di forza, nell’opposizione sociale basata sulla conflittualità degli interessi tra capitale e lavoro. Una volta conquistate alla società tutta, queste libertà, in quanto ormai norma costituzionale, non si possono però ritenere automaticamente applicabili alla realtà. Poiché sempre dipendenti dallo stato dei rapporti di forza sociali, esse sono da difendere quotidianamente in ogni ambito di attività civile, proprio perché formali, ovvero astratta possibilità d’azione, a prescindere dalla concreta esistenza materiale del loro uso. Esse permettono di contenere o limitare le forme di sfruttamento e oppressione, che continuamente gli interessi capitalistici (peraltro mai trasparenti per le masse) impongono, veicolate da chi esercita il potere in loro nome.

Il diritto di sciopero dà conto, al di là delle mistificazioni ideologiche del potere, dell’esistenza conflittuale delle classi reali, intente a conseguire vittorie le une sulle altre all’interno di uno stato. Esso costituisce l’arma principale delle classi subalterne, per difendersi dalla continua aggressione, da parte dei governi, alle condizioni di vita e di libertà possibili. È su questo, infatti, che storicamente è sempre stata esercitata la massima pressione borghese alla sua limitazione, regolamentazione, imbrigliamento, se non proprio alla sua eliminazione, nel relegarlo, se possibile, al di fuori della “legalità”.

Riconosciuto nell’art. 40 della Costituzione promulgata nel 1948, la legge per la sua regolamentazione concreta non fu emanata per tutti gli anni ‘60, proprio per l’alto livello di lotte sindacali in atto nel paese. Il diritto di sciopero è stato giuridicamente definito diritto soggettivo, avente però fini economico-sindacali. Non a caso l’inadempimento costituzionale parziale (mancata attuazione o applicazione di alcune norme che garantiscono situazioni soggettive attive) ha riguardato tutti i cosiddetti “diritti sociali” (diritto al lavoro, eguaglianza dei punti di partenza, allo studio, ecc.), tra cui quelli relativi alle associazioni sindacali e allo sciopero.

Esso è il culmine pratico cui tendono tutti i diritti di libertà, senza il quale le pur affermate libertà democratiche vengono a svuotarsi di contenuto, restano marginali e prive di significato. Ottenuta ormai la disintegrazione di ogni forma di opposizione efficace al mantenimento del reale conflitto di classe, mistificato nelle forme partecipative della pace e dell’armonizzazione sociale, il principio di manipolazione del reale si è esteso in tutti gli ambiti della vita civile. Salva l’apparenza formale e cerimoniale della società “democratica”, viene negato in primo luogo il diritto all’informazione e alla conoscenza (monopolio delle testate giornalistiche e dei canali radio-televisivi, revisionismo ideologico, storico, inquinamento delle fonti documentarie, ecc.).  Nell’informazione negata attraverso la pletora delle morbosità e dei fatti inessenziali, la verità della lotta di classe (e quindi la necessità del diritto di sciopero e della sua praticabilità) non viene più riconosciuta, e chi vorrebbe ancora rivendicarla viene tacciato di essere antidemocratico nel senso opposto di antisociale. Questo falso ideologismo di identità tra sociale e armonico pluralismo è stato fatto passare – gradualmente, cioè insensibilmente – attraverso i maggiori sindacati che rappresentavano i lavoratori più coscienti, e quindi più pericolosi per un sistema che si apprestava a sottrarre ogni autonomia difensiva alle masse.

Stornare i diritti di libertà in astratti e generici “diritti umani” (mai rispettati), o incanalarli verso derive neutre o mistificanti è sempre stato un continuo interesse dei detentori del potere politico. L’esercizio delle libertà indifferenti per il potere è stato sapientemente incoraggiato (droga, consumismo, tifo sportivo, ecc.) nella esasperazione di un individualismo autoreferenziale, mentre al contrario è sempre più difficile che le libertà di opinione, di manifestazione, incluso lo sciopero, ecc. trovino ormai, una volta realizzate, una loro efficacia sociale nell’insabbiamento istituzionale di ogni dissenso.

Superato il ventennio fascista in cui lo sciopero era considerato reato (art. 502 e sgg. del codice penale), in un lungo periodo postbellico se ne è praticata l’indifferenza o la protezione. Mentre quella ha per lo più lasciato gli scioperanti alla mercé dei diversi arbìtri padronali, quest’ultima ha cercato di inscrivere nelle forme esanimi del diritto la concreta realtà di lotta, epurandola però di tutta la carica di conflittualità sociale. Lo stato borghese si è fatto ormai più forte: non teme più lo sciopero, precedentemente costretto ad esecrarlo nel reato, lo ingloba invece nel suo ordinamento perché in grado di svuotarne la forza rivendicativa. La natura di rottura dell’unità sociale racchiusa nello sciopero - dietro cui il potere borghese vorrebbe celare il suo ruolo di comando sul lavoro e sulla volontà altrui piegandola al consenso – evapora dietro un’apparente liceità di esercizio, quando poi partiti e sindacati addomesticati non gestiscono più alcuna forza di contrapposizione in sede parlamentare o governativa, ma solo l’esistente di un presente come infinità ricorrente. Viene così a rafforzarsi sempre più da parte padronale la necessità di sprangare entro steccati di legge le modalità dello sciopero, dichiarandone fuori legge quello improvviso o selvaggio (con tanto di rimozione e sanzioni), quello bianco, con picchetti, ecc. Si richiama il paese ai “valori”: alla “civiltà” non meglio identificata, ai “doveri” da contrapporre ai “diritti”, all’esecrazione di una lotta che non si possa immediatamente ammanettare per legge dentro le gabbie di un sempiterno diritto proprietario [cfr. U. Rescigno, Costituzione italiana e stato borghese; P. Barile, Corso di diritto costituzionale].

[c.f.]

 

 

Scrittura

(originalità, citazioni, plagio)

La comprensione politica dello stato di cose esistente

include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso,

la comprensione del suo necessario tramonto,

perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento,

quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire

ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza. [Marx]

Tutte le volte che si “deforma” un altro scrittore, si prendono le distanze da ogni apologia della “purezza” della scrittura. I testi così prodotti non sono “nuovi” oggetti propriamente teorici, artistici, ecc.: sono momenti del rapporto (scambio comunicativo) tra chi fa il testo, chi lo legge (o ascolta) e quell’oggetto materiale che è il testo. Lo spazio che occupano questi testi è soprattutto uno spazio mentale, eppure essi ostentano le materie prime di cui sono composti, sillabe, parole, frasi, timbri, toni, e i significati sociali che veicolano; prendono posto nello spazio (culturale e sociale), e vogliono proporsi come istanza conoscitiva di quello spazio. Si stabilisce, nei testi, un certo rapporto col mondo, anche indipendentemente dallo scrivente e dal mondo: convinti, con Brecht, che chiunque conosca il valore di un’espressione riuscita preferirà riprenderla così com’è, piuttosto che esprimere ancora una volta la stessa cosa in maniera diversa, dando vita in tal modo a una nuova espressione che o non è all’altezza della vecchia o la mortifica. Quando si “deforma” uno scrittore, si utilizzano le sue parole come materia prima per concretizzare, nella forma del testo, il rapporto col mondo. Da un testo all’altro, si continua un unico discorso, espressivo e comunicativo, un discorso incoerente a volte, e in continuo svolgimento, spoglio, zeppo di zone d’ombra e senza calma interiore. La distorsione (e l’inversione) degli enunciati di un altro scrittore sono uno dei modi per tenersi sulle cose, e poter operare destabilizzando la scrittura. È questo un modo concreto di smontaggio-rimontaggio dell’esistente conservando-abolendo-rielaborando gli elementi (sociali) a cominciare da un progetto di ripensamento (collettivo) di tutto l’edificio sociale.

Con Vittorini: l’uomo oggi ha bisogno di riflettere, ha bisogno di rendersi criticamente conto delle cose, di rifiutare e di scegliere, e invece continua a dominare un discorso acritico, autoritario, un discorso che porta a sottomettersi e ad accettare, ad identificarsi, a integrarsi. Il punto focale di siffatto procedimento è ancora caratterizzato da una tecnica intesa a strappare il lettore all’ovvietà con cui i fatti appaiono alla coscienza [<=]: lo straniamento. Lo straniamento – il presentare cioè sotto un’angolazione inattesa (insolita e sorprendente), che metta in crisi le convinzioni acquisite di chi legge o ascolta – implica la rimozione radicale di quelle possibilità di identificazione e di catarsi su cui si fonda la comunicazione che vuol confermare le convinzioni (e convenzioni) acquisite e sublimarle, inibendo la riflessione. Si potrebbe parlare, allora, di una speciale pratica linguistica che, oltre i segni della subordinazione, elimina anche le tecniche tranquillizzanti. Per certi aspetti, avviene questo: innanzi al linguaggio [<=] della comunicazione neocorporativa [<=] e critico-mistica (mistificatore e menzognero), si vuole provare in questo modo a dare un modello particolare di “descrivere” la realtà, elaborato per far risaltare, del lettore, la vocazione ad agire (a congetturare, a creare), piuttosto che la sua inclinazione ad essere agito, ad essere assimilato e integrato nel mondo così com’è [Vittorini, ancora]. Così si manipolano e creano, con asprezza e attraverso il montaggio sapiente e cosciente, contorti labirinti propositivi di un nuovo modo di “leggere”, non rassicuratore, teso, impegnativo. [Si tratta, in fondo, del recupero della funzione destabilizzante della scrittura].

