I SEGNI DELLA CONTRADDIZIONE

aforismi in forma di segnalibro

 

______________________________________________________________________________________

 

Questa vcchia Prefazione è servita e serve ai lettori della rete nella forma (finora solo virtuale) per illustrare il senso dell'articolazione delle denunce apparse come “segnalibro” per la rivista; esse, a differenza che nella prossima versione a stampa altrove segnalata, dove è stato seguito un diverso criterio di accorpamento, sono ancora qui appresso riportate col medesimo criterio originariamente seguìto; esso segue il medesimo ordine cronologico voluto da ciascun segnalibro stesso. Infatti, se si rivolge lo sguardo alle date (quelle della loro prima pubblicazione, che sono state riportate in calce a ciascun aforisma per migliore informazione del lettore) si potrà pure capire, nella stragrande maggioranza dei casi (con poche eccezioni), come essi si riferiscano perlopiù agli eventi salienti del periodo, che quindi ciascun aforisma rammemora. Ovviamente, le altre annotazioni presenti nella precedente prefazione per la rete sono state tutte utilizzate per il prologo della versione a stampa.

___________________________________________________________

 

La Contraddizione, esposta in termini generali è questa: il capitale è esso stesso la contraddizione in processo. Il capitale si manifesta sempre più come una potenza sociale – di cui il capitalista è l’agente – che ha ormai perduto qualsiasi rapporto proporzionale con quello che può produrre il lavoro di un singolo individuo; ma come una potenza sociale, estranea, indipendente, che si contrappone alla società come entità materiale e come potenza dei capitalisti attraverso questa entità materiale. La contraddizione, tra questa potenza generale sociale alla quale si eleva il capitale e il potere privato del capitalista sulle condizioni sociali della produzione, si va facendo sempre più stridente e deve portare alla dissoluzione di questo rapporto e alla trasformazione delle condizioni di produzione in condizioni di produzione sociali, comuni, generali. Questa trasformazione è il risultato dello sviluppo delle forze produttive nel modo capitalistico di produzione e della maniera in cui questo sviluppo si compie.

La produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive, indipendentemente dal valore e dal plusvalore in esse contenuto, indipendentemente anche dalle condizioni sociali nelle quali essa funziona; ma nello stesso tempo tale produzione ha come scopo la conservazione del valore-capitale esistente e la sua massima valorizzazione. Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono.

Ogni determinata forma storica del processo lavorativo ne sviluppa la base materiale e le forme sociali. Quando è raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata viene lasciata cadere e cede il posto ad un’altra più elevata. Si riconosce che è giunto il momento di una tale crisi quando guadagnano in ampiezza e in profondità la contraddizione e il contrasto tra i rapporti di distribuzione e quindi anche la forma storica determinata dei rapporti di produzione ad essi corrispondenti, da un lato, e le forze produttive, capacità produttiva e sviluppo dei loro fattori, dall’altro. Subentra allora un conflitto tra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale.

 

[Karl Marx, Il capitale, Lineamenti fondamentali] (copertina della Contraddizione – 1987-2006)

 

___________________________________________________________

 

Caro Fred,

sarebbe effettivamente una bella cosa che uscisse una rivista socialista realmente scientifica. Darebbe occasione a critiche e controcritiche in cui potrebbero essere discussi punti teorici nostri, e si potrebbe mettere alla berlina l’ignoranza assoluta dei professori e dei liberi docenti, illuminando allo stesso tempo in tal modo la mente del grande pubblico operaio e borghese. Ma la rivista non può essere falsamente scientifica. Assenza di ogni riguardi è la prima condizione di ogni critica; inoltre ci sarebbe sempre da tenere sempre che le cose devono essere facilmente comprensibili, vale a dire bisognerebbe sempre fare un’esposizione per gente ignorante. Ci si immagini un po’ una rivista di chimica in cui l’ignoranza in chimica del lettore costituisse il costante presupposto fondamentale. E, astrazion fatta da tutto ciò, si impone la cautela di tenersi separati da quei signori il cui motto sembra essere: chi critica il proprio avversario con male parole ha carattere, chi invece ingiuria l’avversario con una vera critica ha un carattere indegno!

Tuo Karl Marx

[Karl Marx, Lettera a Engels, 18 luglio 1877] (no. 0 – 2.1987)

 

 

Tra le abitudini di Lenin c’era quella di andare a scovare la contraddizione in fenomeni che sembrano unitari. Se vedeva un gruppo di persone che formavano un’unità rispetto ad altri gruppi, si aspettava che tuttavia in certe cose fossero tra loro molto diversi, anzi addirittura avversi, in quanto gli interessi di certuni ledevano quelli di altri. E anche rispetto agli altri gruppi i membri del gruppo considerato si comportavano in modo non unitario, non del tutto unitario e non solo unitario. Del pari il gruppo non era del tutto e uniformemente e sempre opposto e ostile all’altro o agli altri gruppi, ma c’erano rapporti oscillanti che mettevano in discussione continuamente, anche se con diversa intensità, l’unità del gruppo e la sua diversità dagli altri gruppi.

Già Marx aveva esortato i lavoratori a non scorgere mai nei loro oppressori un’unità troppo uniforme. Proprio il compito di opprimere, che univa gli oppressori, al contempo li divideva: essi erano ostili gli uni agli altri e si comportavano diversamente in molte questioni. Da questo i lavoratori potevano trarre vantaggi. Certo non potevano farlo se contemporaneamente non tenevano sempre d’occhio anche l’unità dei loro oppressori.

[Bertolt Brecht, Me-ti] (no.1 – 7.1987)

 

 

Il pensiero formale si costruisce “il principio determinato che la contraddizione è impensabile” (Hegel). Anche esso “pensa di fatto la contraddizione, ma esso ne distoglie subito lo sguardo e passa soltanto all’astratta negazione”. La rappresentazione abituale afferra la differenza e la contraddizione, ma non il trapasso dell’una nell’altra, ed è questa invece la cosa più importante. La riflessione acuta afferra la contraddizione, la enuncia, mette le cose in rapporto tra loro, costringe “il concetto a trasparire” tramite la contraddizione, ma non esprime il concetto delle cose e delle loro relazioni.

La ragione pensante (intelletto) acuisce l’ottusa differenza del diverso, la mera molteplicità delle rappresentazioni, sino a farne la differenza essenziale, l’opposizione. Soltanto i molteplici, elevati sino al vertice della contraddizione, divengono mobili e viventi l’uno rispetto all’altro: acquisiscono quella negatività che è l’immanente pulsare dell’automovimento e della vitalità. La “tenerezza” per la natura e la storia è, nei filistei, l’aspirazione a depurarle delle contraddizioni e della lotta.

[Vladimir Ilic Lenin, Quaderni filosofici] (no.2 – 9.1987)

 

 

Tutte le cose sono in se stesse contraddittorie. Il principio di identità non dice nulla. È uno dei pregiudizi fondamentali della vecchia logica e dell’ordinaria rappresentazione, che la contraddizione non sia una determinazione altrettanto essenziale ed immanente quanto l’identità. L’identità non è che la determinazione del semplice immediato, del morto essere; la contraddizione, invece, è la radice di ogni movimento e vitalità; qualcosa si muove, ha un istinto e un’attività, solo in quanto ha in se stessa una contraddizione.

La contraddizione viene ordinariamente allontanata, in primo luogo, dalle cose, da ciò che è e dal vero in generale; si afferma che non vi è nulla di contraddittorio. Essa vien poi anzi rigettata, sia nella realtà sia nella riflessione pensante, come un’accidentalità, quasi un’anomalia e un transitorio parossismo morboso. La contraddizione non è da prender semplicemente come un’anomalia che si mostri qua e là, ma è il negativo della sua determinazione essenziale, il principio di ogni muoversi, muoversi che non consiste se non in un esplicarsi e mostrarsi della contraddizione.

Qualcosa è dunque vitale solo in quanto contiene in sé la contraddizione. Solo quando sono stati spinti all’estremo della contraddizione, i molteplici diventano attivi e viventi l’uno di fronte all’altro, e nella contraddizione acquistano la negatività, che è pulsazione immanente del muoversi e della vitalità.

[Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Scienza della logica] (no.3 – 11.1987)

 

 

La causa fondamentale dello sviluppo delle cose non si trova fuori di esse ma dentro di esse, nella natura contraddittoria insita nelle cose stesse. Questa natura contraddittoria esiste in tutte le cose e genera il loro movimento e il loro sviluppo. La natura contraddittoria insita nelle cose è la causa fondamentale del loro sviluppo, mentre il nesso e l’azione reciproca delle cose tra loro rappresentano la causa secondaria. Così, la dialettica materialistica ha combattuto energicamente la teoria metafisica della causa esterna o dell’impulso esterno, propria del materialismo meccanicistico e dell’evoluzionismo volgare.

Le trasformazioni della società sono dovute principalmente allo sviluppo delle contraddizioni esistenti al­l’interno di questa, cioè delle contraddizioni tra le forze produttive e i rapporti di produzione, delle contraddizioni tra le classi e delle contraddizioni tra il vecchio e il nuovo. È lo sviluppo di queste contraddizioni che spinge la società in avanti, che conduce alla sostituzione della vecchia società con la nuova. Secondo la dialettica materialistica, le cause esterne sono la condizione delle trasformazioni e le cause interne ne sono la base; le cause esterne operano attraverso quelle interne.

[Mao Tse-tung, Sulla contraddizione] (no.4 – 1.1988)

 

 

Sino a quando consideriamo le cose in stato di riposo e prive di vita, ciascuna per sé, l’una accanto al­l’altra, l’una dopo l’altra, è certo che in esse non incontreremo nessuna contraddizione. Ma è invece tutt’al­tra cosa allorché consideriamo le cose nel loro movimento, nel loro cambiamento, nella loro vita, nella loro azione reciproca. Lo stesso movimento è una contraddizione. E il continuo porre e nello stesso risolvere questa contraddizione è precisamente il movimento.

Qui abbiamo dunque una contraddizione che può cogliersi obiettivamente. L’intelletto che pensa metafisicamente non può assolutamente passare dall’idea della quiete a quella del movimento, perché qui la contraddizione gli sbarra il cammino. La vita consiste anzitutto precisamente nel fatto che un essere, in ogni istante, è se stesso e anche un altro. Quindi la vita è del pari una contraddizione presente nelle cose e nei fenomeni stessi, contraddizione che continuamente si pone e continuamente si risolve.

La contraddizione tra il potere conoscitivo umano intimamente illimitato e la sua sussistenza reale in uomini esteriormente limitati e limitatamente conoscenti, si risolve nel susseguirsi, per noi praticamente privo di un termine, delle generazioni: nel progresso all’infinito. Se si è abbassata la “dottrina dell’essenza” di Hegel fino a ridurla alla banalità di forze che si muovono in opposte direzioni ma non in contraddizione, certo il meglio che si possa fare è di evitare ogni applicazione di questo luogo comune.

[Friedrich Engels, Anti-Dühring] (no.5 – 3.1988)

 

 

Il processo lavorativo si emancipa sempre più dalle attitudini soggettive ecc. dei lavoratori e viene regolato secondo i princìpi e le necessità di un in sé oggettivo. Sono così poste le basi materiali di uno sviluppo illimitato della scienza: del reciproco e – in linea di principio – illimitato fecondarsi e promuoversi della scienza e della produzione, poiché entrambe si fondano (per la rima volta nella storia) sullo stesso principio, che è quello della disantropomorfizzazione. Va da sé che questo nuovo principio si afferma e si realizza in modo estremamente contraddittorio.

In opposizione alla critica romantica, regressiva, dello sviluppo che qui si determina, il principio della disantropomorfizzazione è sostanzialmente un principio di progresso e di umanizzazione. Ma poiché la sua forza motrice – la ricerca del profitto – è intrinsecamente contraddittoria, essa deve manifestare questo suo carattere, di necessità e ininterrottamente, anche nei problemi fondamentali; il principio dell’umanizzazione appare cioè, nello stesso tempo, come principio dell’estrema inumanità, anzi antiumanità.

Marx ha messo in luce questa duplicità e ambivalenza: “Le contraddizioni e gli antagonismi inseparabili dall’uso capitalistico delle macchine non esistono perché non provengono dalle macchine stesse, ma dal loro uso capitalistico”.

[György Lukács, Estetica] (no.6 – 5.1988)

 

 

La realtà oggettiva si sviluppa sempre attraverso il sorgere al suo interno di una contraddizione concreta, la quale trova la sua soluzione nel generare una nuova forma di sviluppo, più elevata e complessa. Entro la forma iniziale di sviluppo, la contraddizione è irrisolvibile. Essendo espressa nel pensiero, essa, naturalmente, appare come contraddizione nelle determinazioni del concetto che riflette lo stadio iniziale di sviluppo. E questa è non soltanto una forma giusta, ma l’unica giusta, del movimento del pensiero indagatore, pur se anche in essa si ha una contraddizione.

Questo genere di contraddizione nelle determinazioni si risolve non già mediante la precisazione del concetto che riflette una data forma di sviluppo, ma mediante l’ulteriore analisi della realtà, mediante la ricerca di quell’altra forma nuova e più elevata di sviluppo, nella quale la contraddizione iniziale trova la sua soluzione effettiva, di fatto, constatata empiricamente.

Viceversa, una contraddizione logica non deve esserci in un’analisi teorica. È l’analisi formale che deve spiegare un tal genere di contraddizioni. Qui il principio logico formale di non contraddizione viene pienamente a proposito. A rigor di termini esso riguarda l’impiego delle parole, e non il processo del movimento dei concetti. Quest’ultimo è l’oggetto della logica dialettica.

[Evald Ilenkov, Logica dialettica] (no.7 – 7.1988)

 

 

Il “metodo dialettico”, secondo la concezione materialistica di Marx e Engels, è necessario anche per pensare come per qualsiasi altra produzione, un materiale determinato e concreto, che viene elaborato in pensieri. Del tutto infecondo è quel pensare che produce pensieri solo astratti nell’“universale”: Anche nel pensare può nascere un prodotto mentale reale “materiale”, solo applicando la forma del pensiero a un materiale da elaborare mentalmente.

Non basta confutare criticamente le conseguenze di un principio superficiale ed errato, ma questa confutazione alla fine si tramuta in uno sviluppo positivo delle conseguenze della posizione più approfondita e più vera della concezione materialistica stessa e trova solo in questo ulteriore sviluppo positivo la sua conclusione effettivamente soddisfacente per il “dialettico materialista”.

Dobbiamo riconoscere che non solo per le idee e le istituzioni del passato feudale e borghese, ma anche per tutti i pensieri e le forme di organizzazione che la classe operaia stessa ha prodotto nelle tappe della sua storica lotta di liberazione vale quella dialettica rivoluzionaria per la quale ogni forma storica, da forma di sviluppo delle forze produttive rivoluzionarie e dell’azione rivoluzionaria e sviluppo di coscienza, si rovescia, a un determinato punto del suo sviluppo, in una catena per le stesse.

[Karl Korsch, Gotha e I consigli] (no. 8 – 9.1988)

 

 

L’unità negli elementi costitutivi del marxismo è data dallo sviluppo dialettico delle contraddizioni tra l’uomo e la natura. Tutte le filosofie finora esistite sono state la manifestazione delle intime contraddizioni da cui la società è stata lacerata. Ma ogni sistema filosofico a sé preso non è stato l’espressione cosciente di queste contraddizioni, poiché tale espressione poteva essere data solo dall’insieme dei sistemi in lotta tra loro. La filosofia della prassi è la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo – inteso individualmente, o inteso come intero gruppo sociale – non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione.

Ma se anche la “filosofia della prassi” è un’espressione delle contraddizioni storiche – anzi, ne è l’espressione più compiuta, perché più consapevole – significa che essa pure è legata alla “necessità” e non alla “libertà”, che non esiste e non può ancora esistere storicamente. Attualmente il filosofo (della prassi) non può evadere dall’attuale terreno delle contraddizioni, non può affermare, più che genericamente, un mondo senza contraddizioni, senza creare immediatamente un’utopia. Ecco perché la proposizione del passaggio dal “regno della necessità” a quello della “libertà” deve essere analizzata ed elaborata con molta finezza e delicatezza.

[Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, XVIII] (no. 9 – 11.1988)

 

 

Quando si parla di umorismo, io penso sempre al filosofo Hegel. Il suo libro La grande logica lo lessi una volta che avevo i reumatismi e non potevo muovermi. È una delle più grandi opere umoristiche della letteratura mondiale. Tratta della maniera di vivere dei concetti, queste esistenze scivolose, instabili, irresponsabili; come s’insultano l’un l’altro e fan la lotta a coltello e poi si siedono a tavola insieme per la cena, come non fosse successo niente. Essi compaiono, per così dire, a coppie, ciascuno sposato col suo contrario, e le loro faccende le sbrigano in coppia, cioè firmano contratti in coppia, fanno processi in coppia, organizzano irruzioni e scassi in coppia, scrivono libri e fanno dichiarazioni giurate in coppia, e cioè come coppia completamente in disaccordo su ogni cosa. Ciò che afferma l’ordine, lo confuta subito, possibilmente nello stesso momento, il disordine, suo compagno inseparabile. Non possono vivere l’uno senza l’altro, né l’uno con l’altro.