Senza negare il carattere illusorio della scrittura (veicolo sociale di falsa coscienza), il testo che così si produce è sempre interrogativo, e le sue (infelici) affermazioni non sono altro che approssimazioni formulate con discrezione, dopo le quali non resta che approntare nuove approssimazioni (che verranno certamente). L’atteggiamento di negazione di un dato preordinato (e pre-esistente) dovrebbe essere presente ogni volta che si scrive (o si dice), in modo che la critica sfilacciata corrispondesse ad un modo determinato di intendere il guasto del mondo: senza sfumare nell’ineffabile, afferrarlo, possedere l’esperienza vitale di se stessi nel mondo: sprofondare nelle cose. Per le vie insidiose della parola (comunicazione ed espressione) e del gesto (espressione e azione), si amplia lo stupore fino ad attuarsi nel mondo. Mischiando e sollevando le parole di un altro scrittore, si perviene a configurare i fondamenti di un’altra esperienza possibile, critica e propositiva insieme, non unica né esclusiva. Spesso si può intervenire su uno scrittore cercando di isolare nel bianco una sua frase, fino a destabilizzarne il suo significato originario, intervenendo su di essa cancellando, spostando, modificando. affinché risulti chiaro che il testo prodotto ex novo parte da quella frase, ma non è quella frase. Anche il caso entra a far parte del processo, aprendo un libro e poggiando lo sguardo su una parola, e provando a posarla dentro la frase precedente. Una mossa rischiosa, certo, ma che porta diritto al rifiuto d’ogni fenomeno d’identificazione: silenziosi suggerimenti propongono shock, la sorpresa di certi accostamenti invita a tracciare altre frasi, altre sovrapposizioni, tagli.

Il rovesciamento dei significanti suggerisce nuove ipotesi di significato, e viceversa. Molti testi sono prodotti disarticolando citazioni. Si può produrre qualsiasi cosa senza venire a contatto con altri? La riservatezza non interessa. Non c’è nulla di più idiota della propria firma. La firma evoca il disagio della proprietà [<=]. Annullare la firma (e con essa anche la fonte delle citazioni) per collettivizzare la scrittura. La concezione della scrittura destabilizzante (anonima e collettiva), insomma, non parte dal presupposto che il testo sia un tutto compiuto e definitivo, una costruzione cui non è possibile aggiungere nulla. La trascrizione in testo del complesso mentale, polverizzata e sparpagliata, obbliga a fare altri testi, che superino i precedenti (che, negandoli, insieme li contengano) – e il lettore contribuisce al processo.

[n.g.]

 

 

Sindacato e scioperi

(storia)

La riuscita degli scioperi è indissolubilmente legata alla qualità dell’a-zione sindacale, e ambedue sono dipendenti dalle diverse condizioni storiche. La stessa definizione di sindacato va quindi letta nel contesto storico, al cui interno emergono problematicità ineludibili per la sua evoluzione futura. È qui ricostruita una stringatissima sintesi della storia sindacale italiana fino alla fine degli anni ‘60, anni in cui si sono costituite le basi teoriche, politiche, sociali dello svuotamento istituzionale della combattività di classe. Soprattutto chi fa sindacato, al ricorrere delle crisi, non può sottovalutare le possibilità di intervento legate a realtà economiche internazionali e a rappresentanze politiche specifiche. Il ruolo del sindacato, non politico, si misura sul terreno politico entro la densità di tutti i condizionamenti storici del passato.

Torino, novembre 1943: gli operai posero agli industriali piemontesi e al comando tedesco le seguenti rivendicazioni: 1) aumenti salariali del 100%; 2) raddoppio di alcune razioni alimentari; 3) un litro di latte al giorno per ogni bambino; 4) diritto di sospendere il lavoro durante i bombardamenti. A fascismo indebolito, i sindacalisti fascisti con fazzoletti rossi sulla camicia nera sostennero il “fallimento del sistema capitalistico” [S. Turone, Storia del sindacato in Italia 1943-1969]. Il padronato era diviso tra interessi immediati e necessità di non compromettersi con i futuri vincitori. Gli scioperi si articolarono anche in Lombardia e Liguria, in un momento in cui l’esercito tedesco era diventato di occupazione. A Pontedecimo e Bolzaneto tre operai furono fucilati (17 dicembre), e successivamente vi furono scioperi contro questi assassinii, scontri, attentati e altre fucilazioni. Le azioni sindacali divennero automaticamente parte della Resistenza, assumendo così una valenza politica di classe, ma in modo parzialmente indipendente, dalla contingenza bellica. Le rivendicazioni economiche e salariali alla base, che nella lotta avevano trovato espressione unitaria organizzata dai comitati segreti di agitazione, avevano mostrato l’inscindibile nesso strategico tra fattori sindacali e progettualità politica.

Il clima in cui si svolsero gli scioperi del novembre-dicembre 1943 e del febbraio1944, richiese la creazione, a fianco delle Corporazioni, di un ministero del Lavoro (1945) che, tenendo i rapporti con i sindacati, fosse in grado di varare la progettata “socializzazione delle imprese”, definiti dai manifestini del Cln “una truffa”.

Stando alle dichiarazioni delle autorità fasciste gli scioperi nel ‘44 furono 208.549, con una precisione alquanto dubbia. Ma sia il numero elevato sia la combattività del momento offrirono un quadro preciso di come fosse possibile colpire il sistema sul piano economico, con la sola dura attività sindacale, data la deportazione in Germania, come risposta padronale, di circa 60 ferrovieri e altri 38 mandati a morire nei campi di sterminio. Il 21.6.1944 la “Gazzetta ufficiale” di Salò pubblicò un decreto secondo cui gli organizzatori degli scioperi avrebbero avuto comminata la pena di morte.

Negli anni ‘50 venne introdotto anche in Italia il taylorismo soprannominato “da straccioni”. Sperequazioni alimentari, abitative, lavorative erano aggravate da inadempienze imprenditoriali: elusione del pagamento delle festività lavorative, delle tredicesime, dei contributi assicurativi, licenziamenti per gravidanza o matrimonio alle donne, alto tasso di disoccupazione, precarietà lavorativa, ecc. Tra il ‘48 e il ‘55 si rese sistematico il controllo sull’orientamento politico dei lavoratori, per la raccolta di dati sulla “condotta morale” e sulla “condotta politica dei dipendenti.

L’operazione di scissione sindacale contro la Cgil (1948/9) fu portata avanti dai democristiani, in ossequio a un piano vaticano, e dalla parallela assistenza strategica e finanziaria di sindacalisti Usa, di cui alcuni appartenenti alla Cia o ad organizzazioni di controspionaggio. La diplomazia “da sindacato a sindacato” evitava “le inibizioni di un rapporto governativo ufficiale”. La Cgil fu oggetto di un’offensiva politica che la relegò nell’isolamento, coerentemente all’indebolimento dell’influenza comunista, portato avanti dai “consulenti” e agenti americani. Nacque così la Cisl (Bari 1951). La sua “filosofia” può essere riassunta nelle affermazioni fatte nell’opuscolo I lavoratori difendono l’Italia, l’Italia difenda i lavoratori, secondo cui, “nel­l’ambito di un generale sforzo”, i lavoratori erano pronti “a rinunciare a rivendicazioni salariali d’ordine generale”, che non fossero “connesse ad incrementi effettivi della produttività del lavoro”.

Per tutti gli anni ‘50 fu combattuta contro il partito comunista e la Cgil una guerra senza esclusione di mezzi, sia sul piano costituzionale (relativamente agli art. 39 e 40), sia sul piano politico, sia entro la stessa rappresentatività sindacale. Negli anni cruciali della guerra fredda fu avviata una vertenza (‘52-‘54) chiamata del “conglobamento”. Nella paga-base si chiedeva di “conglobare” l’assegno di carovita e le indennità minori, i lavoratori chiedevano anche aumenti salariali. Il quadro politico, il rifiuto della Confindustria e la fragilità dell’unità sindacale, tripartita anche nella Uil, portarono a un accordo, esclusa la Cgil, in cui gli aumenti salariali minimi, inferiori all’aumento del costo della vita, restarono al di sotto del 50% di quelli inglesi, di 1/3 di quelli francesi, tedeschi, belgi.

Nessuna democrazia di base fu sviluppata. Molti appartenenti alle commissioni interne della Cgil continuavano ad essere licenziati (‘55) e le pressioni repressive fecero temere una svolta “a destra”. Alla fine degli anni ‘50 l’Italia risultò il paese “con il maggior numero di operai implicati negli scioperi” ma fra gli ultimi su 28 paesi per durata delle agitazioni stesse. Il sindacato non ebbe cioè rilievo nei miglioramenti delle condizioni di vita, elargite invece dal pieno controllo padronale su tutti i fattori produttivi. Fu mostrato che il maggior benessere dipendeva dalla riduzione delle lotte; in concomitanza il clericalismo integralista favorì lo sviluppo della scuola privata a detrimento di quella pubblica – nell’annullamento costituzionale da allora fino ad oggi, nell’autoproclamarsi “sentinella dei diritti negati”! I parroci avevano assunto un ruolo primario – di filtro e garanzia - nelle assunzioni alla Fiat, e non solo [cfr. Nuovi argomenti, giugno 1958].

Gli anni ‘60 si affacciarono tra il “miracolo economico”, gli scioperi e la repressione poliziesca: a Genova (giugno) contro gli antifascisti; a Licata con l’uccisione di un uomo, a Roma con la carica dei carabinieri a Porta S.Paolo, a Reggio Emilia (7 luglio) con 5 morti, a Palermo con altri 3 morti e a Catania con uno. Nel gennaio del ‘61 si tenne una “prima conferenza triangolare” fra governo, Confindustria e sindacati per un accordo sulla contrattazione integrativa (singole province o aziende avrebbero potuto integrare o ritoccare i contratti nazionali di categoria). A livello aziendale fu introdotta la job evaluation (distribuzione delle mansioni in base alle capacità dei singoli), che avrebbe sottratto terreno al ruolo sindacale proprio mediante il rapporto diretto tra direzione e lavoratori.

Gli obiettivi sindacali, rafforzata una tematica unitaria, si volsero in direzione di uno sviluppo democratico generale, superando le rivendicazioni solo immediate. La non spoliticizzazione del movimento sindacale sembrò essere una sua maggiore utilizzazione a vantaggio del Pci. All’aumento dei profitti in Italia, dovuti all’espansione del Mercato Comune, si tentò, da parte della Cee, di destinare al risparmio i miglioramenti retributivi, in modo da poterli riutilizzare a vantaggio dei capitali (proposta già della Cisl nel ‘56). Il mutamento politico con il centro-sinistra italiano era favorevolmente accolto dalla presidenza Kennedy, invitando a una politica riformista in grado di isolare il Pci. Nel ‘62 si ebbe un primato di scioperi: 181 milioni di ore, superato solo nel ‘69. Quasi tutte le categorie vi parteciparono per il rinnovo dei contratti, ma la vertenza pilota fu quella dei metalmeccanici. S’iniziò un rapporto unitario tra sindacati – e non più di discriminazione tra sindacati “democratici” e “socialcomunisti” – dopo gravi episodi di provocazione a Torino (luglio), con scontri con la polizia. Eventi politici di rilievo come l’assassinio di Kennedy (22.11.‘63) e in Italia la scissione Psi –Psiup (11.1.‘64) determinarono ripercussioni anche all’interno dei sindacati. Si maturò un divario sempre maggiore tra stato – cioè classe dirigente governativa con porzioni di opposizione gradualmente risucchiate al suo interno – e società civile.

Venne riproposto il “risparmio contrattuale” tanto caro all’obiettivo “partecipazionista” veicolato dalla Cisl, ma rispondente all’organizzazione “corporativa” della società, con tanto di “consultazione mista” portata avanti dalla Bassetti. Aumento della competitività, riduzione dei costi di produzione, ammodernamento degli impianti con conseguente minor utilizzazione di lavoro vivo, portavano alla luce, anche in Francia, l’esperimento della “politique paritaire”, ovvero un sistema di “codecisione” fra imprenditori e sindacati per “moderare le resistenze degli operai agli incrementi della produttività”. Diversa dalla “cogestione” adottata in Germania (presuppone una convergenza di interessi), la "consultazione mista" diventa un rapporto contrattuale “non più rivendicativo nel senso tradizionale” [G. Giugni], nel senso che “non si limita a prendere atto delle decisioni dell’impresa per negoziarne le condizioni di accettazione, bensì pone in discussione le stesse, pur restando disponibile per soluzioni che, ovviamente, in quanto frutto di discussione, non appagheranno mai totalmente né l’una né l’altra parte. Non si trattò di riduzione del potere padronale, parzialmente ottenne la “cattura” dei sindacati, ma – come confermò lo stesso Bassetti – di “sostituire all’autorità-autoritaria l’autorità basata sul senso critico”, passando a una specie di “potere costituzionale” nell’azienda. I sindacati minori, senza la Cgil, si trovarono così a operare entro una sorta di tutela della controparte, in grado anche di ricattare, qualora si fossero verificati tentativi di sottrarvisi. L’impresa aveva l’unico obiettivo di efficienza produttiva, e non di sbocco negoziale.

Nel ‘64 si verificò la crisi: calo degli investimenti e dell’occupazione. I sindacati si fecero carico di una programmazione economica cui avrebbero collegato l’azione salariale, ma tale disponibilità non sarebbe stata garantita se il governo avesse fatto pesare la congiuntura sulle spalle dei lavoratori o peggio, sul sacrificio dei salari. Queste trattative si svolsero sotto la minaccia di un colpo di stato (14-15 luglio) ordito da A.Segni presidente della Repubblica, De Lorenzo generale dei carabinieri, Rossi generale, capo di Stato Maggiore, Vicari, capo della polizia. La commissione parlamentare del ‘71 riuscì “nel prodigio di esonerare tutti i responsabili politici, e di imputare al generale De Lorenzo un semplice eccesso di zelo. Alla fine delle duemila pagine del rapporto il lettore si domanda il perché d’una simile inchiesta, dato che nel 1964 sembra che non sia accaduto assolutamente nulla” [Jacques Nobécourt, l’Italia al vivo, Etas-Kompass, Milano, 1971]. Non fu possibile accertare fino a che punto fossero in azione i programmi d’intervento Nato. Il programma operativo non fu completato, ma intanto la minaccia ebbe i suoi effetti, in particolare, sulle strategie difensive se non proprio di assenza di attacco, da parte sindacale.

In un anno, al gennaio ‘65 gli occupati metalmeccanici scesero di 100.000 unità, i tessili di 60.000 unità, gli edili di 150.000 unità, gli investimenti scesero del 20%. Al calare dell’occupazione calarono anche gli scioperi (da 104 milioni di ore nel ‘64 a 55 milioni nel ‘65). Gli obiettivi furono per lo più la difesa del posto di lavoro, e si portò avanti il “premio di produzione”, a sostituzione delle concessioni unilaterali padronali, ma nessuna piattaforma per il controllo dell’organizzazione del lavoro. Nell’agosto ‘65, all’aumento della produzione industriale in un anno (8,5%), corrispose una diminuzione occupazionale del 5,2%, aumentando il rendimento lavorativo del 14,5%. L’aumento salariale del 3,3%, nominale, nascondeva il calo del 4,7%, se non del 9% (con l’accresciuta disoccupazione) del salario reale.

I miglioramenti economici conseguiti con i rinnovi contrattuali degli anni successivi furono pagati da un maggior logorio psicofisico dei lavoratori (aumento dei ritmi) e da un maggior disagio sociale (emigrazione interna). La razionalizzazione capitalistica alla fine degli anni ‘60 aveva generalizzato l’eliminazione dei tempi morti, la cottimizzazione del lavoro, l’aumento degli infortuni (nel solo ‘66 furono 1.100.000, nel ‘67 aumentarono del 6%). In un’inchiesta di G. Bocca del ‘68 un ingegnere, alla richiesta di usare una “mano meccanica” per un lavoro pericoloso, rispose: “ Sì, una mano meccanica potrebbe sostituire quella dell’uo­mo, ma se si inceppa mi rompe lo stampo”.

Cominciarono gli scioperi improvvisi, la “disaffezione al lavoro” ovvero le assenze dalla fabbrica “scientifica”. Nel ‘67-‘68 l’età media degli operai alle catene Olivetti più avanzate era di 28 anni, di 22-27 anni alle presse, a 35 anni si era considerati vecchi, a 40, se si perdeva il posto, si sarebbe trovato forse un posto a paga modesta. L’insicurezza, l’insufficienza pensionistica, l’aumento delle esigenze sociali, legheranno il consenso operaio alla pratica degli straordinari, contro i cui abusi il sindacato incontrerà molte difficoltà. Nacquero i primi Cub nel ‘68, con una massiccia partecipazione operaia e studentesca a dibattiti e lotte aziendali. Vennero indetti scioperi, che durarono per tutto il ‘69, per le vertenze pensionistiche e per l’abolizione delle “gabbie salariali”.

La polizia non rinunciò, ad Avola (dicembre ‘68), ad ammazzare due lavoratori nel corso di una manifestazione contro il “caporalato” e la precarietà dei braccianti meridionali. Fu messo in discussione il ruolo del sindacato, e il ‘69 fu l’anno in cui le lotte sindacali gestite dai comitati di base raggiunsero il loro acme. La manifestazione del 28.11. 1969 di centomila metalmeccanici a Roma chiuse la stagione combattiva da parte del lavoro. Il 12.12.1969 cominciavano le stragi di stato con i fondi neri – a tutt’oggi impunite – con le bombe a Milano.