Lo spirito, l’ironia di una cosa lui lo chiama la dialettica. Come tutti i grandi umoristi, egli diceva tutto con la faccia più seria di questo mondo. I più grandi sovversivi si definiscono allievi del più grande sostenitore dello stato! Tra parentesi, questo testimonia in favore del loro umorismo. Difatti, non ho mai visto un uomo privo di umorismo che capisse la dialettica di Hegel.

[Bertolt Brecht, Dialoghi di profughi] (no. 10 – 1.1989)

 

 

I metodi di violenza sono cambiati; ma sempre, da quando esiste lo stato, si è avuto in ogni società un gruppo di persone che governavano, che comandavano, che dominavano, e che per sostenere il potere avevano nelle loro mani un apparato di costrizione fisica, un apparato di violenza. Lo stato è una macchina per mantenere il dominio di una classe sull’altra.

Le forme di dominio dello stato possono essere diverse. La repubblica democratica e il suffragio universale hanno segnato un enorme progresso. Senza tutto ciò questo sviluppo della classe operaia sarebbe stato impossibile. Ma in fondo il potere resta nelle mani del capitale; finché c’è sfruttamento non può esserci uguaglianza. Anzi, quanto più la repubblica è democratica, tanto più brutale, più cinico, è il dominio del capitalismo. Spesso i rivoluzionari inesperti ritengono che i mezzi legali di lotta siano di tipo opportunistico, perché in questo campo la borghesia ha ingannato e turlupinato con maggior frequenza i lavoratori (soprattutto nei periodi “pacifici”, non rivoluzionari), e che siano invece rivoluzionari i mezzi illegali di lotta. Ma questo non è vero. È cosa molto più difficile – e molto più preziosa – saper essere rivoluzionari quando non esistono ancòra le condizioni per una lotta diretta, aperta, realmente di massa, realmente rivoluzionaria.

E quando manca un’organizzazione rivoluzionaria centrale e quelle locali sono deboli, il terrorismo non può essere nient’altro che un mezzo di attacco singolo, autonomo e indipendente da ogni esercito; nelle circostanze attuali, questo mezzo di lotta è intempestivo, inopportuno, in quanto distoglie i combattenti più attivi dal loro vero còmpito, più importante per tutto il movimento, e disorganizza non le forze governative ma quelle rivoluzionarie. Riconoscere che oggi è impossibile “intimidire” – e quindi disorganizzare – il governo col terrorismo, significa in sostanza condannarlo completamente come metodo di lotta.

[Vladimir Ilic Lenin, Scritti vari (1901-1919)] (no. 11 – 3.1989)

 

 

Una conoscenza più o meno completa del marxismo costa oggi – mi ha assicurato un collega – dai venti ai venticinquemila marchi-oro [oggi pari a circa 200 milioni di lire o, se si vuole, 100 mila euro], e senza tutte le finezze e i dettagli. Per meno non si ottiene niente di veramente buono, al massimo un marxismo di mezza tacca, senza Hegel o senza Ricardo, ecc.

E per di più il mio collega calcola soltanto le spese per libri, tasse universitarie e ore di lavoro, e non quello che uno ci rimette per via delle difficoltà che incontra nella carriera, o per eventuali detenzioni, e tralascia anche il fatto che nelle professioni liberali l’efficienza diminuisce notevolmente, dopo una lettura approfondita di Marx; in determinati campi, come la storia e la filosofia, non si ridiventa mai più veramente “bravi” dopo esser passati attraverso Marx.

[Bertolt Brecht, Dialoghi di profughi]

 

Aforisma – Non si può comprendere a pieno Il capitale di Marx, e in particolare il suo primo capitolo, se non si è studiata attentamente e capìta tutta la Logica di Hegel. Di conseguenza, dopo mezzo secolo, nessun marxista ha capito Marx!

[Vladimir Ilic Lenin, Quaderni filosofici] (no. 12 – 5.1989)

 

 

Ogni cosa, per essere capìta, richiede profonda riflessione. Nei tempi antichi, a quanto ricordo, spesso l’uomo mangiava i suoi simili, ma su questo punto non ho le idee molto chiare. Ho preso allora un manuale di storia, ma non aveva cronologia e in ogni pagina c’erano queste due parole: virtù e moralità, scritte in tutti i sensi. Visto che non potevo dormire, ho passato la metà della notte immerso nella lettura, e a un tratto mi sono accorto che tra le righe c’era scritto qualcosa: “Mangiate la gente!”, e queste parole riempivano tutto il libro. Non ci posso pensare.

Solo oggi mi accorgo di essere vissuto tutto questo tempo tra gente che si ciba di carne umana da quattromila anni. La mia sorellina morì quando mio fratello aveva appena assunto la direzione della casa; e se al riso e alle pietanze avesse aggiunto un po’ della sua carne per farcene mangiare a nostra insaputa? Forse senza volerlo ho mangiato molti pezzi di carne di mia sorella, e ora tocca a me ...

E come posso, io, dopo quattromila anni di cannibalismo (prima veramente non me ne rendevo conto), come posso sperare di incontrare un vero uomo? Forse vi sono ancòra bambini che non hanno mangiato carne umana. Salvate i bambini! ...

[Lu Hsün, Diario di un pazzo (aprile 1918)] (no. 13 – 7.1989)

 

 

La contraddizione come concreta unità di opposti che reciprocamente si escludono è il nucleo autentico della dialettica, la sua categoria centrale. La dialettica nasce proprio là dove il pensiero metafisico (cioè, il pensiero che non conosce e non vuole conoscere altra logica che quella formale) definitivamente si intrica in contraddizioni logiche che esso ha portato alla luce proprio perché con caparbietà e conseguenza ha osservato il “divieto” di qualsiasi contraddizione nelle definizioni. Come logica, la dialettica è lo strumento di risoluzione di queste contraddizioni. Scrive Marx: “L’opposizione interna tra valore d’uso e valore, racchiusa nella merce, viene rappresentata da un’opposizione esterna, cioè dal rapporto tra due merci. La forma semplice di valore di una merce è dunque la forma fenomenica semplice del contrasto in essa contenuto tra valore d’uso e valore”.

La contraddizione interna si presenta soltanto come fenomeno e il rapporto verso l’altra merce come il rapporto della merce verso se stessa mediato tramite il rapporto verso l’altra merce. La metafisica tenta sempre di ridurre la contraddizione interna a contraddizione “in rapporti diversi”, negando la rilevanza oggettiva della contraddizione interna. La dialettica, invece, non riduce una cosa all’altra. Essa riconosce l’oggettività dell’una e dell’altra. E non si tratta di ridurre la contraddizione interna a una contraddizione esterna, ma di ricavare la contraddizione esterna da quella interna, e con ciò stesso capire l’una e l’altra nella loro oggettiva necessità. La dialettica non nega il fatto che la contraddizione interna si presenta sempre nei fenomeni in guisa di contraddizione esterna.

[Evald Ilenkov, Logica dialettica] (no.14 – 9.1989)

 

 

Il signo K sentì dire bene di un funzionario che ricopriva da parecchio tempo la sua carica; era talmente bravo da essere insostituibile. “Come mai è insostituibile?” – domandò indispettito. “L’ufficio non funzionerebbe senza di lui” – dissero i laudatori del funzionario. “Come può dunque esser un buon funzionario, se l’ufficio senza di lui non funzionerebbe?” – disse il signor K – “Egli ne ha avuto del tempo per organizzare il suo ufficio in modo da essere sostituibile”.

“Ho osservato – disse il signor K – che allontaniamo molti dal nostro insegnamento scoraggiandoli perché abbiamo una risposta per tutto. Non potremmo, nell’interesse della propaganda, preparare una lista delle questioni che ci sembrano completamente insolute?”.

Il signor K attese qualcosa un giorno, poi una settimana e quindi ancòra un mese. Alla fine disse: “Avrei potuto attendere benissimo un mese, ma non quel giorno e quella settimana”.

“A che cosa lavora” – fu chiesto al signor K. Il signor K rispose: “Sto faticando: preparo il mio prossimo errore”.

[Bertolt Brecht, Storielle del signor Keuner] (no.15 – 12.1989)

 

 

La “trinità” di proprietà, libertà e uguaglianza si realizzò solo nella moderna società borghese. Il sistema del valore di scambio, e più ancòra il sistema monetario, sono di fatto il sistema della libertà e dell’ugua­glianza; esso è la loro base reale. Ma le contraddizioni che appaiono a uno sviluppo più profondo sono contraddizioni immanenti, implicazioni di questa stessa proprietà, libertà e uguaglianza, le quali si rovesciano all’occasione nel loro opposto.

Da qui si deduce perciò l’errore di quei socialisti che vogliono dimostrare il socialismo come la realizzazione delle idee borghesi, dalla rivoluzione francese non già scoperte bensì storicamente messe in circolazione. Ciò che distingue questi socialisti dagli apologeti borghesi è, per un verso, la sensazione delle contraddizioni del sistema, per l’altro verso l’utopismo, il non afferrare la differenza necessaria tra la forma reale e quella ideale della società borghese, e perciò il farsi carico dell’impresa superflua di voler essi stessi, da parte loro, realizzare l’espressione ideale, l’immagine luminosa trasfigurata e riflessa, gettata in quanto tale dalla realtà stessa.

[Karl Marx, Urtext] (no. 16 – 2.1990)

 

 

Questo regno celeste del sogno – il regno dell’“essenza dell’uomo” – i tedeschi l’oppongono agli altri popoli con enorme compiacimento, presentandolo come l’ultima perfezione e il fine di tutta la storia universale; in ogni campo essi considerano i loro vaneggiamenti come il giudizio finale e definitivo sui fatti delle altre nazioni, e siccome in ogni circostanza tocca loro soltanto la parte degli spettatori e degli esclusi, credono di essere chiamati a giudicare il mondo intero e a guidare tutta la storia fino al raggiungimento del suo ultimo scopo, che è in Germania.

Abbiamo già visto più volte come questa superbia nazionale altezzosa e tronfia corrisponda a una vita pratica assolutamente meschina, da bottegai e artigiani. Se la grettezza nazionale è sempre odiosa, in Germania essa diventa particolarmente ripugnante perché qui, unita all’illusione di essere superiori alla nazionalità e a tutti gli interessi reali, essa viene opposta alle nazioni che ammettono apertamente la loro grettezza nazionale e riconoscono di dipendere da interessi reali. Presso tutti i popoli, del resto, coloro che si ostinano a insistere sulla nazionalità ormai si trovano soltanto tra i borghesi e i loro scrittori.

[Friedrich Engels - Karl Marx, L’ideologia tedesca] (no. 17 – 3.1990)

 

 

Il capitalismo si è trasformato in sistema mondiale di oppressione coloniale e di jugulamento finanziario della schiacciante maggioranza della popolazione del mondo da parte di un pugno di paesi “progrediti”. L’imperialismo tende a costituire anche tra i lavoratori categorie privilegiate e staccate dalla grande massa dei proletari, a tenere sistematicamente distinti l’uno dall’altro lo “strato superiore” dei lavoratori e lo “strato inferiore propriamente proletario”. Lo strato superiore fornisce la massa dei membri dei sindacati, delle cooperative, delle associazioni sportive e delle numerose sètte religiose.

La tendenza dell’imperialismo a scindere la classe lavoratrice rafforza in essa l’opportunismo. L’imperialismo crea la possibilità economica di corrompere gli strati superiori del proletariato. Questo strato di operai imborghesiti, di “aristocrazia operaia”, completamente piccolo-borghese per il suo modo di vita, per i salari percepiti, per la sua filosofia della vita, costituisce il principale puntello sociale della borghesia. Questi operai sono veri e propri agenti della borghesia nel movimento operaio, veri propagatori di riformismo e sciovinismo.

[Vladimir Ilic Lenin, L’imperialismo] (no. 18 – 5.1990)

 

 

Non è dubbio che per eliminare ogni oppressione nazionale è molto importante creare circoscrizioni autonome, anche piccolissime, con una composizione nazionale omogenea, intorno alle quali potrebbero “gravitare”, o con le quali potrebbero istituire rapporti o libere unioni d’ogni genere i componenti di una data nazionalità sparsi in tutti gli angoli del paese o perfino del globo terrestre. Tutto questo è indiscutibile e può essere contestato soltanto da un punto di vista retrivo e burocratico.

Tuttavia, se la composizione nazionale della popolazione è uno dei fattori economici più importanti, esso non è né l’unico né il principale. Le città assolvono una funzione importantissima; eppure esse si distinguono dappertutto, in Polonia, in Lituania, in Ukraina, nella Grande Russia, ecc., per la loro composizione eterogenea. È assurdo e impossibile separare le città dai villaggi e dai circondari che gravitano economicamente intorno a esse, per considerazioni di carattere “nazionale”. E quindi i marxisti non devono schierarsi in assoluto ed esclusivamente per il principio “nazionale territoriale”. Su questa base, il parlamento centrale dello stato delimiterà i confini delle regioni autonome.

[Vladimir Ilic Lenin, Osservazioni critiche sulla questione nazionale] (no. 19 – 7.1990)

 

 

Il fenomeno della cosiddetta “nuova” classe media o classe media “non produttiva” è molto interessante per illustrare un aspetto del capitalismo moderno, ossia l’aspetto dello spreco e dei suoi usi nel sistema capitalistico. Marx rileva una tendenza diretta a eliminare la piccola borghesia o classe media, destinata a una rapida sparizione. Tuttavia non considerava essenziale la sparizione dell’intera classe media.

La “nuova” classe media, mentre non possiede alcuna proprietà, o comunque non una proprietà sufficiente da contare economicamente, è tuttavia una classe distinta e separata dal proletariato. Quei redditi che presumibilmente non derivano da salari devono costituire i redditi di questa “nuova” classe media, a meno che non siano redditi della classe media “proprietaria”. Il reddito non è in se stesso indice di una determinata posizione sociale o economica. Ciò che interessa è da dove l’individuo deriva il suo reddito. Non solo, ma anche in che condizioni e in che modo lo deriva.

Il proletario moderno non è semplicemente né necessariamente povero nel senso comune della parola; né è semplicemente un lavoratore, sebbene necessariamente lo sia. Il proletario è un lavoratore – generalmente povero – in particolari condizioni storiche. Tali condizioni consistono nel non possedere alcuna proprietà, cioè alcuna proprietà che conti socialmente – i mezzi di produzione. Così possono essere oggi poveri, e anche lavoratori, poveri che non sono proletari. Marx non intendeva dire che tutti coloro che vengono esclusi dalle file del capitalismo, col progredire del capitalismo, divengono proletari.

Qualora la “nuova” classe media fosse abbastanza numerosa costituirebbe una forza con cui fare i conti. La “nuova” classe media “non proprietaria”, insieme alla vecchia classe media “proprietaria”, costituisce oggi senz’altro una classe temibile che tende a diminuire solo lentamente.

Le “idee” e i modi di pensare della classe capitalistica sono inculcati nella classe lavoratrice, intenzionalmente o non, attraverso il suo strato più basso, la “classe media”. Fintantoché esiste una classe media numericamente estesa, la classe lavoratrice sarà sotto la sua influenza morale ed estetica. È questa classe che il lavoratore ha come punto di riferimento nelle sue aspirazioni per il futuro, che gli propina l’istruzio­ne, le prediche in chiesa e nelle società “morali”, ed è questa classe che raccoglie e vaglia per suo conto le notizie del mondo e gliele spiega sulla stampa quotidiana e gli offre la sua scienza popolare, la sua arte e la sua letteratura.

[Louis B. Boudin, Il sistema teorico di Marx] (no. 20 – 9.1990)

 

 

Considerando,

che l’emancipazione della classe produttiva è quella di tutti gli esseri umani senza distinzione di sesso e di razza;

che i produttori non potranno essere liberi finché non saranno in possesso di mezzi di produzione, terra, fabbriche, navi, banche, credito, ecc.;

che non vi sono che due forme sotto le quali i mezzi di produzione possono appartenere loro:

1. la forma individuale, che non è mai esistita allo stato dei fatti in modo generale e che è diminuita sempre più a causa del progresso industriale;

2. la forma collettiva, i cui elementi materiali e intellettuali sono costituiti dallo sviluppo stesso della classe capitalista.

Considerando,

che questa appropriazione collettiva non può provenire che dall’azione rivoluzionaria della classe produttiva – o proletariato – organizzata in un proprio partito politico;

che una simile organizzazione deve essere perseguita con tutti i mezzi di cui dispone il proletariato, compreso il suffragio universale, trasformato così da strumento d’inganno, quale è stato fin qui, in strumento di emancipazione;

i lavoratori, dandosi come obiettivo dei loro sforzi rispetto all’ordine economico il ritorno alla collettività dei mezzi di produzione, hanno deciso, come mezzo di organizzazione e di lotta, il seguente programma minimo ...

[Karl Marx]

“Di questo programma, Marx, in presenza di Lafargue e mia, nella mia stanza, ha dettato a Guesde, che scriveva, queste considerazioni preliminari, un capolavoro di ragionamento, convincente come non ne ho quasi mai sentiti, da esporre alle masse in poche parole chiare, e che ha stupito anche me per la sua concisione”.