[c.f.]

 

Sociale

Il termine “sociale” è usato ormai, nella nostra “cultura comunicativa”, come colluttorio, palliativo per molti mali. Tende più a evocare ricordi di una democrazia in via di spegnimento, a conforto emotivo più che di precisazione razionale di relazioni storicamente individuabili. Già nel secolo scorso era chiaro quanto nebulosa e sviante potesse essere la sua utilizzazione in funzione sostitutiva di determinazioni reali, nell’ammiccamento di concetti adombrati, e perciò continuamente confusi nella genericità dei contenuti. Così Marx – ad esempio – nella Critica del programma di Gotha (1875), si scagliava contro la famosa “questione sociale” di Lassalle, coniata al posto “della esistente lotta di classe” [<=]. Quella “frase da giornalista” – che Marx poneva sotto processo – oscurava infatti il concetto di “processo di trasformazione rivoluzionaria della società”, in cui è il lavoratore che “crea”, e non lo stato, le condizioni della produzione come pure le proprie forme di rappresentanza. Analogamente oggi, a forza di sentir parlare di “stato sociale” [<=], siamo indotti a pensare che non noi, ma lo stato, paghi le tasse, le pensioni, la sanità, ecc., in un accesso di caritatevole privilegiamento democratico [<=]. Non le lotte per il salario [<=] dunque, avrebbero conquistato quel minimo di vivibilità sociale, appunto, entro le condizioni capitalistiche dominanti, bensì uno “stato” ipotetico identificato con la continuità cangiante dei suoi governi. Tale stato invece, mediante i fascismi, le Dc, i centrosinistra fino agli ulivi, ha organizzato sulle imposte la base economica del consenso [<=] sociale, come dire delle masse da stabilizzare nella subalternità.

La separazione tra stato e società, in séguito alla divisione del lavoro in continua trasformazione, si accentua progressivamente senza accennare a connubi che non siano deliberata creazione di falsa coscienza [<=]. Ancor oggi è vero quanto diceva Marx, che “la giustizia criminale è dappertutto gratuita” (si pensi allo stragismo da Piazza Fontana a Ustica, ma anche alle delocalizzazioni “globalizzate” albanesi, somale, irakene, ecc.), mentre “la giustizia civile si aggira quasi esclusivamente intorno a conflitti di proprietà”, demandando agli espropriati il pagamento delle sole spese. Oggi, ancora, l’istruzione [<=] di stato dev’essere sottratta alla norma costituzionale, per far pagare al “sociale” un’irreggimentazione clericale e confindustriale sotto le mentite spoglie di una indeterminata funzione pubblica. “Sociali” sono solo le tasse cittadine che aumentano (il cosiddetto “riccometro” non fa che dissanguare ulteriormente redditi medio-bassi, a salvaguardia di quelli superiori, mentre quelli inferiori, con altri meccanismi selettivo-sociali, sono stati preventivamente esclusi da qualificazioni più alte dello studio).

Finalmente oggi, dalle veline del Fmi, si evince il moderno significato “sociale” dello stato: a) rapina del salario [<=] differito o pensioni maturate, giustificata “a favore delle generazioni future”, da connettere alla b) sparizione di fatto di una giornata lavorativa [<=] ridotta e irregolare, comunque flessibile e deregolamentata, di cui sindacati istituzionali dovranno apparentemente regolare gli orari per ridurne il salario diretto. Il tutto dev’essere accompagnato da c) politiche monetarie e fiscali che richiedono consenso [<=], in cui l’abitazione, la salute, l’istruzione sono indicati dal Fmi stesso come questioni da trasferire al privato: il “privato sociale”, appunto. Quest’ossimoro fuor d’ogni logica trova purtroppo la sua credibilità nello slogan che eguaglia, a parole, dominante e dominato, facendo svanire gerarchie e differenze, pure determinabili senza alcun bisogno di travestirsi da comunisti. Il lavoro sociale potrà essere pertanto risucchiato, anche tramite lo stato, senza più limiti d’orario (l’informatizzazione comporta l’impossibilità spazio-temporale di definire quantità e qualità di prestazioni lavorative magari plurime, in funzione di una quantificazione esatta come la salarizzazione richiederebbe), ma in compenso con totale arbitrio salariale.

La cancellazione della determinazione economica capitalistica ha sempre funzionato come base su cui erigere teorie di “stati etici”, “stati liberali” (al di sopra delle parti), “stati democratici”. Un discorso separato è d’obbligo per i cosiddetti “stati comunisti”, da ricordare qui per l’analoga divaricazione tra apparato di potere e relazionalità sociale (un chiarimento specifico a tutt’oggi manca; per ora è essenziale coglierne la parabola storica in termini di distanziamento oggettivo e progressivo dalle masse, gestite pertanto sempre più dispoticamente).  Permanendo le determinazioni economiche basilari entro cui il sistema, dall’800 a oggi, ha per lo più sviluppato capacità tecnologiche e scala produttiva, è corretto riaffermare l’attualità anche dei criteri politico-sociali ivi analizzati storicamente già da Marx. Gli stati sociali (ovvero le classi di origine feudale) sorti dal mutamento degli stati politici furono il compimento della Rivoluzione francese. Essa “fece delle differenze di stato della società civile soltanto delle differenze sociali, differenze della vita privata, che sono senza significato nella vita politica”. La separazione della vita politica dalla società civile, come stato privato, fu il sostanziale affrancamento dalla precedente identità immediata medievale. È da quasi due secoli, quindi, che la rappresentazione politica dominante illude le masse circa la sua astratta unitarietà, come volontà di governo e volontà della società civile, per fugare ogni opposizione ostile che possa trasformarsi in scontro materiale.

Il cosiddetto “stato sociale” odierno affonda pertanto le sue radici nelle “nuove” teorie idealistiche ottocentesche, che volevano gli affari dello stato essere “gli affari di tutti, dove essi hanno diritto di essere presenti col loro sapere e volere”. (Si pensi soltanto, a mero titolo d’esempio, ai reiterati discorsi di uno Scalfaro!). Ma il nostrano nuovismo – e buonismo – sembra dimenticare che ognuno dei tutti, quale membro dello stato, ne è anche sua parte, esistenza sociale ovvero reale partecipazione allo stato. Quest’ultimo quindi è, a sua volta, loro parte. Avere pertanto una funzione realmente e consapevolmente sociale, non è da intendersi nel senso oggettivamente generico, bensì nel senso della funzione politica specifica che ognuno svolge, in quanto processo di costituzione della società stessa. In altre parole, ogni bisogno sociale, che trovi posto entro lo stato politico, deve verificarsi nel suo significato sociale come politico, come conflitto col potere governativo, di contro a cui soltanto acquista esistenza reale [cfr. Karl Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto].

Coerentemente a quanto detto, ben altro significato assumono allora altri termini di propaganda come “partecipazione”, “politica”, “democrazia sociale” o espedienti illusionistici come “lavori socialmente utili”, ecc. Sociale, quando non è pura tautologia, si riferisce ad una molteplicità di parti che in nessun modo rimandano a finzioni armonizzanti di “beni comuni”, ma anzi, presuppongono differenze portate coscienzialmente a esistenza di contro alla necessaria alterità del potere politico. Se il potere riesce però a identificarsi con la società, allora sì che partecipare diviene tutt’uno con l’essere d’accordo, col passivizzarsi dei singoli di fronte ad un astratto preordinato legiferare e organizzarsi dell’ipotetica volontà generale. Quand’anche rimanessero scritti sulla Costituzione, cadrebbero conseguentemente uno a uno tutti i diritti [<=] fondamentali, eredità delle lotte della storia contro l’isolamento degli individui dalla comunità. Continua, amplificata, la solita superstizione politica secondo cui la vita civile va unificata dallo stato, mentre è esattamente il contrario: proprio quest’ultimo, con le sue lotte intestine, è tenuto unito dalla vita civile. Lo stato democratico attuale fa pensare all’orazione di Antonio [Shakespeare, Giulio Cesare] quando, di fronte alla folla, afferma l’opposto del proprio intento: di esser “venuto per seppellire Cesare e non pure per celebrarlo”. Lo stato democratico deve garantire quotidianamente al Fmi, alla Banca mondiale, ecc. la sepoltura del sociale, celebrandolo però nelle parole. L’opposto.

[c.f.]

 

 

“Socialismo di mercato”

(valore, classi e pianificazione)                         

Si sa che Marx – fin dall’inizio dell’analisi del Capitale – ripete tante volte che “produzione delle merci e circolazione delle merci sono fenomeni che appartengono insieme a differentissimi modi di produzione, sia pure in mole e con portata differenti”. Sembra, dunque, inevitabile che una società di produttori associati, la quale voglia iniziare a porre sotto un controllo cosciente e pianificato la produzione stessa non possa fuoriuscire immediatamente da questa forma di merce. Deve, tuttavia, mutarne i caratteri sociali conservandone la base materiale “in quanto forma universalmente necessaria del prodotto” che “si esprime tangibilmente nella produzione su grande scala e nel carattere di massa del prodotto.

Tale carattere può essere conservato – mentre può essere soppressa, insieme alla soppressione della non proprietà del lavoro, l’unilateralità che il capitalismo gli impone – trascendendo così il modo capitalistico stesso di produrre, affinché esso non ripresenti anacronisticamente i caratteri privati (non socializzati) della merce semplice. Si ricordi fin d’ora che la forza-lavoro è l’unica merce che, già nel sistema capitalistico, appare nella sua forma semplice, ovvero non prodotta capitalisticamente, il che dimostra come praticamente possibile l’esistenza immediata di merce semplice con caratteri di massa in antitesi alla forma capitalistica. Dunque, tra i “differentissimi modi di produzione” che presuppongono la merce – ovverosia, lo scambio sul mercato di prodotti del lavoro e forza-lavoro medesima contro denaro – c’è anche, per definizione, la produzione non interamente pianificata della transizione socialista.

Ciò pone tre ordini di problemi: i. la tecnica e la scienza, riducendo il tempo di lavoro vivo socialmente necessario relativamente a quello morto, costituiscono l’oggettivazione che permane di contro alla soppressa alienazione delle condizioni materiali del lavoro; ii. la possibile negazione della forma capitalistica della merce ripropone, ma su basi nuove in quanto non solo mediatamente ma immediatamente sociali, quella figura del ciclo della circolazione – vendere per comprare anziché, capitalisticamente, comprare per vendere – che ha al suo inizio e alla sua fine la merce e non il denaro (riconsiderando così il lato “dimenticato” della duplicità della merce, il suo valore d’uso); iii. con il mutamento del carattere storico della merce emerge il mutamento della sua forma valore, fino al significato della sua forma denaro (e del corrispondente prezzo delle merci).

Le contraddizioni della forma storica capitalistica comportano la descritta socializzazione della produzione (lavoro combinato raggiunto sul fondamento oggettivo dei rapporti materiali di produzione maturati sulla base del capitale). Senonché, la potenziale abolizione “unicamente” della terza tra le condizioni marxiane, prima ricordate, che definiscono la produzione capitalistica – la contrapposizione tra la non proprietà delle condizioni autonomizzate del lavoro e il lavoro stesso – è capace di ridefinire completamente le altre due, sia il valore della merce (la produzione generalizzata di merce permane), sia la forza-lavoro come merce (lo scambio della capacità lavorativa contro denaro e il suo susseguente uso non è immediatamente soppresso). La permanenza di entrambe le prime condizioni, senza tuttavia il predominio “unico” su di esse della terza, è dunque tale da rivoluzionarne completamente il significato: in particolare, ne risulta sopratutto stravolta e negata la determinazione di plusvalore.

Il plusvalore in quanto tale deperisce. Dunque, rammentando la peculiarità della riproduzione della forza-lavoro, si dà la possibilità di una forma superiore di merce semplice e di massa e di una corrispondente forma di valore senza plusvalore, ossia senza la sua figura alienata di tipo capitalistico. Il lavoro, dunque, nella fase di transizione può tendere a configurarsi sempre più generalmente in quanto salariato di se stesso, lavoro sempre in forma astratta ma solo “autoalienato”. Il plusvalore, come scopo ultimo soltanto della produzione capitalistica di merci sulla base del capitale, non è più in grado di autoriprodursi. La produzione non capitalistica di merci sulla base del capitale – è questa la nuova forma antitetica su cui riflettere – può rappresentare il primo passo verso l’emancipazione del lavoro sociale: appunto, l’epoca della transizione socialista.

Pertanto, “dopo che sia eliminato il modo di produzione capitalistico, conservando però la produzione sociale, la determinazione di valore continua a dominare, nel senso che la regolazione del tempo di lavoro e la distribuzione del lavoro sociale tra i diversi gruppi di produzione e infine la contabilità a ciò relativa, diventano più importanti che mai” [C, III.49,5]. Sulla permanenza della determinazione di valore (produzione di merci semplici, non solo contabilità basata sul tempo di lavoro, come misura della ricchezza sociale prodotta) sorgono i diversi problemi del cosiddetto “socialismo di mercato”, come se potesse esserci un “socialismo” ... senza mercato. Si confonde il “socialismo” di transizione col “comunismo” senza classi e senza merci o col mercato in senso capitalistico, che è altra cosa. Il problema, semmai, è capire dunque di quale mercato debba trattarsi.

La forma di valore del prodotto in quanto merce comporta anche la permanenza della forma di denaro del valore, pur se quel denaro è profondamente trasmutato, perché esso non deve più rendere conto della determinazione capitalistica dissolta di plusvalore (sempre inteso, quest’ultimo, come rappresentazione alienata del pluslavoro). Le merci, il loro scambio sul mercato e i relativi prezzi in quanto forme monetarie del valore testimoniano della mutata permanenza del denaro. Ma esso – per la forma finita del mondo delle merci che “vela il carattere sociale del lavoro” – attesta che l’attività degli individui è necessariamente trasformata in quella sua forma materiale ch rappresenta il loro potere sociale. Di qui sorge la più grande contraddizione tra la costruzione della comunità reale e la necessaria permanenza del denaro nella prima (lunga) fase della transizione: una contraddizione che si può dirimere solo con lo sviluppo storico di questa forma sociale di passaggio.

“Gli individui sono sottomessi alla produzione sociale, la quale esiste come un fato a loro estraneo”, sostiene Marx; ma la loro associazione non è arbitraria e presuppone lo sviluppo di condizioni materiali e spirituali quali l’agglomerazione, la combinazione, la cooperazione, la concentrazione, la completa dipendenza dal mercato mondiale, ecc. Senonché, tale sviluppo è generato proprio dal capitale, dallo scambio privato e dalla divisione del lavoro, come forme antitetiche dell’unità sociale. Dunque, sotto il permanere dell’apparenza del prezzo, in qualsiasi forma, ci sono sempre il valore e il denaro.

Ogni epoca e fase della produzione sociale esprime naturalmente denaro e prezzi in forme diverse e adeguate ai caratteri specifici del periodo. Ma per quante trasformazioni profonde i valori subiscano per pervenire, attraverso il denaro (la cui sostanza immanente è il lavoro sociale), alla forma più idonea di prezzo – così diversa, l’una dall’altra, nella fase monopolistica o in quella finanziaria, nel capitalismo di stato o nell’imperialismo multinazionale, fino alle forme primitive di pianificazione, rispetto alla loro epoca di origine concorrenziale – il percorso seguito è sempre chiaramente individuabile.

È chiaro, dunque, che laddove c’è prezzo, cioè scambio di merce, il processo di produzione di valore fondato sul lavoro continua a regolarne l’andamento complessivo (a dispetto di tutte le presunte teorizzazioni post-marxiste). Il carattere del prezzo – che corrisponde al valore in quanto tempo di lavoro pianificato nella fase di transizione, sia durante il capitalismo di stato sia nella transizione socialista – dovrà garantire la ripartizione pianificata dell’intera produzione sociale. E dovrà garantirla, cioè, senza profitto in quanto forma sociale determinata, ma tenendo conto, invece, oltre che della parte destinata al consumo immediato anche di quella destinata all’allargamento della produzione stessa.

Pertanto, che il prodotto non si presenti più come merce, e che il valore d’uso non sia più espresso in valore (di scambio), è possibile soltanto al superamento di quella soglia quantitativa che si presenta “non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza”: e oggi si è lontani da quella soglia. Allora “il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura” solo se “si sviluppa la grande industria” al punto da far prevalere la “potenza degli agenti messi in moto durante il tempo di lavoro” rispetto al lavoro vivo immediato. Ciò dipende “dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione”, sicché il compiuto deperimento della forma di valore non è possibile, neppure nella società di transizione [cfr. Lf, q.VII, f.3].

Anche entro il marxismo, troppo spesso si dimentica la circostanza che, pur entro il processo di grande trasformazione sociale della transizione, “il lavoro, in quanto espresso nel valore” continua a essere caratterizzato dalla duplicità stessa della merce. Pertanto, a fianco della sua qualità particolare di produrre ricchezza materiale, il lavoro – in quanto unica fonte attiva del prodotto come valore d’uso, anche nella forma di merce di esso – duplica il suo carattere e solo perciò “non possiede più le stesse caratteristiche che gli sono proprie come generatore di valori d’uso. Tale duplice natura del lavoro contenuto nella merce è il perno intorno al quale ruota la comprensione dell’economia politica”, dice Marx in apertura del Capitale.