[Friedrich Engels, Parigi, 30 giugno 1880] (no. 21 – 12.1990)

 

 

FRATELLO, È GIUNTA L'ORA

fratello, sii pronto,

trasmetti ora agli altri

la bandiera invisibile!

In morte non diversamente

che un tempo in vita,

non ti arrenderai a costoro,

o compagno.

Oggi sei vinto

e per questo sei schiavo,

ma la guerra finirà

solo con l’ultima battaglia,

ma la guerra non finirà

prima dell’ultima battaglia.

Fratello, è giunta l’ora,

fratello, sii pronto,

trasmetti ora agli altri

la bandiera invisibile!

Forza o diritto

e la bilancia oscilla,

ma dopo il giorno della

schiavitù verranno altri giorni.

Oggi sei vinto

e per questo sei schiavo,

ma la guerra finirà

solo con l’ultima battaglia,

ma la guerra non finirà

prima dell’ultima battaglia.

[Bertolt Brecht, Trust the people, canzone] (no.22 – 2.1991)

 

 

La guerra è una cosa che può essere ora più ora meno guerra. L’unità degli elementi contraddittori uniti nella vita pratica, è la nozione che la guerra è soltanto una parte del commercio politico e per conseguenza non è per nulla un fatto a sé stante. Nessuno ignora che la guerra è causata soltanto dai rapporti politici fra i governi e i popoli; ma generalmente si immagina che questi rapporti vengano a cessare per il fatto stesso della guerra, e che si stabilisca quindi un diverso stato di cose, retto dalle leggi proprie della guerra.

Noi affermiamo al contrario che la guerra non è null’altro che la continuazione della politica, con intervento di altri mezzi. Diciamo con intervento di altri mezzi, al fine di indicare con questo che, lungi dal cessare a causa della guerra o dal modificarsi, le relazioni politiche persistono nella loro essenza stessa, qualunque sia la forma assunta dai mezzi impiegati, e che le linee generali dello sviluppo degli avvenimenti bellici, a cui sono collegati, non sono nient’altro che le linee principali della politica, che si svolgono dal principio alla fine delle ostilità, fino alla pace.

La guerra non è forse un linguaggio per esprimere il proprio pensiero? Se non ha una propria logica, la guerra ha almeno una propria grammatica.

Si vede da questo che la guerra non deve mai essere separata dal commercio politico. E se si tenta di separarla, ne esce una cosa priva di senso e di scopo. Nella realtà, la guerra – poiché rispetto alla sua forma assoluta, lontana dallo sforzo estremo, non è che una mezza misura – racchiude in sé una contraddizione: che come tale non può seguire le sue proprie leggi, ma deve essere considerata il frammento di un complesso e questo complesso è la politica. Più la politica è grandiosa ed energica, più la guerra lo diviene a sua volta, e può assurgere fino a raggiungere la sua forma assoluta. È soltanto rappresentandosi così la guerra che le si rende la sua unità, che si possono considerare tutte le guerre come fatti della stessa natura.

[Karl von Clausewitz, Sulla guerra, 1806] (no.23 – 4.1991)

 

 

Il potere governativo non è nient’altro che l’amministrazione, “burocrazia”. La burocrazia ha come primo presupposto l’autogoverno della società civile in corporazioni. La burocrazia si fonda sulla separazione dello Stato e della società civile, e presuppone lo “spirito di corporazione”. Le corporazioni sono il materialismo della burocrazia, e la burocrazia è lo spiritualismo delle corporazioni.

Là dove la burocrazia è un nuovo principio, dove l’interesse generale dello Stato comincia a diventare un interesse “a parte” e però un interesse “reale”, essa lotta contro le corporazioni come ogni conseguenza lotta contro l’esistenza dei suoi presupposti. Al contrario, non appena la vita reale dello Stato si sveglia e la società civile, mossa da proprio istinto razionale, si libera dalle corporazioni, la burocrazia cerca di restaurarle. La conseguenza lotta per l’esistenza dei suoi presupposti, non appena un nuovo principio lotta non contro tale esistenza, ma contro il principio di essa esistenza.

Il medesimo spirito che crea nella società la corporazione, crea nello Stato la burocrazia. Se prima la burocrazia ha combattuto l’esistenza delle corporazioni per far posto alla propria esistenza, ora essa cerca di mantenere a viva forza l’esistenza delle corporazioni per salvare lo spirito corporativo, il suo spirito.

La burocrazia è il formalismo di Stato della società civile. Essa è la “coscienza dello Stato”, la “volontà dello Stato”, la “forza dello Stato”, in quanto è una corporazione. La burocrazia è forzata a proteggere l’immaginaria generalità dell’interesse particolare, lo spirito di corporazione, per proteggere l’immaginaria particolarità dell’interesse generale, suo proprio spirito: lo Stato deve essere corporazione, sino a che la corporazione vuol essere Stato.

La burocrazia, in quanto corporazione perfetta, ha la vittoria sulla corporazione, burocrazia imperfetta. La burocrazia è lo Stato immaginario accanto allo Stato reale. La burocrazia si pretende ultimo scopo dello Stato. Lo spirito generale della burocrazia è il segreto.

I “delegati governativi” sono la vera rappresentanza politica non della ma contro la società civile. La polizia, i tribunali e l’amministrazione sono delegati dello Stato per amministrare lo Stato contro la società civile. Mediante questi “delegati” l’opposizione non è soppressa, ma è divenuta opposizione legale, fissa. L’opposizione è fissata.

[Karl Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto] (no.24 – 6.1991)

 

 

Mi-en-leh, quando era in esilio, durante tutto l’inverno dava da mangiare agli uccellini fuori della sua finestra. Sono ridotti a questo, diceva, non hanno da mangiare e non possono formare una Lega.

Alcune persone che non hanno studiato bene i classici dicono che gli operai hanno una missione nei confronti dell’umanità. Queste sono chiacchiere dannose. Gli operai sono la parte più avanzata dell’umanità quando hanno capito che le cose vanno per loro nel modo peggiore se stanno fermi, ma non devono nulla all’umanità, è essa che deve a loro.

Missione significa mandato, quelli che hanno una missione sono quelli che vengono mandati. Io non posso dire per esempio: ho la missione di andare a prendere un pezzo di pane. Gli operai devono considerare con particolare diffidenza tutti coloro che li mandano a prendere qualcosa.

[Bertolt Brecht, Me-ti] (no.25 – 8.1991)

 

 

Nel 1918, relativamente alla situazione economica allora esistente nella Repubblica Sovietica – elencando semplicemente gli elementi fondamentali della struttura economica della Russia [la forma patriarcale, la piccola produzione mercantile, il capitalismo privato, il capitalismo di stato e il socialismo] – mi proposi di mettere in chiaro quali rapporti reciproci esistessero tra questi elementi e se non si dovesse attribuire a uno degli elementi non socialisti, cioè al capitalismo di stato, un valore più alto del socialismo, in una repubblica che si proclama socialista. Io mi rendevo conto, allora, che l’elemento piccolo-borghese predominava; non era possibile altrimenti. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che non sopravvalutavamo né i germi né gli inizi dell’economia socialista, quantunque avessimo già compiuto la rivoluzione sociale; al contrario, già allora comprendevamo, fino a un certo punto, che sarebbe stato meglio se dapprima fossimo pervenuti al capitalismo di stato e soltanto dopo al socialismo.

Non voglio dire che noi avessimo già un piano di ritirata preparato in precedenza. Nondimeno un’idea generica, indeterminata, di ritirata vi era già contenuta. Non soltanto dal punto di vista di un paese che, per la sua struttura economica, era ed è tuttora molto arretrato, ma anche dal punto di vista dell’internazionale comunista e dei paesi progrediti dell’Europa occidentale. Non abbiamo quasi affatto riflettuto sulla possibilità di una ritirata e sul modo di assicurare questa ritirata.

Dobbiamo non soltanto sapere come agire quando passiamo direttamente all’offensiva e quando vinciamo. In un periodo rivoluzionario, ciò non è poi tanto difficile e neanche tanto importante, o, per lo meno, non è la cosa più decisiva; vi sono sempre dei momenti nei quali l’avversario perde la testa, e se noi l’attac­chiamo in uno di questi momenti, possiamo vincere con facilità. Ma ciò non significa ancora nulla, perché il nostro avversario, se ha ancora un sufficiente dominio di sé, può raccogliere le forze, facilmente provocarci ad attaccare, e poi respingerci indietro di molti anni. Tutti i partiti che nel prossimo avvenire si prepareranno a passare all’offensiva diretta contro il capitalismo devono pensare fin d’ora al modo di assicurarsi una ritirata.

[Vladimir Ilic Lenin, Cinque anni della rivoluzione russa, 13 novembre 1922] (no.26 – 10.1991)

 

 

Sì, è vero, abbiamo pubblicato articoli lunghi, studi difficiili, e continueremo a farlo, ogni qualvolta ciò sarà richiesto dall’importanza e dalla gravità degli argomenti. Non vogliamo nascondere nessuna difficoltà, crediamo bene che la classe lavoratrice acquisti fin d’ora coscienza dell’estensione e della serietà dei compiti che le incomberanno domani, crediamo onesto trattare i lavoratori come uomini cui si parla apertamente, crudamente, delle cose che li riguardano. Non vi sono né due verità, né due diversi modi di discutere. E non vi è nessun motivo per cui, rivolgendosi a operai e contadini, trattando i problemi che li riguardano, si debba usare un tono minore, diverso da quello che a siffatti problemi si conviene.

Il giornale-merce, quale lo determina la concorrenza commerciale tra i proprietari di aziende giornalistiche, è una pizzicheria, dove una schiera di solerti impiegati affetta, impacca, accumula: formaggi, mortadelle, gelatine, molta patata e poco latte, molto cavallo e poco manzo, molta colla poco brodo. Tutto per una vilissima moneta.

[Antonio Gramsci, Scritti (1918-1919)] (no.27 – 12.1991)

 

 

In quello che era destinato a rimanere l’ultimo articolo filosofico di Lenin, Sul significato del materialismo militante, venivano indicati due compiti prioritari, vale a dire “l’alleanza con i materialisti conseguenti che non appartengono al partito comunista” e quella con “i rappresentanti delle moderne scienze della natura, che inclinano verso il materialismo”. Bisogna prendere le mosse dal fatto che l’attività conoscitiva ci porta a risultati “sempre più veri”, cioè a risultati che, secondo le parole di Lenin, hanno un “carattere temporaneo, relativo, approssimativo”.

Il dibattito sui rapporti tra scienza e filosofia continuò a interessare i pensatori russi anche dopo la vittoria della rivoluzione. Le violente polemiche antifilosofiche degli anarchici, dei populisti e delle altre organizzazioni democratiche e progressiste, continuarono ad essere considerate da molti un autentico punto di riferimento. Non tutti però concordavano con il programma tracciato da Lenin: mentre riconoscevano la validità dell’invito a ricercare una sempre più stretta unità d’azione con gli scienziati di orientamento materialistico, contestavano in modo deciso l’utilità di ogni elaborazione di stampo filosofico, di ogni forma di compromissione del marxismo con la dialettica hegeliana.

A questa posizione radicale, che predicava l’esigenza di una rottura senza equivoci e senza compromessi con la filosofia del passato, si opponevano i filosofi che si preoccupavano di sviluppare quella parte del programma leniniano che invitava esplicitamente il gruppo di redattori e collaboratori della rivista Sotto le bandiere del marxismo a costituire una specie di “società degli amici materialistici della dialettica hegeliana”.

Il principale motivo di contesa divenne l’interpretazione della dialettica. Nel 1929-30 ebbe inizio la grande svolta guidata da Stalin, che nell’ambito della cultura condusse alla contrapposizione fra “scienza proletaria” e “scienza borghese” e alla lotta senza quartiere contro tutte le idee provenienti da occidente. In questa lotta furono sconfitti i dialettici. Cominciò allora l’epoca del predominio assoluto del Diamat, una dottrina né scientifica né filosofica, ma piuttosto un insieme di dogmi senza alcun riferimento con la realtà (né quella storica, né quella della scienza).

[Ludovico Geymonat] *in memoria* (no.28 – 2.1992)

 

 

LA SCOPERTA DEGLI STATI UNITI D’AMERICA

Secondo una leggenda che si perde

nei secoli dei secoli, le merde

di tutti gli animali dentro l’Arca

venivano serbate dal Patriarca.

Con queste avrebbe dopo concimato

a terra emersa campo vigna e prato.

Purtroppo questa massa di letame

cresciuta grazie a tutto quel bestiame

presto finì col rendere il natante

da tanto peso gobbo e pencolante.

Tant’è che il capitano fe’ buttare

quella robaccia giù di sotto in mare.

Essendo più leggera d’una palla

non affondò ma ci rimase a galla.

Fosse stata pesante come piombo

scoperta non l’avrebbe mai Colombo

né dopo lui Vespucci, e Gargantua

sarebbe stato sempre a casa sua.

Se dalla coffa avesse avuto naso

oltre che l’occhio, non avrebbe a caso

urlato terra ma bensì merdaio

di cima l’infreddato marinaio.

L’avrebbero scansata, così priva

sarebbe sempre andata alla deriva.

Questa la vera storia che la gente

ignora sopra il Nuovo Continente.

La raccontò Panurge a Malamotta

che la graffìò col chiodo nella grotta.

Per caso lì passavo, ce la lessi.

Se dubitate andateci voi stessi.

[Mauro Marrucci, La vera storia degli Stati Uniti d’America] (no.29 – 4.1992)

 

 

In questo paese ci sono molti bianchi, specialmente della giovane generazione, i quali capiscono quali ingiustizie siano state e siano perpetrate ai danni dei neri e come sia inevitabile che un giorno tutti i nodi vengano al pettine. Questi bianchi, che magari non sono spinti da motivi moralistici, capiscono razionalmente che si deve fare qualcosa. Quando un bianco viene da me e mi dice di essere liberal, voglio sapere prima di tutto se è un liberal non violento oppure un liberal dell’altra specie. I primi non mi piacciono. Se non siete liberal dell’altra specie, ebbene, allora vuol dire che faremo i conti con voi più tardi.

Se la gente è pronta a intraprendere qualsiasi azione necessaria per ottenere determinati risultati, avrà sempre la meglio. I risultati non si ottengono finché ci si muove in base alle regole fissate dalla struttura di potere bianca. Per far muovere le cose, bisogna muoversi, ed è questo che deve capire la nostra gente – uomini dalla pelle nera che sono vittime dell’americanismo, vittime della democrazia che non è altro che un’i­pocrisia travestita. Debbono organizzarsi e impegnarsi a svolgere un’azione ben coordinata che richiederà tutti i mezzi necessari per eliminare le condizioni esistenti, che non soltanto sono ingiuste ma addirittura criminali. Vedo l’America con gli occhi della vittima e non riesco a vedere nessun sogno americano. Quello che vedo è un incubo americano. La rivolta dei neri americani fa parte della generale ribellione contro il colonialismo e l’oppressione che caratterizzano il nostro tempo. È scorretto considerare la rivolta dei neri semplicemente come uno scontro razziale o come un problema puramente americano. Bisogna capire che quella a cui assistiamo oggi è una ribellione generale degli oppressi contro gli oppressori, degli sfruttati contro gli sfruttatori.

È impossibile che il capitalismo possa sopravvivere, innanzitutto perché ha bisogno di sangue da succhiare. Prima era come un’aquila, ma ora somiglia di più all’avvoltoio. Prima aveva abbastanza forza per andare a succhiare il sangue di tutti, deboli o forti che fossero, ma ora è diventato più vile, come l’avvoltoio, ed è in grado di succhiare solo il sangue degli inermi. Nella misura in cui i vari popoli e nazioni si liberano, il capitalismo vede diminuire le sue vittime, ha meno sangue da succhiare e diventa più debole.

[Malcolm X, Ultimi discorsi (1965)] (no.30 – 6.1992)

 

 

Il potere di stato centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti – esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura, organi prodotti secondo il principio di una divisione del lavoro sistematica e gerarchica – il governo posto sotto il controllo del parlamento, cioè sotto il controllo diretto delle classi possidenti, non diventò solamente una fabbrica di enormi debiti nazionali e di imposte schiaccianti; con la irresistibile forza di attrazione dei posti, dei guadagni e delle protezioni esso non diventò solamente il pomo della discordia tra le frazioni rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti; ma anche il suo carattere politico cambiò insieme con le trasformazioni economiche della società. A misura che il progresso dell’industria moderna sviluppava, allargava, accentuava l’antagonismo di classe tra il capitale e il lavoro, il potere dello stato assumeva sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di forza pubblica organizzata per l’asservimento sociale, di uno strumento di dispotismo di classe, un regime di terrorismo di classe aperto e di deliberato insulto della “vile moltitudine”: attribuire all’esecutivo poteri di repressione sempre più vasti, ma in pari tempo spogliare la loro stessa fortezza parlamentare di tutti i suoi mezzi di difesa contro l’esecutivo, l’uno dopo l’altro.