Nella misura in cui, appunto, il carattere di merce è destinato a protrarsi a lungo oltre il capitalismo, la circostanza della duplicità del lavoro conserva tutta la sua centralità e va interpretata. E nella misura in cui, ancora, il lavoro determinato dalla necessità e della finalità esterna è lungi dal decadere, occorre seguire solo le sue trasformazioni, prima quantitative e poi qualitative – e non già la sua estinzione. La socializzazione del lavoro combinato è un elemento materiale che corrisponde allo sviluppo della produzione sulla base del capitale, ma essa costituisce già nel capitalismo un momento preparatorio della transizione.                

[gf.p.]

 

 

Socialismo mutualistico

(cooperative e autogestione)

Le fabbriche cooperative [<=] degli operai stessi – osserva Marx – sono, entro la vecchia forma, il primo segno di rottura di quella forma (anche se dapprima soltanto nel senso che i lavoratori, come associazione, sono capitalisti di se stessi), sebbene esse dappertutto riflettano e debbano riflettere, nella loro organizzazione effettiva, tutti i difetti del sistema vigente. Qui si profilano due linee fondamentali: una è la linea della lotta di classe [<=] proletaria, il riconoscimento del valore delle cooperative in questa lotta, come strumento, come mezzo ausiliario di questa lotta, e la determinazione delle condizioni nelle quali le cooperative possano effettivamente avere una tale funzione e non rimanere semplici imprese commerciali; le cooperative in sé non sono affatto organizzazioni di classe (come sono, a es., i sindacati) e la loro importanza è determinata dall’impiego che se ne fa; un’importanza limitata, che mette in guardia contro le illusioni cooperativistiche, con lo scopo di spiegare alle masse i loro compiti effettivi: la conquista del potere politico e la trasformazione dei mezzi di produzione e di scambio in proprietà sociale.

L’altra è la linea piccolo borghese, che tenta di mettere nell’ombra il problema della funzione delle cooperative nella lotta di classe del proletariato, che estende l’importanza delle cooperative oltre i limiti di questa lotta (confondendo, cioè, il punto di vista proletario e quello da padrone circa le cooperative), che determina il loro obiettivo con frasi così generiche che anche un riformatore borghese, ideologo dei padroni progressisti, grandi e piccoli, può accettarle; le cooperative vengono portate alle stelle e vengono presentate (proprio come fanno i riformatori borghesi) come un elemento “necessario” della “riforma sociale”, con frasi nebulose sulla trasformazione delle cooperative da unioni di singoli individui in federazioni generali di associazioni, per aiutare a preparare la “socializzazione” dei mezzi di produzione.

Con questo termine si può intendere la trasformazione della proprietà in proprietà sociale, ma si può anche intendere, con gli ideologi del piccolo proprietario, qualsiasi misura parziale, qualsiasi riforma nel quadro del capitalismo, cominciando dalle cooperative contadine fino ai bagni municipali e ai cessi pubblici. Non è che le cooperative, adesso, non possano aiutare i lavoratori, ma il funzionamento della produzione e dello scambio futuri, preparato fin d’ora dalle cooperative, potrà aver luogo solo dopo l’espropriazione dei capitalisti.  Il grande stato centralizzato – distruggendo tutte le antiquate barriere medievali, di casta, strettamente locali, confessionali, di minoranza nazionale, ecc. – è un immenso progresso storico sulla strada che conduce alla futura unità socialista del mondo intero. Il centralismo democratico nelle questioni economiche e politiche fondamentali – sempre confuso con l’arbitrio e il burocratismo – non solo non esclude l’autogoverno locale e l’autonomia delle regioni in cui esistano particolari condizioni economiche e di vita, una composizione nazionale particolare, ecc., ma esige viceversa, necessariamente, l’uno e l’altra

[v.l.]

 

 

Società per azioni

(funzione del credito e socializzazione)

Il credito [<=] accelera le diverse fasi della circolazione [<=] o della metamorfosi delle merci, ossia della metamorfosi del capitale e quindi accelera il processo di riproduzione in generale. “Prima che le banche venissero create, il capitale richiesto per assicurare la circolazione era sempre più considerevole di quello che era necessario per la circolazione effettiva delle merci” [Economist].

Un ampliamento enorme della scala di produzione e delle imprese non sarebbe possibile con capitali individuali. Al tempo stesso, imprese che precedentemente erano governative divengono ora sociali. Il capitale, che si fonda per se stesso su un modo di produzione sociale e presuppone una concentrazione sociale dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro, acquista qui direttamente la forma di capitale sociale (capitale di individui direttamente associati) contrapposto al capitale privato, e le sue imprese si presentano come imprese sociali contrapposte alle imprese private. È la soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico [<=] stesso. 

Il capitalista realmente operante [<=] si trasforma in semplice dirigente [<=], amministratore di capitale altrui, e i proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari [<=]. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse e il guadagno d’imprenditore [<=], ossia il profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è o dovrebbe essere semplice salario di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato del lavoro è regolato come quello di qualsiasi altro lavoro), questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia come un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà che ora è, nel reale processo di riproduzione, così separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale.

Il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) mostra così la sua provenienza dalla semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui realmente attivi nella produzione, dal dirigente all’ultimo giornaliero.

Nella società per azioni la funzione è separata dalla proprietà del capitale, e per conseguenza anche il lavoro è completamente separato dalla proprietà dei mezzi di produzione e dal plusvalore. Questo risultato del massimo sviluppo della produzione capitalistica è un momento necessario di transizione per la ritrasformazione del capitale in proprietà dei produttori, non più però come proprietà privata di singoli produttori, ma come proprietà di essi in quanto associati, come proprietà sociale immediata. E inoltre è momento di transizione per la trasformazione di tutte le funzioni che nel processo di riproduzione sono ancora connesse con la proprietà del capitale, in semplici funzioni dei produttori associati, in funzioni sociali.

Poiché il profitto si presenta qui esclusivamente sotto forma d’interesse, tali imprese sono possibili anche quando esse danno il puro e semplice interesse, e questa è una delle cause che si oppongono alla caduta del tasso generale del profitto, poiché queste imprese in cui il capitale costante è in proporzioni così enormi rispetto al capitale variabile, non incidono necessariamente sul livellamento del tasso generale del profitto.

Con le società per azioni alla seconda e terza potenza, la rapidità sempre crescente con cui la produzione può oggi essere accresciuta in tutti i campi della grande industria ha come contropartita la lentezza sempre crescente con cui si estende il mercato che dovrebbe assorbire questa accresciuta quantità di prodotti. Ciò che la produzione fornisce in termini di mesi, il mercato può appena assorbire in termini di anni. Si deve a ciò aggiungere la politica protezionistica, per cui ogni paese industriale chiude agli altri, e accresce artificialmente la capacità produttiva nazionale.

Le conseguenze sono una sovraproduzione [<=] cronica generale, diminuzione o anche sparizione totale dei profitti, in breve la tanto vantata libertà della concorrenza [<=] non ha più nulla da dire ed è costretta ad annunciare essa stessa il suo evidente e scandaloso fallimento. Tanto è vero che in ogni paese i grandi industriali di un determinato settore si raggruppano in un cartello per regolare la produzione. In alcuni casi si hanno anche cartelli internazionali. Ma anche questa forma di socializzazione non è sufficiente. Il contrasto di interessi delle diverse imprese li spezza troppo spesso e ristabilisce la concorrenza. Si arriva così, in singoli settori in cui il grado della produzione lo permette, a concentrare tutta quanta la produzione di un settore in una grande “società per azioni” [holding], a direzione unica (gli antichi proprietari ricevono in azioni il valore tassabile dei loro impianti, che rappresenta il capitale fisso della holding. In tal modo, la concorrenza è sostituita dal monopolio e si prepara così, con nostra grande soddisfazione, la futura espropriazione da parte della società intera, da parte della nazione.

Tutto questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico nell’àmbito dello stesso modo di produzione capitalistico, quindi è una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come semplice momento di transizione [<=] verso una nuova forma di produzione. Essa si presenta poi come tale anche all’apparenza. In certe sfere stabilisce il monopolio e richiede quindi l’intervento dello stato. Ricostituisce una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali semplicemente di nome; tutto un sistema di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni. È produzione privata senza il controllo della proprietà privata.

Facendo astrazione dalle società per azioni – che sono l’annullamento dell’industria privata capitalistica sulla base del sistema capitalistico stesso, e distruggono l’industria privata a misura che esse si ingrandiscono e invadono nuove sfere di produzione – il credito permette al singolo capitalista, o a colui che è tenuto in conto di capitalista, di disporre completamente, almeno entro certi limiti, del capitale e della proprietà altrui, e per conseguenza del lavoro altrui. La possibilità di disporre del capitale sociale che non gli appartiene gli permette di disporre del lavoro sociale. Il capitale stesso che si possiede in realtà, oppure nell’opinione del pubblico, diventa soltanto la base per la sovrastruttura creditizia.