L’impero, col colpo di stato come certificato di nascita, il suffragio universale come sanzione e la spada come scettro, pretendeva di salvare la classe operaia distruggendo il parlamentarismo, e, insieme con esso, l’aperta sottomissione del governo alle classi possidenti. Pretendeva di salvare le classi possidenti mantenendo la loro supremazia economica sulla classe operaia. Finalmente pretendeva unire tutte le classi ravvivando per tutte la chimera della gloria nazionale. La speculazione finanziaria celebrò delle orge cosmopolite; la miseria delle masse fu messa in rilievo da un’ostentazione sfacciata di un lusso esagerato, immorale, delittuoso. Il potere dello stato, apparentemente librato al di sopra della società, era in pari tempo lo scandalo più grande di questa società e il vivaio di tutta la sua corruzione. La sua decomposizione, e la decomposizione della società che esso aveva salvato, vennero messe a nudo. L’imperialismo è la più prostituita e l’ultima forma del potere di stato.

[Karl Marx, La guerra civile in Francia] (no.31 – 8.1992)

 

 

La nostra lotta contro il funzionarismo sindacale non poteva essere giustificata meglio. Le folle dei lavoratori erano scese in campo per difendere il loro elementare diritto alla vita, alla libertà di muoversi nelle strade, alla libertà di associarsi, di riunirsi, di avere propri locali di riunione. Il congresso confederale non ha impostato neppure uno dei problemi vitali per il proletariato nell’attuale periodo storico, né il problema delle istituzioni che meglio possono contenere lo sviluppo della lotta di classe.

L’unica preoccupazione della maggioranza del congresso è stata quella di salvaguardare e garantire la posizione e il potere politico degli attuali dirigenti sindacali, di salvaguardare e garantire la posizione e il potere (potere impotente) del Partito socialista. I sedicenti delegati di queste masse popolari si perdevano nelle bassure più paludose e miasmatiche della lotta personale; questi dirigenti, questi capi, questi futuri amministratori della società impazzivano e schiumavano per un articolo di giornale, per un trafiletto, per un titolo. Questi uomini non vivono più per la lotta delle classi: tra loro e le masse si è scavato un incolmabile abisso, l’unico contatto tra loro e le masse è il registro dei conti e lo schedario dei soci. Questi uomini non vedono più il nemico nella borghesia, lo vedono nei comunisti; hanno paura della concorrenza, sono da capi divenuti banchieri d’uomini in regime di monopolio, e il minimo accenno di una concorrenza li rende folli di terrore e di disperazione. Il nostro pessimismo è stato superato da questa esperienza. Noi abbiamo sempre visto nel problema dell’organizzazione delle grandi masse, nel problema della scelta del personale dirigente di questa organizzazione, il problema centrale del movimento rivoluzionario moderno; mai, però, come oggi, abbiamo sentito tutta la gravità e l’estensione del problema, mai, come oggi, abbiamo sentito tutta la cancrena che rode il movimento. I funzionari non rappresentano le masse. La Confederazione rappresenta, nello sviluppo storico del proletariato, ciò che lo stato assoluto ha rappresentato nello sviluppo storico delle classi borghesi. È aumentato il nostro pessimismo, ma è sempre viva e attuale la nostra divisa: pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà

[Antonio Gramsci, Scritti (4.3.1921)] (no.32 – 10.1992)

 

 

Il meccanismo capitalistico non ha alcun cervello regolatore, in grado di adeguare coscientemente l’am­piezza dell’accumulazione alla situazione di equilibrio necessaria. Il capitale finanziario che cerca investimento, e non trova nella sfera della produzione alcun impiego redditizio, si dirige verso la borsa per pescare nel torbido – fino a che si ripresenti una situazione di redditività (valorizzazione) nella sfera della produzione. L’“attività” della borsa si trova in rapporto strettissimo con il movimento del tasso di interesse sul mercato finanziario. La crisi acuta esplode alla fine dell’espansione e transitoriamente crescono di livello anche i tassi di interesse, e in questo modo anche il crollo del prezzo dei titoli è grande. La caduta del corso di questi titoli però è il pretesto per il loro acquisto in massa da parte degli speculatori di borsa. Così la speculazione comincia proprio nella depressione. Dal punto di vista economico privato, l’investimento in borsa è fruttifero come qualsiasi altro. L’“investimento” in borsa però non crea né valore né plusvalore. Esso ha per scopo soltanto un aumento dei corsi e trasferimenti di capitale. Questo capitale si rivolge alla borsa, dimenticando il carattere illusorio di questi investimenti.

La catena delle cause, a partire dalla sfera della produzione, grazie al funzionamento immanente dell’accumulazione capitalistica, propaga la necessità del decorso ciclico alla sfera della circolazione (mercato finanziario, borsa titoli). Se viene di nuovo ricostituita nel processo di produzione la valorizzazione degli investimenti di capitale, si avrà da capo un’ulteriore accumulazione. Il tasso di profitto cresce. Se esso diviene superiore alla rendita dei titoli a tasso fisso, i capitali abbandonano la borsa e affluiscono nuovamente alla sfera della produzione, per trovare in questa sede un impiego produttivo. I titoli vengono di nuovo acquistati dal pubblico che cerca un investimento durevole e non specula mirando all’arricchimento. Però questo investimento “durevole”, dura soltanto fino alla crisi successiva. Alla stretta successiva del mercato finanziario, i titoli vengono di nuovo acquistati dalla borsa. Il gioco si ripete, però su base mutata: la centralizzazione del patrimonio finanziario è sempre più grande. In questo modo si spiega il potere crescente del capitale finanziario.

[Henryk Grossmann, La legge generale dell’accumulazione e il crollo del capitalismo] (no.33 – 12.1992)

 

 

Ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto. In una mescolanza quasi spettrale, queste due specie di violenza sono presenti in un’istituzione dello stato moderno: nella polizia. Essa è bensì un potere a fini giuridici (potere di disporre), ma anche con la facoltà di stabilire essa stessa, entro vasti limiti, questi fini (potere di ordinare). L’aspetto ignominioso di questa autorità consiste in ciò che, in essa, è soppressa la divisione tra violenza che pone e violenza che conserva la legge. Se si esige dalla prima che mostri i suoi titoli nella vittoria, la seconda è soggetta alla limitazione di non doversi porre nuovi fini.

La polizia è emancipata da entrambe le condizioni. Essa è potere che pone – poiché la funzione specifica di quest’ultimo non è di promulgare le leggi, ma qualunque decreto emanato con forza di legge – ed è potere che conserva il diritto, poiché si pone a disposizione di quegli scopi. Il “diritto” della polizia segna proprio il punto in cui lo stato, vuoi per impotenza, vuoi per le connessioni immanenti di ogni ordinamento giuridico, non è più in grado di garantirsi – con l’ordinamento giuridico – gli scopi empirici che intende raggiungere ad ogni costo. Perciò la polizia interviene, “per ragioni di sicurezza”, in casi innumerevoli in cui non sussiste una chiara situazione giuridica, quando non accompagna il cittadino, come una vessazione brutale, senza alcun rapporto con fini giuridici, attraverso una vita regolata da ordinanze, o addirittura non lo sorveglia.

Il suo potere è informe come la sua presenza spettrale, inafferrabile e diffusa per ogni dove, nella vita degli stati civilizzati. Se vien meno la consapevolezza della presenza latente della violenza in un istituto giuridico, esso decade. Il compromesso, benché ripudi ogni violenza aperta, è pur sempre un prodotto compreso nella mentalità della violenza, perché l’aspirazione che porta al compromesso non è motivata da se medesima, ma dall’esterno, e cioè dall’aspirazione opposta; e poiché ogni compromesso, anche se liberamente accettato, ha essenzialmente un carattere coattivo. Riprovevole è la violenza che conserva il diritto, la violenza amministrata, che la serve. La violenza divina, che è insegna e sigillo, mai strumento di sacra esecuzione, è la violenza che governa.

[Walter Benjamin, Per la critica della violenza] (no.34 – 2.1993)

 

 

18 APRILE 1948

Vi ricordate quel diciotto aprile

d’aver votato democristiani,

senza pensare all’indomani,

a rovinare la gioventù?

O care madri dell’Italia,

e che ben presto vi pentirete

e i vostri figli ancor vedrete

abbandonare lor casolar.

Che cosa fa quel Mario Scelba,

con la sua celere questura?

Ma i comunisti non han paura,

difenderanno la libertà.

E operai e compagni tutti,

che sempre uniti noi saremo

e tutti in coro noi canteremo:

bandiera rossa la trionferà.

[canzone popolare] (no.35 – 4.1993)

 

 

Il partito di Mackie Messer. L’ordinamento giuridico borghese e il delitto, secondo le regole del romanzo poliziesco, sono tra loro antagonisti. In questo romanzo poliziesco il rapporto fra ordinamento giuridico borghese e delitto è rappresentato in modo conforme alla realtà. L’ultimo si rivela come un caso particolare dello sfruttamento che è sancito dal primo.

Nei manuali di criminologia i delinquenti sono indicati come elementi asociali. Ma per alcuni la storia contemporanea ha confutato questa definizione. Facendosi delinquenti, molti sono diventati modelli sociali. È il caso di Mackie Messer. Egli appartiene alla nuova scuola. Ha la natura di un capo. Le sue parole hanno un tono statale, le sue azioni un tono commerciale. I compiti di un capo non sono mai stati più difficili di oggi. Non basta usare la forza per la conservazione dei rapporti di proprietà. Non basta obbligare gli stessi espropriati al proprio sfruttamento. Questi compiti pratici esigono di essere risolti. Ma come da una ballerina non si pretende solo che sappia danzare, ma anche che sia graziosa, così il fascismo non esige solo un salvatore del capitale, ma anche che egli sia un gentiluomo. È questo il motivo per cui un tipo come Mackie in questi tempi ha un valore inestimabile. Egli è capace di ostentare ciò che il piccolo borghese intristito ritiene tipico di una personalità. Nessuno vuole dargli spiegazioni, uno deve farlo. Ed egli lo può. Poiché questa è la dialettica della cosa: dato che egli vuole assumersi la responsabilità, i piccoli borghesi lo ringraziano con la promessa di non chiedergli conto di nulla.

Mackie non si lascia sfuggire nessuna occasione di farsi vedere. Egli dimostra “che si può dire tutto”, a es. quanto segue: “secondo la mia opinione, noi non abbiamo le persone giuste al vertice dello stato. Appartengono tutte a qualche partito, e i partiti sono egoisti. Abbiamo bisogno di persone che stiano al di sopra dei partiti. Noi vendiamo la nostra merce ai poveri e ai ricchi. La direzione dello stato è un compito morale. Bisogna ottenere che gli imprenditori siano buoni imprenditori, gli impiegati buoni impiegati, insomma i ricchi buoni ricchi e i poveri buoni poveri. Sono convinto che verrà il tempo in cui lo stato sarà guidato in questo modo. Un governo così mi conterà tra i suoi sostenitori”.

[Walter Benjamin, “Il romanzo da tre soldi” di Brecht] (no.36 – 6.1993)

 

 

Che la crisi delle classi medie sia oggi al primo piano è solo un fatto politico contingente, è solo la forma del periodo che appunto perciò chiamiamo fascista. Il fascismo è sorto e si è sviluppato sul terreno di questa crisi sfruttando e organizzando l’incoscienza e la pecoraggine della piccola borghesia ubriaca di odio contro la classe operaia. La rovina delle classi medie è deleteria perché il sistema capitalistico non si sviluppa, ma invece subisce una restrizione; essa è la stessa crisi del regime capitalistico, iniziatasi in Italia così come in tutto il mondo con la guerra, che non riesce più a soddisfare le esigenze vitali del popolo italiano. Ha disperso i sindacati di classe, ha diminuito i salari e aumentato gli orari; ma ciò non bastava per assicurare una vitalità anche ristretta al sistema capitalistico; era necessario perciò anche un abbassamento di livello delle classi medie, la spoliazione e il saccheggio dell’economia piccolo-borghese, e quindi la soffocazione di ogni libertà e non solo delle libertà proletarie, e la lotta non solo contro i partiti operai, ma anche e specialmente, in una fase determinata, contro tutti i partiti politici.

L’aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda. Il monopolio del credito, il regime fiscale, gli affitti, hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia, senza sviluppo dell’apparato di produzione. Costringere i risparmiatori ad investire i loro capitali in una determinata direzione non ha dato molti frutti per i piccoli industriali, non ha che rimbalzato gli effetti della crisi da un ceto all’altro, allargando il malcontento e la diffidenza già grandi nei risparmiatori. Nelle campagne il processo della crisi è più strettamente legato con la politica fiscale dello stato.

L’elemento politico, rappresentato dal capitalismo che organizza il blocco governativo borghese-agrario-fascista, si riferisce ai rapporti nuovi che vanno formandosi tra il capitalismo dirigente e gli elementi di massa del blocco governativo, costituiti essenzialmente da determinati strati delle classi medie urbane. Ciò che interessa dal nostro punto di vista è che questa crisi rappresenta il distacco della piccola borghesia dalla coalizione borghese-agrario-fascista.

[Antonio Gramsci, La crisi italiana, 1924; Un esame della situazione italiana, 1926] (no.37 – 8.1993)

 

 

Quando dichiarava che la classe operaia aveva la “missione storica” di metter fine al sistema capitalistico, Marx parlava della espropriazione dei pochi da parte dei molti. Il proletariato industriale di cento anni fa oggi si è ingrandito fino a diventare una massa amorfa di lavoratori salariati, che dipendono tutti dalle vicissitudini degli eventi di mercato e dalle mutevoli fortune del processo di accumulazione.

Qualunque cosa pensino di se stessi, essi non appartengono alla classe dominante, ma a quella dominata. Il capitalismo è fondamentalmente una società di due classi, nonostante tutte le differenze di stato all’interno di ciascuna classe. La classe dominante è la classe che prende le decisioni; l’altra classe, a prescindere dalle differenziazioni interne, è alla merce’ di queste decisioni. Senza il controllo del processo di produzione, nessuna decisione è possibile. Il controllo della produzione è esercitato con il controllo dei mezzi di produzione, con l’ideologia e con la forza. Ma proprietà, ideologia e forza da sole non bastano, non possono produrre alcunché. L’intero edificio sociale si basa sul lavoro produttivo. I lavoratori produttivi hanno quindi a loro disposizione più forza potenziale di ogni altro gruppo sociale. Per rendere effettiva questa forza potenziale c’è solo bisogno che i produttori si rendano conto delle realtà sociali e applichino questa conoscenza ai loro propri fini.

La negazione di questo fatto è il compito principale dell’ideologia borghese, come si rileva dalle sue teorie economiche e dal generale discredito in cui è tenuto il lavoro produttivo. La “socializzazione” tecnico-organizzativa della produzione, vale a dire l’interdipendenza di tutta la popolazione in un ininterrotto flusso di produzione, dà alla classe operaia un potere quasi assoluto di vita e di morte sulla società attraverso la semplice cessazione del lavoro. I lavoratori potrebbero scuotere la società dalle fondamenta se decidessero di cambiarne la struttura. È per questa ragione che i sindacati operai sono stati inseriti negli ordinamenti della società capitalistica, con il fine di controllarne le vertenze industriali, e che i governi, compresi quelli laburisti, approvano leggi antisciopero. In vista delle inevitabili nuove crisi del capitalismo mondiale, l’e­spressione socialismo o barbarie esprime solo le uniche due alternative reali.

[Paul Mattick, Marx e Keynes (1969)] (no.38 – 10.1993)

 

 

Me-ti diceva: Quando un regno è condotto verso l’abisso da bande di briganti che si sono impadronite del governo, coloro che predicono la fine trovano scarso credito per le seguenti ragioni: i grandi regni hanno in sé qualcosa di durevole già per la loro stessa grandezza. La vita in piccolo continua al modo solito, i panettieri vendono pane, si stampano libri, escono i giornali, si celebrano matrimoni, si seppelliscono i morti, si costruiscono case. In tutto ciò è ancora all’opera la ragione. L’osservatore spera quindi, senza cercare di rendersi esattamente conto della questione, che questa grande riserva di ragione, questa collaudatissima attività quotidiana, debba pure rimediare ai tratti demenziali dei reggitori. Questi tratti demenziali desumono da ciò una parvenza di plausibilità, di ragione addirittura.

[Bertolt Brecht, Me-ti, libro delle svolte] (no.39 – 12.1993)

 

 

Per più di dieci anni Marx ed Engels lottarono sistematicamente, con tenacia, contro l’“ala destra” (espressione di Engels), e insegnavano con particolare insistenza: non cadete nel filisteismo, nell’opportuni­smo da intellettuali piccolo-borghesi, nel “cretinismo parlamentare”.

L’azione delle masse è sempre, e non soltanto durante la rivoluzione o in una situazione rivoluzionaria, più importante dell’attività parlamentare. Per i comunisti il parlamentarismo è “politicamente superato”; ma si tratta precisamente di non ritenere ciò che è superato per noi come superato per la classe, per le masse. La partecipazione a un parlamento democratico borghese non solo non nuoce al proletariato rivoluzionario, ma rende più facile dimostrare alle masse arretrate perché tali parlamenti meritino di essere sciolti, facilita la riuscita del loro scioglimento, facilita il “superamento politico” del parlamentarismo borghese.