Tutte le misure, tutte le spiegazioni ancora più o meno accettate all’interno del modo di produzione capitalistico, qui scompaiono. Ciò che il “capitalista” rischia nelle sue speculazioni non è sua proprietà [<=], ma della società. Altrettanto assurda è la frase fatta che fa derivare il capitale dal risparmio [<=], perché ciò che lo speculatore pretende è proprio che altri risparmino per lui (è così che tutta la Francia ha “risparmiato” miliardi di franchi per gli speculatori del canale di Panama). Il suo lusso, poi, che ora diventa anch’esso un mezzo per ottenere credito, fa a pugni con l’altra frase fatta, che fa derivare il capitale dalla rinuncia. Concezioni che in una produzione capitalistica meno sviluppata hanno ancora un senso, qui lo perdono completamente.

Il successo e l’insuccesso portano qui ugualmente all’accentramento dei capitali e quindi all’espropriazione sulla scala più vasta. L’espropriazione si estende qui dai produttori diretti agli stessi capitalisti piccoli e medi. Tale espropriazione costituisce il punto di partenza del modo di produzione capitalistico, e allo stesso tempo il suo scopo, che è quello di espropriare i singoli individui dei mezzi di produzione che con lo sviluppo della produzione sociale cessano di essere mezzi della produzione privata e prodotti della produzione privata, e che possono essere ancora soltanto mezzi di produzione soltanto nelle mani dei produttori associati, quindi della loro proprietà sociale, così come sono loro prodotto sociale.

Ma nel sistema capitalistico questa espropriazione riveste l’aspetto opposto, si presenta come appropriazione della proprietà sociale da parte di pochi individui, e il credito attribuisce a questi pochi sempre più carattere di puri e semplici cavalieri di ventura. Poiché la proprietà esiste qui sotto forma di azioni, il suo movimento e il suo trasferimento non sono che il puro e semplice risultato del gioco di borsa dove i pesci piccoli sono divorati dagli squali e le pecore dai lupi di borsa. Nel sistema azionario è già presente il contrasto con la vecchia forma nella quale i mezzi di produzione sociale appaiono come proprietà individuale; ma la trasformazione in azioni rimane ancora chiusa entro le barriere capitalistiche; in luogo di annullare il contrasto tra il carattere sociale e il carattere privato della ricchezza, essa non fa che darle una nuova forma. Se il credito appare come la leva principale della sovraproduzione e della sovraspeculazione, ciò avviene soltanto perché il processo di produzione, che per sua natura è elastico, viene qui spinto al suo estremo limite, e vi viene spinto proprio perché una gran parte del capitale sociale viene impiegato da quelli che non ne sono proprietari, i quali quindi agiscono in tutt’altra maniera dai proprietari, i quali quando operano personalmente, hanno paura di superare i limiti del proprio capitale privato. Da ciò risulta chiaro soltanto che la valorizzazione del capitale, fondata sul carattere antagonistico della produzione capitalistica, permette l’effettivo, libero, sviluppo soltanto fino a un certo punto, quindi costituisce di fatto una catena e un limite immanente della produzione, che viene costantemente spezzato dal sistema creditizio.

Il sistema creditizio affretta quindi lo sviluppo materiale delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il sistema capitalistico di produzione ha il compito storico di costituire, fino a un certo grado, come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Il credito affretta al tempo stesso le eruzioni violente di questa contraddizione, ossia le crisi e quindi gli elementi di disfacimento del vecchio sistema di produzione. Ecco i due caratteri immanenti al credito: da un lato, esso sviluppa la molla della produzione capitalistica, cioè l’arricchimento mediante lo sfruttamento del lavoro altrui, fino a farla diventare il più colossale sistema di gioco e d’imbroglio, limitando sempre più il numero di quei pochi che sfruttano la ricchezza sociale; dall’altro, esso costituisce la forma di transizione verso un nuovo sistema di produzione. Le imprese azionarie capitalistiche [spa] sono da considerarsi, al pari delle cooperative di produzione, come forme di passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato, con l’unica differenza che nelle prime l’antagonismo è stato eliminato in modo negativo, nelle seconde in modo positivo.

[k.m. – f.e.]

(da Il capitale, III.27)

 

 

Sussistenza

(condizione dei lavoratori)

La divisione del lavoro, lo sfruttamento della forza idraulica, ed il meccanismo delle macchine sono le tre grandi leve con le quali l’industria lavora dalla metà del diciannovesimo secolo a modificare gli assetti del mondo. La piccola industria creò la classe media, la grande industria creò il classe operaia e pose sul trono i pochi eletti della classe media, ma soltanto per potere un giorno tanto più sicuramente farli precipitare. Frattanto, però, è innegabile e facilmente spiegabile che la classe dei piccoli borghesi, numerosa nel “buon tempo antico”, è rovinata dall’indu­stria e si è risolta in ricchi capitalisti, da una parte, e lavoratori poveri dal­l’altra.

La tendenza accentratrice dell’indu­stria, tuttavia, non si ferma qui. Anche la popolazione viene accentrata, come il capitale; e ciò è naturale perché nell’industria l’uomo, il lavoratore, viene considerato solo come una porzione di capitale, che si mette a disposizione del fabbricante e alla quale il fabbricante restituisce degli interessi, sotto il nome di salario. Il grande stabilimento industriale richiede molti operai, che lavorano insieme e, là dove sorge una fabbrica di una certa grandezza, formano già un villaggio. Gli abitanti del villaggio, specie la generazione più giovane, si abituano al lavoro di fabbrica, come è naturale, si familiarizzano con esso, e se la prima fabbrica, come è naturale, non può occupare tutti, il salario cade e di conseguenza vi si stabiliscono nuovi fabbricanti. Così dal villaggio nasce una piccola città, dalla piccola una grande città.

Questa agglomerazione ha innalzato Londra al rango di capitale commerciale del mondo, ha creato giganteschi docks e radunato migliaia di bastimenti che ricoprono in permanenza il Tamigi: tutto ciò è così grandioso, così immenso da dare le vertigini, e si resta sbalorditi della grandezza del­l’Inghilterra \ancora prima di mettere piede sul suolo inglese. Ma è solo in seguito che si scopre quanti sacrifici sia costato tutto ciò. Dopo aver calcato per qualche giorno il selciato delle strade principali, dopo esser penetrati con gran fatica nel brulicare umano, tra le file interminabili di carri e carrozze, dopo aver visitato i “quartieri brutti” della metropoli, soltanto allora si rileva che questi londinesi hanno dovuto sacrificare la parte migliore della loro umanità per compiere tutti quei miracoli di civiltà di cui la loro città è piena, e che centinaia di forze latenti in essi sono rimaste inattive e sono state soffocate affinché alcune poche potessero svilupparsi più compiutamente e moltiplicarsi mediante l’unione con quelle di altri. Già il traffico delle strade ha qualcosa di repellente, qualcosa contro cui la natura umana si ribella. Le centinaia di migliaia di individui di tutte le classi e di tutti i ceti che si urtano tra loro non sono tutti quanti uomini con le stesse capacità, e con lo stesso desiderio di essere felici? E non devono forse tutti quanti, alla fine, ricercare la felicità per le stesse vie e con gli stessi mezzi? Eppure si passano davanti in fretta come se non avessero nulla in comune, nulla a che fare l’u­no con l’altro, e tra loro vi è solo il tacito accordo per cui ciascuno si tiene sulla parte del marciapiede alla sua destra, affinché le due correnti della calca, che si precipitano in direzioni opposte, non si ostacolino a vicenda il cammino; eppure nessuno pensa di degnare gli altri di uno sguardo.

La brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale emerge in un modo tanto più ripugnante ed offensivo, quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che sono ammassati in uno spazio ristretto; e anche se sappiamo che questo isolamento del singolo, quanto angusto è dappertutto il principio fondamentale della nostra odierna società, pure in nessun luogo esso si rivela in modo così sfrontato e aperto così consapevole come qui, nella calca della grande città. La decomposizione dell’umanità in monadi, ciascuna delle quali ha un principio di vita particolare ed uno scopo particolare, il mondo degli atomi, sono portati qui alle sue estreme conseguenze. È per questo che la guerra sociale, la guerra di tutti contro tutti è dichiarata qui apertamente.

Poiché in questa guerra sociale, il capitale, il possesso diretto o indiretto dei mezzi di sussistenza e dei mezzi di produzione, è l’arma con la quale si combatte, è lampante che tutti gli svantaggi di una tale situazione ricadano sul povero. Nessuno si cura di lui; afferrato dal vortice selvaggio, deve cavarsela come può. Se è tanto fortunato da ottenere lavoro, cioè se la borghesia gli fa la grazia di volersi arricchire per suo mezzo, lo attende un salario che gli è appena sufficiente a mantenersi in vita; se non ottiene lavoro, può rubare, ove non tema la polizia, oppure morire di fame, e anche qui la polizia si prenderà cura di far sì che egli muoia di fame in silenzio, senza offendere la borghesia.