Dove non vi sono istituzioni rappresentative, parlamenti, assemblee di rappresentanti, le mistificazioni, le menzogne politiche e le soverchierie di ogni specie sono ancora più diffuse, e il popolo ha molti meno mezzi per smascherare l’inganno e scoprire la verità. Più grandi sono le libertà politiche di cui un paese gode, più le sue istituzioni rappresentative sono solide e democratiche, più facile è per le masse popolari orientarsi nella lotta fra i partiti e imparare la politica.

Ma c’è parlamentarismo e parlamentarismo. Gli uni si servono dell’arena parlamentare per rendersi grati ai propri governi, oppure, nel migliore dei casi, per lavarsene le mani. Altri si servono del parlamentarismo per rimanere rivoluzionari fino alla fine, per adempiere il loro dovere di socialisti e internazionalisti anche nelle circostanze più difficili. L’attività parlamentare degli uni li conduce al seggio ministeriale, quella degli altri li conduce in prigione, in esilio, ai lavori forzati. Gli uni sono socialimperialisti. Gli altri marxisti rivoluzionari.

I rappresentanti intelligenti della borghesia l’hanno perfettamente compreso. Per questo esaltano tanto gli attuali partiti socialisti, alla testa dei quali trovano dei “difensori della patria”, cioè dei difensori della rapina imperialista. Per questo i governi rimunerano i capi socialsciovinisti sia con posti ministeriali, sia col monopolio di una vita legale senza ostacoli. Per questo, appunto, dove la trasformazione in partito operaio nazional-liberale controrivoluzionario è stata più manifesta, gli opportunisti intelligenti sono soprattutto preoccupati di salvare l’antica “unità” dei vecchi partiti che hanno reso servigi così grandi alla borghesia. Engels disse un giorno: gli opportunisti “onesti” sono i più pericolosi per la classe operaia.

[Vladimir Ilic Lenin, Scritti vari (1908-12-15-16-20)] (no.40 – 2.1994)

 

 

La sua storia è per lungo tempo la storia di un uomo solitario. Ma la sua storia intellettuale è fin dal principio, eminentemente, la storia di un uomo pubblico e di un combattente.

Ma l’ambiente culturale e letterario, lo sviluppo storico non bastano a spiegare le mosse di un uomo che, dalla scelta lucida di un “servizio letterario” come strumento di distruzione e modificazione, passò attraverso la morte della letteratura, non una morte tardivamente declamata da un retore nichilista, bensì comminata da un rivoluzionario incontentabile, intollerante degli indugi e insofferente della realtà data, per tornare poi, incessantemente, sul terreno della fedeltà a un lavoro contraddittorio nella sua urgenza come nella sua inadeguatezza, fino alla scelta definitiva dell’abbandono della macchina fantastica, ma anche al risultato obiettivamente verificabile di un rinnovamento della parola scritta, della sua pregnanza e del suo uso contestuale al rapporto con le persone e con l’organizzazione dei combattenti, con la quotidianità del rischio estremo: sapendo ridurre e attendere lavorando, egli apriva la strada a una nuova cultura.

Prima ancora di approdare al possesso dei “classici” che conferivano serenità e metodo alla conoscenza del reale, prima di addossarsi con le spalle sicure (ideologicamente e politicamente, non fisicamente) al muro del movimento di milioni di uomini e di donne, aveva già realizzato, nella sostanza, la proprietà della negazione. I suoi inizi letterari, e gli sviluppi successivi, non sono paragonabili, per capacità di mostrare il capovolgimento del reale e quindi di negarlo radicalmente, a quello di alcuno dei suoi compagni di strada.

Consapevole molto prima di diventare marxista che la letteratura è un servizio di classe, non ebbe nulla in comune nemmeno con i posteriori sviluppi della “letteratura rivoluzionaria”, preferendo parlare della “letteratura di un’epoca rivoluzionaria”, di “letteratura e rivoluzione”, di “letteratura e sudore”. La contraddizione, mantenuta aperta, si riproduceva (e produceva) passando per la sintesi che sta alla base di tutto il suo lavoro: Io penso che la questione fondamentale sia se lo scrittore è un rivoluzionario”. Ma più facile ancora è, per noi, presentare all’esame i risultati. Essi sorgono da una nuovissima dialettica di ironia e di scienza. Questo grande compagno degli uomini li amò senza rimpianti, con tenerezza stoica ma con storica consapevolezza delle divisioni: attese, mentre serviva gli ambienti della lotta, a una potatura di se stesso come scrittore. Alla luce della storia successiva, si potrebbe pensare che la sua stessa grandezza lo costringerà a rimanere solo fino a quando la rivoluzione non sia compiuta.

[Gianfranco Ciabatti, Lu Hsün: giavellotti] * in memoria* (no.41 – 4.1994)

 

 

Nel bel tempo antico, quando i ricordi del Risorgimento erano ancora vivaci e la conquista della Costituzione rappresentava ancora un valore per la grande massa della popolazione italiana, si svolse un’interes­sante polemica sulla natura e sulla importanza del giuramento di fedeltà che i deputati devono prestare in Parlamento. I liberali così ragionavano: la Costituzione è un patto reciproco di fedeltà tra popolo e sovrano; se il popolo, attraverso le persone dei suoi rappresentanti, si sottrae all’obbligo di fedeltà, se il popolo domanda, con l’abolizione del giuramento, libertà di operare contro la Costituzione, anche il sovrano viene, di diritto, ad essere sciolto dai suoi vincoli, anche al sovrano viene riconosciuta la libertà di organizzare e di attuare il colpo di stato contro la Costituzione.

Il governo rappresenta il sovrano nel Parlamento nazionale, è anzi responsabile dinanzi al popolo. Se il governo lascia impunemente violare la Costituzione, che cosa significa ciò se non questo: avere il governo, responsabile per il sovrano, violato il giuramento di fedeltà alla Costituzione? Cosa significa ciò se non che si sta preparando, da parte degli organismi statali che si raggruppano nel potere esecutivo, un colpo di stato? Cosa significa ciò se non che in Italia viviamo già nell’ambiente da cui automaticamente deve sbocciare il colpo di stato?

Il patto tra popolo e sovrano è dunque ormai denunziato, per volontà del potere statale che rappresenta il secondo. La popolazione deve, per logica stessa degli avvenimenti, dividersi in due parti: favorevoli e contrari al colpo di stato reazionario, o meglio favorevoli al colpo di stato reazionario e favorevoli a un’insur­rezione popolare capace di spezzare il colpo di stato reazionario. La stessa Costituzione riconosce l’even­tualità: essa riconosce al popolo il diritto di insorgere in armi contro ogni tentativo dei poteri statali di infrangere la Costituzione.

Ora: a chi giova il colpo di stato? Esso può giovare solo ai concussori, ai prevaricatori, ai poltroni, ai parassiti; quasi sempre il colpo di stato non è altro che lo strumento della feccia statale per mantenere le posizioni occupate e divenute micidiali per la società; questa gente non ha scrupoli, si infischia dei giuramenti e dell’onore, essa odia tutti i lavoratori.

[Antonio Gramsci, Il sostegno dello stato, novembre 1921] (no.42 – 6.1994)

 

 

Il Comediavolosichiama fu d’un tratto sulle labbra di tutti. Quest’uomo eminente già da anni aveva raccolto intorno a sé, in una città di provincia, una quantità di piccoli borghesi, assicurando loro, con una verbosità insolita, che stava per inaugurare una grande epoca. Dopo essersi esibito qualche anno nel circo, si guadagnò la fiducia del presidente. Io però, che una grande epoca l’avevo già vissuta in gioventù, mi cercai in fretta un posto e lasciai il paese in quattro e quattr’otto.

Sentii parlare per la prima volta del fascismo anni fa; e come di un movimento diretto contro l’eterno ritardo dei treni italiani e smanioso di restaurare la grandezza dell’antico Impero Romano. Sentii dire che i suoi membri portavano camicie nere. Però mi parve un’idea sbagliata, questa che sul nero lo sporco non si veda. Per questo le camicie brune sono molto più pratiche; ma sfido io, questo movimento sorse dopo e poté perciò sfruttare l’esperienza del primo.

La cosa più importante mi parve che il Coso promettesse al popolo italiano una “vita pericolosa”. A sentire i giornali italiani, pare che questa promessa sollevasse un’ondata di entusiasmo nella popolazione. Questi movimenti fascisti si autodefiniscono dappertutto movimenti popolari. Loro infatti dicono di andare verso il popolo, cioè verso i nullatenenti. Spesso usano un tono molto aspro contro i ricchi. In contraccambio, però, devono pur fare qualcosa. In generale si pretende troppo dai grandi uomini. Non è meraviglia che non possano adeguarsi a queste tremende pretese.

Si pretende che siano disinteressati. Vorrei sapere come potrebbero esserlo, e perché proprio loro. Ma loro devono continuamente assicurare che non ne ricavano nulla, se non pene preoccupazioni e notti insonni, e il Comediavolosichiama deve pubblicamente versare litri di lacrime per dimostrare l’onestà delle sue intenzioni. Infatti il popolo lo segue in guerra solo se il Comediavolosichiama la scatena per puro idealismo, e non per sete di guadagno. Qualche anno fa tenne addirittura un discorso per dire che lui non possiede né feudi né conto in banca. È interessante vedere quanta pena si danno per dimostrare che il macello di milioni di esseri umani e l’oppressione e la mutilazione spirituale di interi popoli lo fanno gratis, senza riscuotere nessun compenso.

[Bertolt Brecht, Dialoghi di profughi] (no.43 – 8.1994)

 

 

Sindacati e Confindustria hanno interessi comuni? È l’antivigilia della fine d’anno 1979, data che sarebbe storica se questa che un quotidiano progressista italiano definisce “svolta profonda” nelle relazioni sociali non costituisse invece il necessario sviluppo di una politica sindacale che data dagli anni immediatamente successivi all’“autunno caldo”. Abbiamo parlato di necessario sviluppo di una politica. Se le lotte del ‘69 aprirono (incontestabilmente) una fase nuova, in questa fase ci sono o non ci sono state rotture nella politica sindacale? e se rottura ci fu, come va datata e definita?

È una questione politica, con precisi risvolti teorici. Chi nel sindacato ha “votato contro” per la prima volta su questioni importantissime (alludiamo alla linea dell’Eur del ‘78) dopo aver a lungo avallato decisioni triconfederali su altre questioni importantissime, non ha capito quella questione. Quei dirigenti nazionali della “sinistra sindacale” che di fronte alla linea dell’Eur si comportarono come di fronte a una “svolta” non hanno capito quella questione.

L’hanno invece capita, e molto bene, poiché una svolta hanno guidato, i detentori della linea egemone (e in sostanza dell’unica linea) all’interno delle organizzazioni sindacali. La nascita spontanea, poi recuperata dalle direzioni, dei “consigli di fabbrica” con la stagione dell’“autunno caldo” innescò la cosiddetta “conflittualità permanente”. Le rivendicazioni di questa fase non hanno un carattere organico, ma si muovono lungo la linea della lotta contro la durata del lavoro, contro le divisioni, contro il sottosalario, contro i ritmi di lavoro e il taglio dei tempi, contro la discrezionalità del funzionario padronale in fabbrica. La controffensiva borghese e la subalternità riformista determinarono l’interruzione del processo di unificazione sindacale e le elezioni anticipate del ‘72. Qui sta la rottura dell’offensiva operaia iniziata alla fine degli anni sessanta e continuata nei primi anni settanta. La svolta segna tutta la politica sindacale successiva, che si svilupperà coerentemente fino a oggi.

Un’idea vivace e immediata del percorso seguito dalla “strategia globale” (un termine giunto abbastanza tardi, ma utile per indicare l’insieme della strategia sindacale dopo il ‘69) si può ricavare dal “diminuendo ideologico” delle formule che l’hanno espressa: riforme di struttura - nuovo modello di sviluppo - nuova politica economica - riconversione produttiva - democrazia economica - austerità.

La crisi capitalistica ha scosso la polvere della “politica”, e quella polvere più specialmente precaria che si chiama “ideologia”: quali sono stati i prezzi pagati dai lavoratori, non solo sul terreno politico, ma anche su quello delle condizioni generali di vita e di lavoro?

[Gianfranco Ciabatti (1979)] (no.44 – 10.1994)

 

 

Nella baracca si comincerà con la Farsa Elettorale. Di fronte agli elettori dalle teste di legno e le orecchie di somaro, i candidati borghesi, vestiti da clown, danzeranno la Danza delle Libertà Politiche, pulendosi la faccia e il culo con i loro programmi elettorali dalle tante promesse e parlando con le lacrime agli occhi delle miserie del popolo; e le teste degli elettori a ragliare sonoramente in coro: hi ho, hi ho!

Poi il pezzo forte: il Furto dei Beni della Nazione. La nazione capitalistica, enorme femmina, pelosa in volto, il cranio calvo, sformata, le carni flaccide, gonfie, giallastre, dagli occhi spenti e sonnacchiosi, sta sdraiata su un gigantesco divano di velluto; ai suoi piedi il Capitalismo Industriale, gigantesco organismo di ferro, maschera scimmiesca, divora meccanicamente uomini, donne e bambini, le cui grida lugubri e strazianti riempiono l’aria; la Banca, dal muso di faina, dal corpo di iena e dalle grinfie d’arpia, gli sfila con destrezza di tasca monete. Orde di miserabili proletari, macilenti, a sbrendoli, scortati da gendarmi con la sciabola sguainata, incalzati da furie che li sferzano con le fruste della fame, portano ai piedi della nazione montagne di merci, barili di vino, sacchi d’oro e di grano. Deposti i carichi, coi calci dei fucili e a colpi di baionetta fanno scacciare gli operai e aprono le porte a industriali, commercianti e banchieri.

In un grande acciaccapesta questi si precipitano sul cumulo e ingollano cotonate, sacchi di grano, lingotti d’oro, prosciugano botti; quando non ne possono più, sudici, ributtanti si accasciano sulle loro lordure e i loro vomiti. Allora il tuono rimbomba, la terra trema e si spalanca, la Fatalità Storica si leva; con il suo piede di ferro schiaccia le teste di coloro che singhiozzano, che esitano, che cadono e non possono più scappare, e con la sua grande mano rovescia la nazione capitalistica, attonita e in sudore per la paura. Se, sradicando dal suo cuore il vizio che la domina e ne avvilisce la natura, la classe operaia si levasse con la sua forza terribile non per reclamare i Diritti dell’uomo, che altro non sono che i diritti dello sfruttamento capitalistico, non per reclamare il Diritto al lavoro, che altro non è se non il diritto alla miseria, ma per forgiare una legge bronzea che proibisse a ognuno di lavorare più di tre ore al giorno, la Terra, la vecchia Terra, fremente di gioia, sentirebbe un nuovo universo nascere in sé.

[Paul Lafargue, Il diritto all’ozio] (no. 45 – 12.1994)

 

 

Una forma di società che conduce attraverso la coercizione alla libertà può fermarsi a metà strada. L’altra, che attraverso la libertà conduce all’arbitrio, è già in partenza arrivata alla meta.

I fastidiosi venditori ambulanti della libertà, che quando il popolo non vuole comprare proprio nulla tirano fuori il preservativo della cultura, possono per un po’ rallegrarsi dei successi della loro invadenza. Ma la civiltà ha sempre preferito stare dalla parte dei servi.

Solo quando i rivoluzionari stanno sotto chiave, la reazione ha l’opportunità di lavorare per estrarre l’idea della dipendenza dal suo soggetto. L’idea che viene recepita senza mediazioni e viene ridotta a opinione popolare è un pericolo.

Il fatto che in questi ultimi tempi l’esteta si sia sentito attratto dalla politica può anche non avere cause profonde, semplicemente perché sia l’esteta sia la politica di cause profonde ne hanno così poche. E appunto perciò si incontrano. La vita della linea invidia la vita della superficie, perché è più larga. E così l’esteta avrebbe potuto imparare ad apprezzare i colori dei partiti.

Eh, un tricolore: guardiamocelo bene! È un po’ come se la bellezza di un berretto frigio non fosse stata finora sufficientemente valorizzata – a tal punto di democrazia sono arrivati ormai i finissimi. Prendono partito per un colore perché è un colore. Hanno rinunciato al mondo perché era un gran gesto rinunciare al mondo; ora cercano di fare del mondo un gran gesto. Ardono dal desiderio di aderire alla Patria, allo Stato, al Popolo, con un articolo di giornale, o anche a una qualche altra cosa che magari puzzi ma sia più durevole della bellezza per la quale si erano sacrificati invano. Nessuno vuol più starsene ozioso in un angolo, tutti hanno sete delle imprese degli altri.

È uno spettacolo da circo: gli artisti escono. Allora entrano i servitori della politica e srotolano la pedana sociale, con grande sviluppo di polvere. Ma il clown, tutto coperto di colori, non vuole restare inoperoso, fa un gran gesto per dichiararsi pronto e imbroglia la vita per allungare l’intervallo.

Hanno la stampa, hanno la Borsa, ora hanno anche il subconscio! La bruttezza del presente ha valore retroattivo. Ho sempre considerato come massima aggravante il fatto che uno non abbia potuto farci niente.

[Karl Kraus, Detti e contraddetti] (no. 46 – 2.1995)

 

 

Avremmo bisogno di un guerriero come quello.

Né ignaro come l’indigeno africano dal fucile ben lustrato sulla spalla, né indifferente come il soldato cinese delle insegne verdi (dal colore delle bandiere sotto cui erano raggruppati, sotto la dinastia Qing, in quanto considerati scadenti in combattimento) con la pistola mitragliatrice a tracolla. Che non crede alle armature, di cuoio o di ferro lavorato. Ha solo se stesso e per arma la lancia dei barbari.

Va in prima linea, nel Nulla, ove tutti quelli che si imbattono in lui lo salutano con uno stesso cenno. Sa che là si trova un’arma del nemico che uccide senza spargimento di sangue, che ha fatto morire tanti guerrieri. Che come una palla di cannone, annienta il valore del prode.

Proprio al di sopra delle loro teste, ci sono stendardi e bandiere su cui sono ricamate le qualifiche più svariate: filantropo, saggio, letterato, antenato, giovane, illustre, virtuoso ... Al di sotto ci sono invece le casacche più svariate, su cui sono ricamate graziose denominazioni d’ogni sorta: erudizione, virtù, cultura nazionale, opinione pubblica, logica, giustizia, civilizzazione orientale ...

Ma lui alza la lancia.

Tutti giurano, insieme, solennemente, che il loro cuore si trova al centro del petto, al contrario di quelli che sono di parte. La loro armatura pettorale attesta la loro certezza.

Ma lui alza la lancia.

Sorride, scaglia la lancia, con il corpo inclinato da un lato e la lancia gli trafigge il cuore.

Crolla e sprofonda tutto, eccetto una sola casacca, in cui non c’è niente. Il Nulla è scappato, ha vinto, e il criminale che ha ucciso il filantropo e il resto, è proprio lui.

Ma alza la lancia.

Attraversa a grandi passi le file del Nulla e ritrova nuovamente la stessa inclinazione della testa, gli stessi stendardi, le stesse casacche ...

Ma alza la lancia.

Finalmente, diventa vecchio e muore di vecchiaia nelle file del Nulla. Tutto sommato non è un guerriero, è il Nulla che ha vinto. È un luogo ove non risuona il tumulto delle guerre, in cui non c’è che pace.

La pace ...

Ma lui alza la lancia.

[Lu Hsün, Quel guerriero] (no.47 – 4.1995)

 

 

Nel nostro paese la “tendenza principale” è quella dell’inganno del mercato liberale. Nessuno costringe a essere marxisti. Ma basta esserlo quanto Agnelli per sapere che le moderne dimensioni industriali della comunicazione-informazione trasformano in fatto sociale e politico quanto poteva parere individuale o di gruppi omogenei e ristretti. La “cultura” dell’età industriale si fonda sulla forza economica e sul potere. A favore delle anime più belle posso aggiungere che è importante combattere, e sempre, perché le auspicate nuove condizioni politiche non si mutino, come hanno di regola la tendenza a fare, in nuova oppressione e menzogna.

Articoli o tavole rotonde servono da alibi alle due parti, gli informatori e gli informati, ognuna delle due parti volendosi giustificare con le esigenze dell’altra; perché né l’una né l’altra vuole ricordare, avere memoria dell’informazione data o ricevuta. O meglio: gli uni, con la maschera della democratica professionalità, a difesa di interessi transnazionali, insomma di disegni politici a lunga distanza o a breve respiro; e gli altri col diritto alla cecità eloquente si rifiutano di comporre, con le informazioni già fornite, sequenze o spezzoni o segmenti di “visione del mondo”; anzi, rinviano (nel migliore dei casi) a una di quelle in commercio. Insisto sulla solidarietà negativa di informati e informatori, sulla volontà di decezione reciproca senza la quale non si spiegherebbe la sparizione della cosiddetta opinione pubblica. Più questa scompare, più occorre mantenerne la finzione. La falsa intervista stradale in tv ne è modello e simbolo. Non si va più dal momento della critica ideologica a quello dell’azione politica ma (più tradizionalmente) dalla critica ideologica all’intento di influenzare l’“opinione”. La verità onde dire è fare si accompagna alla bugia onde sapere è potere. In un mondo dove “sapere” è ormai “potere”, solo per chi, il potere, ce l’ha già.

E il “sapere” è l’informazione sghemba, radicalmente incoerente che dalla scuola al posto di lavoro o di disoccupazione, dalla sezione al giornale, dal televisore alla pubblicità, sconnette e divide, e non già secondo una sconnessione o un antagonismo di classe, ma secondo il suo contrario ossia secondo l’oggettiva volontà concorde di determinarci, e di essere, “massa atomizzata”, carne da sociologi, pascolo da percentuali.

[Franco Fortini, Insistenze (1975-76] * in memoria * (no. 48 – 6.1995)

 

 

In seno alla borghesia ci sono persone le quali non sono disposte a ricorrere a tutti i mezzi, anche i più sudici, pur di conservare la proprietà privata dei mezzi di produzione. Mentre molti (in numero sempre crescente) son già disposti a non fare più nulla in difesa di quella proprietà privata dei mezzi di produzione che per difendersi genera e rende necessarie tali misure barbariche, e mentre altri sono già disposti a far di tutto contro di essa, ce ne sono ancora molti che si cullano nella speranza che per difendere la proprietà privata dei mezzi di produzione non sia necessario prendere misure simili a quelle adottate dal fascismo e che essi aborriscono. Coloro che la pensano così non sono ancora completamente guadagnati alla causa della lotta contro il fascismo. È sempre possibile che essi finiscano preda del fascismo, che a un certo punto non siano pronti a far nulla contro il fascismo, che a un certo punto siano addirittura pronti a far di tutto in suo favore. Potranno anche divenire sempre più titubanti, a misura che verrà loro meno la speranza che la proprietà privata dei mezzi di produzione si possa salvare senza far ricorso alla barbarie. Non soltanto essi non riconosceranno, in un primo momento, che la proprietà privata dei mezzi di produzione è la fonte di ogni barbarie; questo mancato riconoscimento li porterà certamente ad approvare persino delle misure barbariche. Se l’origine del fascismo sia da ricercare nella proprietà privata dei mezzi di produzione, è un problema su cui si può discutere a lungo, fino a far crescere barbe tali da coprire i tavoli di cento congressi. Una cosa però mi pare sicura: senza la speranza di poter ostruire, far inaridire la fonte della barbarie eliminando la proprietà privata dei mezzi di produzione, oggi nessuno potrà essere un combattente fidato contro il fascismo.

[ Bertolt Brecht, La fonte di tutte le barbarie] (no. 49 – 8.1995)

 

 

Taluni pensieri d’indole ordinatrice, pensieri che mettono ordine tra i pensieri, li si può paragonare piuttosto bene, quanto al loro comportamento, a dei funzionari. Creati in origine come servitori della comunità, ne diventano i padroni. Devono rendere possibile la produzione, invece la inghiottono. Sfruttando certe contraddizioni tra i pensieri, si innalzano a signorìa, appoggiandosi ai personaggi potenti, non a quelli utili.

Si può paragonare il regno dei pensieri ai regni normali, diceva sprezzantemente Me-ti. Vi regna la peggiore oppressione. Non vi è altro ordine che quello dell’oppressione. Certi gruppi conquistano il potere e sottomettono tutti gli altri. Non è il rendimento a decidere, bensì l’origine e le raccomandazioni. Le persone utili vengono costrette a obbedire ai potenti. Coloro che sono giunti ad avere in mano il potere respingono tutti coloro che vi aspirano. Certi raggruppamenti di pensieri sovversivi vengono spietatamente impediti. Si può dire tranquillamente che il regno dei pensieri assomigli appunto a quel regno in cui sorge.

Un enorme gruppo di pensieri devono la propria esistenza solo ai servigi che a loro volta rendono agli altri, ed hanno uno scopo solo in relazione a questi ultimi. Il sistema degli esami è del tutto corrotto. Sono le raccomandazioni a decidere.

Certi pensieri hanno la sola ed esclusiva funzione di dichiarare eterno questo regno. Dimostrano giorno e notte che esso è un pezzo di natura, è immutabile. Talvolta questi pensieri, quando sono incanutiti ed hanno messo pancia in servizio, sono sostituiti da altri, più giovani ed efficienti, i quali rappresentano il vecchio con parole nuove.

[Bertolt Brecht, Me-ti: Del regno dei pensieri] (no.50 – 10.1995)

 

 

L’ironia della storia capovolge ogni cosa. I partiti dell’ordine, com’essi si chiamano, trovano la loro rovina nell’ordinamento legale che essi stessi hanno creato. Essi gridano disperatamente: la legalità è la nostra morte! Alla fine non rimarrà loro altro che spezzare essi stessi questa legalità divenuta loro così fatale. Essi possono opporre solo la sovversione propria del partito dell’ordine, la quale non può vivere senza violare le leggi. Violazione della costituzione, dittatura, ritorno all’assolutismo, regis voluntas suprema lex! Il compromesso finisce col lasciare l’amministrazione nelle mani di una terza classe: la burocrazia. L’autono­mia di questa casta, che apparentemente sta al di fuori e per così dire al di sopra della società, dà allo stato il lustro dell’autonomia rispetto alla società.

Gli industriali hanno sinora tenuto lontana la burocrazia con la corruzione. Ma questo mezzo li libera solo dalla metà meno pesante del gravame; prescindendo dall’impossibilità di corrompere tutti i funzionari con cui un industriale viene a contatto, la corruzione non lo libera dal pagamento dei diritti d’ufficio, degli onorari degli avvocati, architetti, meccanici e di tutte le altre spese causate dalla sorveglianza statale. E quanto più si sviluppa l’industria, tanto più spuntano fuori “funzionari coscienziosi”, i quali infliggono agli industriali le più gravi angherie. La burocrazia disdegna sempre più di considerare l’ammanco di cassa come unico mezzo per migliorare lo stipendio e dà la caccia ai posti ben più lucrosi che sia hanno nell’amministrazione delle imprese industriali, con “interessenze” nelle ferrovie, con la speculazione in borsa, ecc.

La borghesia è dunque posta nella necessità di spezzare il potere di questa burocrazia petulante e vessatrice. Nel momento stesso in cui l’amministrazione dello stato e la legislazione cadono sotto il controllo della borghesia, crolla l’indipendenza della burocrazia; anzi, da questo momento i tormentatori dei borghesi si trasformano in servi sottomessi. La borghesia è costretta a compiere il più rapidamente possibile questi cambiamenti, a sottoporre a una revisione radicale l’intero sistema legislativo, amministrativo e giudiziario. I borghesi, per le cause riguardanti la proprietà e per i processi criminali abbisognano di una giuria, cioè di un controllo permanente esercitato sulla giustizia.

[Friedrich Engels, Introduzioni, (1895-1995)] (no. 51 – 12.1995)

 

In ogni epoca la distribuzione dei mezzi di consumo non è altro che la conseguenza del modo in cui sono distribuite le condizioni della produzione. Il modo di produzione capitalistico consiste in questo, che le condizioni materiali della produzione sono attribuite ai non lavoratori, sotto forma di proprietà del capitale e della terra, mentre la massa è proprietaria soltanto delle condizioni personali della produzione, la forza-lavoro. Il “socialismo volgare” (e con esso una parte della democrazia) ha ereditato dagli economisti borghesi l’abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di rappresentare il socialismo come qualcosa che riguarda essenzialmente la distribuzione. Ma dato che rapporti reali sono stati da tempo messi in chiaro, perché tornare indietro?

L’uguale diritto è sempre, in linea di principio, il diritto borghese. Questo diritto uguale è un diritto ineguale per un lavoro ineguale. Esso non riconosce alcuna distinzione di classe. È dunque nella sostanza un diritto fondato sull’ineguaglianza, come ogni diritto. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto invece di essere uguale dovrebbe essere ineguale. Il diritto non può mai essere più elevato della condizione economica e del grado di civiltà sociale che vi corrisponde.

In luogo della lotta di classe subentra una formula giornalistica: la “questione sociale”. Invece che da un processo di trasformazione rivoluzionaria della società, credere che si possa costruire una società nuova per mezzo di sovvenzioni dello stato, come si costruisce una nuova ferrovia, è presunzione che tratta lo stato come una realtà indipendente, che possiede sue proprie basi intellettuali e morali libere, invece di trattare la società presente come base dello stato esistente. Le forme dello stato sono più o meno libere nella misura in cui limitano la “libertà dello stato”.

Non si può – ed è bene astenersi poiché la situazione impone prudenza – richiedere tutte quelle belle cosette che implicano il riconoscimento della pretesa sovranità del popolo a uno stato che non è altro se non un dispotismo militare, con un’armatura burocratica e con una decorazione di forme parlamentari. E per giunta si tenta di idealizzare questo stato come se fosse possibile strappare simili cose con mezzi legali.

La stessa democrazia volgare sta ancora infinitamente al di sopra di questa specie di democraticismo (le cui rivendicazioni non contengono nulla di più della vecchia litania democratica e sono semplicemente l’eco del radicalismo borghese), confinato entro i limiti di ciò che è permesso dalla polizia e non è permesso dalla logica.

[Karl Marx, Glosse marginali al programma del partito operaio tedesco (Gotha)] (no, 52 – 2.1996)

 

È la vecchia logica volgare dei democratici che, a ogni sconfitta del partito rivoluzionario, ha trovato modo di pavoneggiarsi. Il fatto è che, se il proletariato non si è battuto in massa, vuol dire che era perfettamente consapevole del suo rilassamento e della sua impotenza, e si è abbandonato con fatalistica rassegnazione nel rinnovato giro di repubblica, impero, restaurazione, fin tanto che non avrà raccolto nuove forze attraverso qualche anno di miseria sotto il dominio del maggior ordine possibile. Sembra che questa sia stata l’istintiva posizione che ha dominato tra il popolo dopo il ristabilimento del suffragio segreto [lèggi: maggioritario]. Se il proletariato vuole aspettare fino a che il suo problema gli venga posto dal governo, può attendere un pezzo. L’ultima occasione, in cui la questione tra proletariato e borghesia fu posta abbastanza direttamente, fu per la legge elettorale, e allora il popolo preferì non battersi. Dopo l’abolizione del suffragio universale [lèggi: proporzionale], dopo la cacciata del proletariato dalla scena ufficiale, si è davvero preteso troppo attendendosi dai partiti ufficiali che ponessero la questione in modo che convenisse al proletariato. Se il partito rivoluzionario comincia a lasciar passare delle svolte decisive senza dire la sua parola, o, se vi si immischia, senza vincere, lo si può considerare con sufficiente certezza a terra per un certo periodo.

E non si può neanche negare che l’effetto del ristabilimento del suffragio segreto [lèggi: maggioritario] sulla borghesia, piccola borghesia e in fin dei conti anche su molti proletari (ciò risulta da tutte le informazioni) getti una strana luce. È palese che molti non hanno pensato affatto a quanto sia sciocca la questione posta da Luigi [“Silvio”] Napoleone sul voto; la maggior parte però deve aver capito l’imbroglio e ciononostante deve essersi detta che ora le cose vanno benissimo, pur di avere un pretesto per non battersi. Tutta la farsa delle elezioni si risolverà in nulla. (Un milione di voti il tipo li ha di sicuro, tra impiegati e soldati. Un mezzo milione di bonapartisti, forse più, esistono pure nel paese. Un mezzo milione, forse più, di cittadini timorosi votano per Lui. Un mezzo milione di contadini stupidi, un milione di sbagli di calcolo). Luigi [“Silvio”] Napoleone dichiarerà la nazione in stato di alienazione mentale e si proclamerà l’unico salvatore della società, e poi la merda sarà chiaramente visibile e Luigi [“Silvio”] Napoleone starà nel bel mezzo di essa. Ma proprio con questa storia delle elezioni la cosa potrebbe diventare per lui molto spiacevole, se dopo ci fosse ancora in generale da attendersi una seria resistenza. Ma non c’è più la stampa: nessuno può verificarlo.

[Friedrich Engels, Lettera a Marx (11 dicembre 1851)] (no. 53 – 4.1996)

 

 

“Questi signori – un miscuglio di dottori, studenti e socialisti accademici – che sotto il profilo teorico sono degli zeri e che praticamente non servono a niente, vogliono spezzare i denti al socialismo (che è da loro concepito secondo la ricetta universitaria) e illuminare i lavoratori o, come essi dicono, inculcare in essi "elementi di istruzione", mentre essi stessi hanno solo nozioni molto confuse. Costoro, con questo incarognimento della teoria e del partito, si propongono anzitutto di innalzare il significato del partito agli occhi della piccola borghesia. Insomma, sono soltanto dei miseri chiacchieroni controrivoluzionari, già a tal punto toccati dal cretinismo parlamentare che credono di trovarsi al di sopra della critica, respingendola come reato di lesa maestà” [Karl Marx, Lettera a Sorge (19 settembre 1879)].