Senza dubbio sono soltanto singoli individui a morire di fame, ma quale garanzia ha il lavoratore che domani non tocchi la stessa sorte a lui? Chi gli dà la sicurezza che, se domani, per un motivo qualsiasi o anche senza motivo, venisse licenziato dal padrone, egli potrà con i suoi cavarsela fino a che non ne trovi un altro che gli “dia il pane”? Chi garantisce al lavoratore che basta la buona volontà di lavorare per ottenere lavoro, che l’o­nestà, la diligenza, la parsimonia e come altro si chiamano tutte le numerose virtù che gli vengono raccomandate dalla saggia borghesia, siano realmente per lui la strada verso la felicità? Nessuno. Egli sa che oggi ha qualcosa e che non dipende da lui stesso se domani avrà ancora qualcosa; sa che ogni mutamento, ogni capriccio del padrone, ogni cattiva congiuntura negli affari lo può risospingere nel vortice selvaggio dal quale ha trovato momentaneo scampo e nel quale è difficile, spesso impossibile, restare a galla. Egli sa che se oggi può vivere, è assai incerto che lo possa anche domani.

La concorrenza è l’espressione più completa della guerra di tutti contro tutti, che predomina nella moderna società borghese. Questa guerra, una guerra per vita, per l’esistenza per tutti, e perciò anche in caso di necessità una guerra di vita o di morte, non sussiste soltanto tra le diverse classi della società, ma anche tra i singoli membri di queste classi; ciascuno è di ostacolo all’altro e, perciò, ciascuno cerca di togliere di mezzo tutti coloro che gli sono d’ostacolo e di porsi al loro posto. I lavoratori sono in concorrenza tra loro così come lo sono i borghesi tra loro.

Abbiamo allora la concorrenza dei proletari tra loro. Se tutti i proletari tra loro manifestassero semplicemente la decisione di morire di fame piuttosto che voler lavorare per la borghesia, questa dovrebbe bene abbandonare il proprio monopolio; ma questo caso non si verifica, anzi è un caso pressoché impossibile, e perciò la borghesia se la passa tuttora bene. Questa concorrenza tra lavoratori ha solo un limite: nessun lavoratore vorrà lavorare per meno di quel che è necessario per la sua esistenza; se proprio deve morire di fame, preferisce subire questa sorte rimanendo in ozio piuttosto che lavorando. Naturalmente questo limite è relativo; c’è chi ha bisogni maggiori o è abituato a maggiori comodità di un altro; l’in­glese, che conserva un certo grado di civiltà ha maggiori esigenze dell’ir­landese, che si veste di stracci, mangia patate e dorme in un porcile. Ma ciò non impedisce che l’irlandese faccia concorrenza all’inglese, abbassando gradatamente il salario, e con esso il grado di civiltà, dell’operaio inglese al proprio livello. Certi lavori esigono un determinato grado di incivilimento, e tra essi vi sono quasi tutti i lavori industriali; in essi, perciò il salario, già nell’interesse della stessa borghesia, deve essere così alto da consentire all’operaio di mantenersi in tale sfera. L’irlandese immigrato di fresco, che si accampa alla prima stalla che gli capiti, che anche trovando una abitazione sopportabile viene buttato sulla strada ogni settimana perché sperpera tutto nel bere e non può pagare il fitto, sarebbe un cattivo operaio di fabbrica; perciò ai lavoratori deve essere dato tanto da consentire ad essi di allevare i loro figli ad un lavoro regolare, ma anche non più di tanto, affinché essi non possano fare a meno del salario dei loro figli e non li facciano diventare qualcosa d’altro che non semplici operai. Anche qui il limite, il minimo del salario, è relativo; là dove nella famiglia tutti lavorano, il singolo può accontentarsi di una paga corrispondentemente minore, e la borghesia ha sfruttato largamente, al fine di abbassare il salario, la possibilità, offertale dal lavoro a macchina di sfruttare le donne e i fanciulli.

Comprendiamo così cosa sia il minimo del salario. Il massimo viene stabilito dalla reciproca concorrenza dei borghesi, poiché, come abbiamo visto, essa esiste anche tra loro. Il borghese può aumentare il suo capitale soltanto attraverso il commercio o l’industria, e in ambedue i casi ha bisogno di operai. Ne ha bisogno indirettamente anche se presta il suo capitale ad interesse, perché senza com­mercio e industria nessuno potrebbe dargli interessi per quel capitale, nessuno potrebbe utilizzarlo. In questo senso è vero che il borghese ha bisogno del proletario, ma non per la vita immediata – infatti potrebbe consumare il suo capitale – bensì per arricchirsi, cioè come si ha bisogno di un articolo commerciale o una bestia da soma.

Così gli operai vengono trascurati e respinti dalla classe dominante non solo fisicamente ed intellettualmente, ma anche moralmente. L’unica attenzione che viene loro prestata è data dalla legge, che li ghermisce non appena fanno un torto alla borghesia; come per gli animali irragionevoli, uno solo è il mezzo di educazione che si usa nei loro confronti: la frusta, la violenza brutale che non persuade, che solo intimorisce. Non c’è quindi neppure da meravigliarsi se gli operai, trattati come bestie, o divengono veramente tali o riescono a conservare la coscienza e il sentimento della propria umanità soltanto mediante l’odio più ardente, mediante una perpetua rivolta interna contro la borghesia dominante. Essi sono uomini soltanto fino a che provano ira contro la classe dominante; diventano bestie non appena si adattano pazientemente al loro giogo, senza voler spezzare il giogo stesso.

Questo è dunque tutto ciò che la borghesia ha fatto per educare la classe operaia; e se noi pensiamo, oltre a ciò, alle condizioni in cui que­st’ultima vive, non potremo minimamente rimproverarle lo sdegno che essa nutre contro la classe al potere. L’educazione morale, che non viene impartita all’operaio nelle scuole, non gli viene fornita neppure negli altri momenti della sua vita; almeno, non quella educazione morale che ha qualche valore agli occhi della borghesia. Tutta la sua posizione ed il suo ambiente racchiudono i più forti incitamenti all’immoralità. Egli è povero, la vita è per lui senza attrattive, quasi tutti i piaceri gli sono negati, i rigori della legge non hanno per lui nulla di più spaventoso; perché dunque dovrebbe frenare i suoi desideri, perché dovrebbe lasciare al ricco il godimento delle sue ricchezze, anziché appropriarsene una parte? Quali motivi ha il proletario per non rubare? È molto bello certamente e suona assai bene alle orecchie del borghese, quando si dice che “la proprietà è sacra”; ma per chi non ha alcuna proprietà questa santità della proprietà cessa automaticamente. Il denaro è il dio di questo mondo. Il borghese toglie al proletario il suo denaro, e per ciò stesso ne fa praticamente un ateo. Non c’è dunque da meravigliarsi se il proletario conserva il suo ateismo e non rispetta più la santità ed il potere del dio terreno. E quando la povertà del proletario cresce fino alla mancanza vera e propria dei mezzi più necessari di vita, fino alla miseria e alla fame, cresce ancor più lo stimolo a non tener conto di qualsiasi ordinamento sociale. Questo lo sanno anche molti borghesi.

Ma il proletario, il quale non possiede nulla all’infuori delle proprie braccia, che consuma oggi ciò che ha guadagnato ieri, che è interamente soggetto al giuoco del caso, che non ha nulla che gli garantisca anche in futuro la possibilità di procurarsi i mezzi più necessari di sussistenza – una crisi, un capriccio qualsiasi del suo padrone lo può lasciare disoccupato – il proletario è ridotto alla condizione più disumana, più rivoltante che l’uomo possa immaginare. Lo schiavo ha almeno l’esistenza assicurata dall’interesse egoistico del suo padrone, il servo della gleba ha ancora un pezzetto di terra, del quale vive, essi hanno una garanzia almeno per l’esistenza pura e semplice: ma il proletario è abbandonato a sé stesso, e tuttavia, nello stesso tempo è messo nell’impossibilità di impiegare le sue forze in modo da potervi contare. Tutto ciò che il proletariato stesso può fare per migliorare la sua posizione scompare come una goccia nel mare, di fronte all’incalzare delle vicende alle quali è esposto, e sulle quali non ha il minimo potere. Egli è l’oggetto passivo di tutte le possibili combinazioni di circostanze, e può ancora ringraziare la fortuna se per qualche tempo riesce a salvare almeno la vita. E, come è normale, il suo carattere ed il suo modo di vivere si adattano a loro volta a tali circostanze. O egli cerca in questo vortice di tenersi a galla, e può farlo solo sollevandosi contro la borghesia, contro la classe che lo sfrutta così spietatamente e lo abbandona poi al suo destino, che cerca di costringerlo a rimanere in questa condizione indegna di un uomo: oppure abbandona, considerandola inutile, la lotta contro la sua condizione e cerca, per quanto gli è possibile, di approfittare dei momenti favorevoli. Risparmiare non gli giova a nulla, poiché al massimo riesce a mettere da parte ciò che gli può servire per sfamarsi per qualche settimana; e quando resta senza lavoro, non vi resta solo per qualche settimana.

Il mondo non è per essi una casa paterna, ma una cupa prigione piena di tormenti feroci e di sterili ribellioni, odio e risentimento verso se stessi e verso tutti gli uomini.                       

[f.e.]

(da La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845)