Non cadete nel filisteismo, nel “cretinismo parlamentare”, nell’opportunismo da intellettuali piccolo-borghesi. Dove non c’è un partito operaio, dove non ci sono deputati comunisti nei parlamenti, non non c’è nessuna politica comunista coerente, né alle elezioni, né nella stampa, ecc., in questi paesi Marx e Engels hanno insegnato a romperla a qualsiasi costo col settarismo. L’arena politica in questi paesi è completamente occupata dalla borghesia trionfante e soddisfatta di sé, la quale nell’arte di ingannare, di subornare e corrompere gli operai non ha pari al mondo.

Al contrario, laddove impera il “dispotismo militare guarnito di forme parlamentari” (espressione di Marx nella Critica del programma di Gotha), dove il proletariato è stato già da molto tempo trascinato nella politica e conduce una politica comunista, Marx e Engels temevano più di tutto la banalità parlamentare, lo svilimento piccolo-borghese dei compiti e dello slancio del movimento operaio, dato che la grande, “brillante”, ricca stampa liberale borghese strombazza con mille voci, nelle orecchie del proletariato le sue frasi sulla lealtà “esemplare”, sulla legalità parlamentare, sulla modestia e moderazione del vicino movimento operaio tedesco.

La menzogna interessata dei traditori borghesi non è dovuta né al caso né alla depravazione personale di qualche ex o futuro ministro: è provocata dai profondi interessi economici dei grandi proprietari.

[Vladimir Ilic Lenin, dalla Prefazione al carteggio con F.A. Sorge (19 aprile 1907)] (no. 54 – 6.1996)

 

 

Il problema dello stato assume ai nostri giorni una particolare importanza, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista politico pratico. L’oppressione mostruosa delle masse lavoratrici da parte dello stato, il quale si fonde sempre più strettamente con le onnipotenti associazioni dei capitalisti, acquista proporzioni sempre più mostruose.

Gli elementi di opportunismo che si sono venuti accumulando nel corso dei decenni di sviluppo relativamente pacifico, hanno fatto sorgere la corrente “socialsciovinista” che domina nei partiti socialisti di tutto il mondo. Questa corrente – che è socialismo a parole e sciovinismo nei fatti – si distingue per l’adattamento piatto, servile dei “capi” del “socialismo” agli interessi non solo della “propria” borghesia nazionale.

La lotta per sottrarre le masse lavoratrici all’influenza della borghesia in generale, e in particolare della borghesia imperialistica, è impossibile senza una lotta contro i pregiudizi opportunistici sullo “stato”.

Milioni di uomini creano essi stessi la democrazia, a modo loro, senza aspettare che i signori professori redigano i loro progetti per una repubblica borghese, o che i pedanti e gli abitudinari della socialdemocrazia piccolo-borghese rinuncino a falsificare la teoria marxista dello stato.

Il marxismo si distingue dall’anarchismo perché riconosce la necessità dello stato e del potere statale durante il periodo rivoluzionario in generale e durante l’epoca di transizione dal capitalismo al socialismo in particolare. Il marxismo si distingue dal socialdemocratismo opportunistico e piccolo-borghese perché riconosce la necessità, durante i periodi indicati, di uno stato che non sia una repubblica parlamentare borghese ordinaria, ma del tipo della Comune di Parigi.

Il tipo più perfetto e progredito di stato borghese è la repubblica democratica parlamentare: il potere appartiene al parlamento; la macchina statale, l’apparato amministrativo e l’organo di direzione sono quelli di sempre: esercito permanente, polizia, burocrazia praticamente inamovibile, privilegiata, posta al di sopra del popolo. La repubblica parlamentare borghese ostacola, soffoca la vita politica autonoma delle masse e la loro partecipazione diretta all’organizzazione democratica di tutta la vita dello stato, dal basso in alto.

[Vladimir Ilic Lenin, I compiti del proletariato; Stato e rivoluzione (aprile-agosto 1917)] (no. 55 – 8.1996)

 

 

Quella dello stato è una delle questioni più complicate e difficili, e forse la più imbrogliata – premeditatamente o no – dai rappresentanti della scienza, filosofia, giurisprudenza, economia politica e giornalismo borghesi. Ogni persona che desideri riflettervi seriamente e assimilarla con piena libertà di giudizio, deve ragionarci sopra più volte, tornare e ritornare ancora su di essa. Anche nei tempi più pacifici, in qualsiasi giornale che tratti questioni economiche e politica, vi imbatterete sempre nella domanda: cos’è lo stato?

Questa questione è stata così complicata e imbrogliata perché riguarda gli interessi delle classi dominanti più di qualsiasi altra (cedendo sotto questo riguardo soltanto ai fondamenti della scienza economica). La dottrina dello stato serve di giustificazione ai privilegi sociali, all’esistenza dello sfruttamento, all’esi­stenza del capitalismo; ecco perché è un enorme errore attendersi l’imparzialità in questa questione. Nella teoria dello stato scorgerete sempre la lotta delle diverse classi fra di loro. Lo stato apparve dove e quando apparve la divisione della società in classi, quando apparvero gli sfruttatori e gli sfruttati.

Lo stato si riduce a un apparato di governo, sorto dalla società umana, che ha bisogno di di costrizione, di sottomissione della volontà altrui per mezzo della violenza – carceri, reparti speciali, truppe, ecc.. Lo stato è una macchina per mantenere il dominio di una classe sull’altra. I metodi di violenza sono cambiati, la forma di questa macchina può essere diversa, ma la sostanza delle cose rimane la medesima. Il capitale manifesta la sua forza in un certo modo là dove esiste una certa forma di dominio e in un altro modo dove ne esiste un’altra, esista o no il diritto di voto o la repubblica democratica; anzi, quanto più la repubblica è democratica, come negli Usa, tanto più brutale, più cinico è il dominio del capitalismo, il potere di un pugno di miliardari su tutta la società.

Repubblica democratica, legge elettorale, suffragio universale, assemblea costituente, parlamento, son soltanto una forma, una specie di cambiale, che non muta affatto le cose nella loro sostanza. La potenza del capitale è tutto, la borsa è tutto, mentre il parlamento, le elezioni, sono un gioco di marionette, di pupazzi ... Non sono solo ipocriti consapevoli, scienziati e preti a difendere e sostenere la menzogna borghese, che afferma che lo stato è libero ed è chiamato a difendere gli interessi di tutti, non solo le persone che si trovano in dipendenza diretta della borghesia, sotto la pressione del capitale o corrotti da esso, ma anche le persone che si trovano sotto l’influenza di pregiudizi come la libertà borghese. Questo non è che un inganno: finché c’è sfruttamento, non può esistere l’uguaglianza.

Vladimir Ilic Lenin, Sullo stato, 1919] (no. 56 – 10.1996)

 

 

Contraddizione nel modo capitalistico di produzione: i lavoratori in quanto compratori della merce sono importanti per il mercato. Ma in quanto sono venditori della loro merce – la forza-lavoro – la società capitalistica ha la tendenza a costringerli al minimo del prezzo.

Ulteriore contraddizione: le epoche in cui la produzione capitalistica mette in campo tutte le proprie potenze, si dimostrano regolarmente epoche di sovraproduzione; perché le potenze della produzione non possono mai essere impiegate in modo che non soltanto si possa produrre più valore, ma anche realizzarlo; la vendita delle merci, il realizzo del capitale-merce, dunque anche del plusvalore, è tuttavia limitata non dai bisogni della società in generale, ma dai bisogni di consumo di una società in cui la grande maggioranza è sempre povera e deve sempre rimanere povera.

[“Se la Cina diventa un grande paese industriale, non vedo come la popolazione operaia europea possa sostenere la lotta senza scendere al livello dei suoi concorrenti” (Times, 3.9. 1873). Il fine auspicato del capitale non è più il salario continentale, ma il salario cinese].

[Karl Marx, Il Capitale, II.16] (no. 57 – 12.1996)

 

 

Il socialismo reazionario, aristocratico, metà lamentazione, metà libello, metà riecheggiamento del passato, metà minaccia del futuro, a volte colpisce al cuore la borghesia con un giudizio amaro e spiritosamente sarcastico, ma ha sempre effetto comico per la sua totale incapacità di comprendere il corso della storia moderna.

Il socialismo pretesco si accompagna a quello aristocratico. Non c’è cosa più facile che dare una tinta socialistica all’ascetismo cristiano. Il socialismo sacro è soltanto l’acquasanta con la quale il prete benedice la rabbia degli aristocratici.

Il socialismo piccolo-borghese vuole restaurare i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società. Corporazioni nella manifattura ed economia patriarcale nelle campagne: ecco la sua ultima parola.

Il socialismo conservatore o borghese desidera portare rimedio agli “inconvenienti sociali”, per garantire l’esistenza della società borghese. Rientrano in questa categoria economisti, filantropi, umanitari, miglioratori della situazione delle classi lavoratrici, organizzatori di beneficenze, protettori degli animali, fondatori di società di temperanza e tutta una variopinta genìa di oscuri riformatori.

Come esempio citeremo Proudhon. I borghesi socialisti vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne derivano. Vogliono la borghesia senza il proletariato. Non fanno in sostanza che pretendere dal proletariato che esso rimanga fermo nella società attuale, ma rinunci alle odiose idee che di essa si è fatto, argomentando che alla classe operaia potrebbe essere utile soltanto un cambiamento dei rapporti economici; non l’abolizione dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo in via rivoluzionaria, ma miglioramenti amministrativi che nel migliore dei casi diminuiscono le spese che la borghesia deve sostenere per il suo dominio e semplificano il suo bilancio statale. Il socialismo borghese giunge alla sua espressione adeguata solo quando diventa semplice figura retorica.

Il socialismo utopistico vuole migliorare la situazione di tutti i membri della società, fa continuamente appello alla società intera, senza distinzione, respinge qualsiasi azione politica rivoluzionaria, e vuol raggiungere la sua meta per vie pacifiche, con piccoli esperimenti che naturalmente falliscono. Cerca continuamente di smussare di nuovo la lotta di classe e di conciliare gli antagonismi.

Voi inorridite perché vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà privata è abolita per nove decimi dei suoi membri. In una parola, voi ci rimproverate di voler abolire la vostra proprietà. Certo, questo vogliamo.

[Friedrich Engels - Karl Marx, Manifesto del partito comunista] (no. 58 – 2.1997)

 

 

Quanto maggiore è la ricchezza sociale, il capitale operante, l’estensione e la forza del suo sviluppo, e perciò anche la massa assoluta del proletariato e la produttività del suo lavoro, tanto più grande è l’esercito industriale di riserva. Le stesse cause che sviluppano la forza espansiva del capitale sviluppano anche la forza-lavoro a sua disposizione. La massa relativa dell’esercito industriale di riserva, perciò, aumenta perciò insieme alla forze potenziale della ricchezza. Ma quanto più grande è questo esercito di riserva in rapporto all’esercito attivo dei lavoratori, tanto maggiore è la massa consolidata di sovrapopolazione, la cui miseria è in relazione inversa al suo tormento di lavoro. Quanto più esteso è, infine, lo strato dei “lazzari” della classe operaia, e l’esercito industriale di riserva, tanto maggiore è la povertà ufficialmente riconosciuta. Questa è la legge generale assoluta dell’accumulazione capitalistica.

La prima parola del costante meccanismo di adeguamento della produzione e accumulazione capitalistica è la creazione della sovrapopolazione relativa, o esercito industriale di riserva. La sua ultima parola è la miseria di strati in costante crescita dell’esercito attivo dei lavoratori, e il peso morto del pauperismo. La legge, per cui l’avanzamento della produttività del lavoro sociale può consentire una spesa progressivamente minore di energia umana, nella società capitalistica – in cui il lavoratore non impiega i mezzi di produzione, ma i mezzi di produzione impiegano il lavoratore – subisce un completo rovesciamento: più alta è la produttività del lavoro, maggiore è la pressione dei lavoratori sui mezzi di lavoro, più precaria perciò diviene la loro condizione di esistenza. Via via che il capitale si accumula, la sorte dei lavoratori, sia alta o bassa la paga, non può che peggiorare.

Quella legge stabilisce un’accumulazione di miseria in corrispondenza all’accumulazione di capitale. Le fluttuazioni del numero dei poveri riflettono le variazioni periodiche del ciclo industriale. Accumulazione di ricchezza a un polo è perciò, allo stesso tempo, accumulazione di miseria, sofferenza, schiavitù, ignoranza, brutalità, degrado mentale, al polo opposto, cioè dalla parte della classe che produce il suo prodotto in forma di capitale. Questo è il carattere antagonistico dell’accumulazione capitalistica.

[Karl Marx, Il Capitale, I.23.4] (no. 59 – 4.1997)

 

Il problema dello stato assume ai nostri giorni una particolare importanza, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista politico pratico. Accade oggi alla teoria di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle teorie dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con implacabili persecuzioni; la loro teoria è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni.

Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icòne inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a “consolazione” e a mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro teoria rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si svilisce. La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale “trattamento”. Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della teoria, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia. Tutti i socialsciovinisti – non ridete! – sono oggi “marxisti”.

Così stando le cose, e dato che le deformazioni del marxismo si sono diffuse in modo inaudito, compito nostro è, innanzitutto, ristabilire la vera teoria di Marx sullo stato.

Gli elementi di opportunismo che si sono venuti accumulando nel corso di decenni di sviluppo relativamente pacifico, hanno fatto sorgere la corrente socialsciovinista che domina nei partiti socialisti di tutto il mondo (i riformisti, i fabiani, ecc.) – che è socialismo a parole e sciovinismo nei fatti – si distingue per l’adattamento piatto, servile dei “capi” del “socialismo” agli interessi non solo della “propria” borghesia nazionale, ma precisamente del “proprio” stato. La lotta per sottrarre le masse lavoratrici all’influenza della borghesia in generale, e in particolare della borghesia imperialistica, è impossibile senza una lotta contro i pregiudizi opportunistici sullo stato, soffermandosi più a lungo sugli aspetti della teoria di Marx ed Engels sullo stato che sono stati dimenticati o travisati dall’opportunismo, anche per dimostrare, in modo evidente, come esso li abbia snaturati.

[Vladimir Ilic Lenin, Lo stato e la rivoluzione] (no. 60 – 6.1997)

 

 

Il problema della scuola è problema tecnico ed è problema politico insieme. Nello stato parlamentare democratico, il problema della scuola è insolubile politicamente e tecnicamente: i ministri dell’istruzione pubblica vengono assunti in carica perché appartenenti a un partito politico, non perché capaci di amministrare e dirigere le funzione educativa dello stato.

Nell’alleanza fra popolari e socialisti c’è un reciproco accordo sul problema della scuola. I popolari si trovano in condizione di imporre un monopolio sulle scuole, poiché essi dispongono di un numerosissimo personale. I socialisti sono giunti a tal grado di vigliaccheria che permettono ai popolari di far credere ad una loro politica di “princìpi” nel campo dell’insegnamento.

Se la classe borghese rivolgesse la scuola per i suoi fini di dominio, significherebbe che la classe borghese ha un programma scolastico e lo persegue con energia e dirittura; la scuola sarebbe una cosa viva. La classe borghese, come classe che controlla lo stato, lascia che i ministri dell’istruzione pubblica siano scelti secondo il capriccio della concorrenza politica, per l’intrigo delle sètte, per raggiungere il felice equilibrio dei partiti nella composizione dei gabinetti. In tali condizioni, lo studio tecnico del problema scolastico è puro esercizio di scacchistica mentale, è ginnastica intellettuale, non contributo serio e concreto alla soluzione del problema stesso: quando non è piagnisteo noioso e rifrittura di banalità abusate sull’eccellenza della funzione educativa dello stato, sui benefizi dell’istruzione, ecc.

Si avrà una scuola retorica, senza serietà, perché mancherà la corposità materiale del “certo”, e il “vero” sarà vero di parole, appunto retorica. Non c’è unità tra scuola e vita, e perciò non c’è unità tra istruzione e educazione. Non è completamente esatto che l’istruzione non sia anche educazione. Perché l’istruzione non fosse anche educazione bisognerebbe che il discente fosse una mera passività, un “meccanico recipiente” di nozioni astratte.

L’industriale preferisce all’operaio qualificato l’operaio senza intelligenza; preferisce l’uomo congegno, che non turbi col suo spirito di iniziativa il congegno complesso della produzione. È dunque una lotta contro l’intelligenza dell’operaio; è la macchinazione del lavoratore.

[Antonio Gramsci, La formazione dell’uomo] (no. 61 – 8.1997)

 

 

SCENE DI LOTTA DI CLASSE NEL BASSO IMPERO

(poesia visiva rigidamente postmoderna)

In ascisse la durata del lavoro.

In ordinate il salario corrispondente.

A, B, C: situazioni vantaggiose per i salariati

(o datori del lavoro)

A’, B’, C’: situazioni vantaggiose per i capitalisti

(o prenditori del lavoro).

Gli scienziati della grande corporazione ci insegnano che

A, B, C danneggiano l’economia nazionale, mentre

A’,B’,C’ la favoriscono.

Ma poiché l’atteggiamento talvolta non scientifico dei

salariati, combinandosi con inopinate crisi di

sovrapproduzione, impedisce di instaurare una delle

situazioni ottimali A’,B’,C’, la grande corporazione

introduce la deroga scientifica a, b, c, dove l’orario

decresce con il salario, in misura rispettivamente

proporzionale o più o meno che proporzionale: si postula

che aumenti (o non decresca) il numero degli occupati, a

limiti di sopravvivenza certamente tendenti verso valori zero

o comunque decrescenti.

È il risultato delle strategie vincenti dei sindacati della

grande corporazione.

[Gianfranco Ciabatti] (no.62 – 10.1997)

 

 

Non si può pensare a una realizzazione immediata del comunismo. Noi non crediamo al far breccia nei partiti borghesi: noi facciamo breccia nel popolo.

È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione. Risvegliare speranze fantastiche (non di altro si è parlato), lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina.

Rivolgersi agli operai senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: inalberare la bandiera rossa – un simile gesto avrebbe affossato il movimento e gettato i lavoratori tra le braccia dei capitalisti, invece di conquistarli. Noi non facciamo di queste cose. Finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo.

L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno!

Bisogna combattere il “comunismo artigianale” e il “comunismo filosofico”, nelle file del partito comunista, pubblicamente criticando chi non è degno di farne parte; il sentimento deve essere deriso, perché è soltanto fantasticheria. I progressi consistono nello sviluppo della coscienza proletaria delle masse. Le organizzazioni operaie ufficiali, i sindacati, assumono addirittura posizioni reazionarie. Le organizzazioni e l’aristocrazia operaia seguono la borghesia liberale, non fanno un passo di più. L’attuale depressione degli affari ha colpito il nostro paese. Perciò la pressione sui lavoratori si è accresciuta. E dicendo lavoratori intendiamo lavoratori di tutte le classi. Il piccolo commerciante, rovinato dalla grande impresa commerciale, l’impiegato, l’artigiano, l’operaio urbano e quello rurale, tutti cominciano ora a sentire la pressione dell’attuale sistema di produzione capitalistico.

E noi additiamo loro una via d’uscita scientificamente fondata. Checché ne dicano i borghesi spaventati, possiamo prevedere un momento in cui la maggioranza della popolazione sarà dalla nostra parte; le nostre idee si diffondono ovunque: fra i professori, i medici, gli avvocati, e così via, oltre che fra gli operai.

[Karl Marx - Friedrich Engels, Colloqui] (no. 63 – 12.1997)

 

 

L’imperialismo è la fase superiore dello sviluppo del capitalismo. Il capitale ha sorpassato nei paesi avanzati i limiti degli stati nazionali, ha sostituito alla concorrenza il monopolio. L’imperialismo spinge le masse verso la lotta, acutizzando in modo straordinario gli antagonismi di classe, peggiorando le condizioni delle masse sia in campo economico (monopoli, carovita), sia in quello politico (il militarismo si sviluppa, le guerre diventano più frequenti, la reazione si rafforza, l’oppressione nazionale e il brigantaggio coloniale si accentuano e si estendono).

Il socialismo deve necessariamente instaurare la completa democrazia e, quindi, non deve attuare soltanto l’assoluta uguaglianza dei diritti delle nazioni, ma anche riconoscere il diritto di autodecisione alle nazioni oppresse, cioè il diritto alla libera separazione politica. Quei partiti socialisti che non dimostrassero con tutta la loro attività che essi liberano le nazioni asservite, basando il loro atteggiamento verso di esse sulla libera unione, tradirebbero il socialismo.

Il diritto delle nazioni all’autodecisione non significa altro che il diritto all’indipendenza in senso politico: concretamente, questa rivendicazione della democrazia politica non equivale per nulla alla rivendicazione della separazione, del frazionamento, della formazione di piccoli stati. Essa è soltanto l’espressione conseguente della lotta contro qualsiasi oppressione nazionale. I vantaggi dei grandi stati sono incontestabili, sia dal punto di vista del progresso economico, sia da quello degli interessi delle masse. Naturalmente, anche la democrazia è una forma di stato che deve scomparire quando scomparirà lo stato. Ma ciò avverrà soltanto col passaggio dal socialismo al comunismo completo.

Il riconoscimento del diritto di autodecisione non equivale al riconoscimento della federazione come principio. Si può essere avversari decisi di questo principio e fautori del centralismo democratico, ma preferire la federazione alla disuguaglianza di diritti delle nazioni. Precisamente da questo punto di vista Marx, essendo centralista, preferiva perfino la federazione tra Irlanda e Inghilterra alla sottomissione forzata dell’Irlanda agli inglesi.

L’autodecisione delle nazioni deve essere completata con l’indicazione della relatività politica e del contenuto di classe di tutte le rivendicazioni della democrazia politica, e della necessità di subordinare la lotta per questa rivendicazione, come per tutte le rivendicazioni fondamentali della democrazia politica, alla lotta rivoluzionaria diretta e di massa per l’abbattimento dei governi borghesi e l’instaurazione del socialismo.

[Vladimir Ilic Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione] (no. 64 – 2.1998)

 

 

INTERROGATORIO DELL’UOMO BUONO

Avanza: sentiamo dire

che sei un uomo buono.

Non sei venale, ma il fulmine

che si abbatte sulla casa non è

neanch’esso venale.

Quel che hai detto una volta, lo mantieni.

Che cosa hai detto?

Sei sincero, dici la tua opinione.

Quale opinione?

Sei coraggioso.

Contro chi?

Sei saggio.

A favore di chi?

Non badi al tuo vantaggio.

Al vantaggio di chi, allora?

Sei un buon amico.

Amico di gente buona?

Ascolta: Sappiamo

che sei nostro nemico. Perciò ora ti vogliamo

mettere al muro. Ma in considerazione dei tuoi meriti

e buone qualità

il muro sarà buono, e ti fucileremo con

buone pallottole di buoni fucili e ti seppelliremo

con una buona pala in terra buona.

[Bertolt Brecht] (no. 65 – 4.1998)

 

 

La folla è il gregge senza idee, che riceve pensieri e sentimenti dalla classe dominante. Se non si ha vanità, non si può attribuire alcun valore al plauso della folla. Finché il socialismo non si è fatto spiritualmente strada tra le masse, il plauso della folla non può che andare a gente senza partito o a oppositori del socialismo, allorché solo un’esigua minoranza della classe operaia si sia innalzata sino al socialismo. E tra gli stessi socialisti quelli che lo sono nel senso scientifico del Manifesto comunista sono a loro volta una minoranza. La grande maggioranza dei lavoratori, quelli almeno che si sono destati alla vita politica, sono ancora avvolti nelle nebbie di aspirazioni e di frasi democratico-sentimentali tipiche del movimento quarantottesco, dei suoi prodromi e dei suoi postumi. Il plauso della folla, la popolarità è la prova che si è sulla falsa via.

Pensare con rigore logico ed esprimere chiaramente i pensieri: ciò impone di studiare. Studiare, studiare! Mentre altri architettano piani per sovvertire il mondo e giorno dopo giorno, sera dopo sera, s’inebriano con l’oppio del “Domani è la volta buona!”, noi “demoni”, “banditi”, “feccia dell’umanità” cerchiamo di approfondire la nostra preparazione e di approntare armi e munizioni per le lotte future. La politica è studio: odiare a morte i politicanti da strapazzo e la loro ciarlataneria. La scienza non deve essere uno svago egoistico: coloro che hanno la fortuna di potersi dedicare a studi scientifici devono anche essere i primi a mettere le loro cognizioni al servizio dell’umanità: “Lavorare per il mondo”.

Pur con la più profonda comprensione per le sofferenze delle classi lavoratrici, non si giunge alla concezione comunista attraverso considerazioni sentimentali bensì attraverso lo studio della storia e dell’econo­mia politica; ogni spirito imparziale, non influenzato da interessi privati e non accecato da pregiudizi di classe, deve assolutamente giungere alla stessa conclusione. Studiare senza preconcetti lo sviluppo economico e politico della società umana, e scrivere soltanto con la decisa intenzione di divulgare i risultati delle investigazioni con la ferma e precisa volontà di dare un fondamento scientifico al movimento socialista che fino a ora si è perso fra le nebbie dell’utopia: “Sono un cittadino del mondo, e dove mi trovo agisco”.

[Karl Marx, Colloqui] (no. 66 – 6.1998)

 

 

Per la democrazia liberale, premessa e mèta della propria pratica sono l’autodeterminazione e la “voce della coscienza”. La socialdemocrazia si volle, anche in questo, inveramento della democrazia liberale. Il proletario “evoluto e cosciente” si affiancava, da pari a pari, al borghese nella luce della razionalità. Nel pensiero di Marx (e poi nella pratica dei massimi rivoluzionari del nostro secolo) c’era però proprio quella nozione di origine dialettico-hegeliana, la “falsa coscienza”. Con Lenin e Lukács prende corpo la forma-partito, l’idea che gli intellettuali traditori della loro classe d’origine portino dall’esterno la “coscienza” ad una parte del proletariato perché si costituisca in “avanguardia”.

Sarebbe utile maggiore cautela: non solo la storia del populismo russo ma anche quella di innumerevoli movimenti ottocenteschi, di destra come di sinistra, ci mostrano organizzazioni centralizzate e guidate da “intellettuali”. Gramsci lo sapeva. I problemi insoluti per due secoli si ripropongono oggi per la sua forma nuova. Quella forma-partito ha combattuto, ha compiuto il suo storico “servizio”; la Terza Internazionale ha agonizzato con orribili convulsioni e stragi ed è morta. Ci ha lasciato in eredità una domanda.

Una delle interpretazioni del declino e della sconfitta della forma-partito nata nella e dalla Terza Internazionale ci spiega che l’odierno livello culturale di base sarebbe inconfrontabile con quello di settanta anni fa e che dunque né ha bisogno né consente di proseguire la funzione degli intellettuali latori di consapevolezza che per un buon secolo hanno formato le avanguardie politico-culturali.

Ho però più di un dubbio, di fronte a quella che viene chiamata la “delega di conoscenze” e la creazione di figure simboliche della “cultura” a opera dell’industria della coscienza. Si ripropone di fatto una avanguardia privilegiata, diffusa nelle nazioni a maggior livello di reddito, scolarizzazione e ricchezza di “media”; senza tuttavia dirci chi in quelle società avanzate ha il còmpito di distruggere la cortina di falso sapere proposto proprio dalla scolarizzazione e dai “media”. Una cortina incomparabilmente più rigida di quanto non fosse settant’anni fa, perché si è costituita non solo cementando sovrabbondante materiale ideologico ma anche sottraendo esperienza e reificando parti sempre maggiori della esistenza di sempre più estese parti della società.

Chi afferma “... addio democrazia organizzata” si sbaglia o auspica il peggio. Quelle che non deperiscono con la velocità desiderabile sono, certo, le forme finora sopravviventi di democrazia organizzata ossia i partiti politici. Ma c’è da aver paura a ogni proposta di “democrazia disorganizzata”.

[Franco Fortini, Extrema ratio] (no. 67 – 8.1998)

 

 

È da notare la virulenza di certe polemiche tra uomini politici per il loro carattere personalistico e moralistico. Se si vuole diminuire o annientare l’influsso politico di una personalità o di un partito, non si tenta di dimostrare che la loro politica è inetta o nociva, ma che determinate persone sono canaglie, ecc., che non c’è “buona fede”, che determinate azioni sono “interessate” (in senso personale o privato), ecc. È una prova di elementarità del senso politico, di livello ancor basso della vita nazionale.

Ciò è dovuto al fatto che realmente esiste un vasto ceto che “vive” della politica in “malafede”, cioè senza aver convinzioni; si riconosce uno inetto, ma poiché lo si crede “galantuomo” ci si affida a lui; ma “inetto” in politica non corrisponde a “briccone” in morale? È vero che le conseguenze di queste campagne moralistiche lasciano di solito il tempo che trovano, se non sono uno strumento per determinare l’opinione pubblica popolare ad accettare una determinata “liquidazione” politica, o a domandarla.

Cioè il punto di contatto tra la “società civile” e la “società politica”, tra il consenso e la forza. Lo stato, quando vuole iniziare un’azione poco popolare, crea preventivamente l’opinione pubblica adeguata, cioè organizza e centralizza certi elementi della società civile. Naturalmente elementi di opinione pubblica sono sempre esistiti, anche nelle satrapìe asiatiche; ma l’opinione pubblica come oggi si intende è nata alla vigilia della caduta degli stati assoluti, cioè nel periodo di lotta della nuova classe borghese per l’egemonia politica e per la conquista del potere.

L’opinione pubblica è il contenuto politico della volontà politica pubblica che potrebbe essere discorde; perciò esiste la lotta per il monopolio degli organi dell’opinione pubblica: giornali, partiti, parlamento, in modo che una sola forza modelli l’opinione e quindi la volontà politica nazionale, disperdendo i discordi in un pulviscolo individuale e disorganico.

[Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, VII,VIII] (no. 68 – 10.1998)

 

 

Dopo il primo grande successo la minoranza vittoriosa in genere si scindeva: una metà era soddisfatta dei risultati raggiunti, l’altra voleva andare più avanti e presentava nuove rivendicazioni, che corrispondevano almeno in parte all’interesse reale o apparente della grande massa popolare. Queste rivendicazioni più radicali vennero in certi casi anche realizzate, ma spesso solo per un momento, ché il partito più moderato prendeva di nuovo il sopravvento e le ultime conquiste andavano in tutto o in parte perdute di nuovo. Gli sconfitti gridavano allora di nuovo al tradimento, o attribuivano la sconfitta al caso. In realtà le cose stavano perlopiù a questo modo: le conquiste della prima vittoria non erano assicurate che dalla seconda vittoria del partito più radicale; raggiunto questo punto, e quindi anche ciò che era momentaneamente necessario, i radicali e i loro successi sparivano nuovamente dalla scena.

[Friedrich Engels, Introduzione a “Le lotte di classe in Francia”]

 

“Fratelli, coltelli”: è poi così strano e irrazionale che le lotte e gli odi diventino tanto più accaniti e grandi quanto più due elementi sembrano vicini e portati dalla “forza delle cose” a intendersi e a collaborare? Non pare. Almeno “psicologicamente” il fatto si spiega. Infatti, uno non si può attendere nulla di buono da un nemico o da un avversario; invece ha il diritto di attendersi o di fatto si attende aiuto e collaborazione da chi gli sta vicino. Infatti, non solo il proverbio “fratelli, coltelli” si applica ai legàmi d’affetto, ma anche ai legàmi costituiti da obblighi legali.

Che ti faccia del male chi ti è nemico o anche solo indifferente non ti colpisce, ti rimane “indifferente”. Ma se chi ti fa del male aveva il dovere morale o l’obbligo legale di fare diversamente, ciò ti esaspera e aumenta il male. Se essi vengono a mancare per incuria, per negligenza, per imperizia, per slealtà, al male che ne risulta si aggiunge l’esasperazione morale.

Se un nemico ti arreca danno e te ne lamenti, sei uno stupido; ma se un amico ti arreca danno, è giustificato il tuo risentimento. Perciò mi pare che non sia da meravigliarsi dell’accanimento nelle lotte e negli odi tra vicini (per esempio, tra due partiti cosiddetti affini); il contrario sarebbe sorprendente, cioè l’indifferen­za e l’insensibilità morale come avviene negli urti tra nemici aperti e dichiarati.

[Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, I] (no. 69 – 12.1998)

 

 

Era difficilissimo condurre la cosa in modo che il nostro punto di vista apparisse in una forma la quale lo rendesse accettabile all’attuale punto di vista del movimento operaio. Occorre tempo prima che il movimento ridestato consenta l’antica audacia di parola. Necessario fortiter in re, suaviter in modo.

L’associazione internazionale dei lavoratori è una cosa non priva d’importanza, perché ne sono alla testa i veri capi operai di Londra, loro stessi, operai. Da parte francese, i membri sono poco significativi, ma sono gli organi diretti dei lavoratori più in vista di Parigi. Hanno aderito da parte degli italiani i rappresentanti dei 4-500 circoli operai (essenzialmente delle società di mutuo soccorso).

Sebbene per anni interi abbia rifiutato sistematicamente qualsiasi partecipazione a qualsivoglia “organizzazione”, questa volta ho accettato, perché si trattava di una faccenda nella quale è possibile operare con effetti notevoli.

Non nell’Indirizzo, ma nell’introduzione agli Statuti ho dovuto accettare, per cortesia verso i francesi e gli italiani, che amano le frasi roboanti, qualche espressione superflua (due frasi su “diritti” e doveri”, e così pure su “verità, moralità e giustizia”, che però sono così collocate da non poter arrecare danno). Tu capisci con quale spirito e con quale fraseologia vi sia trattata la vera questione, la questione operaia. E come vi fossero fatte scivolar dentro le nazionalità (nell’Indirizzo parlo di paesi, non di nazionalità).

Un vecchio owenista – adesso egli stesso fabbricante – aveva steso un programma pieno della massima confusione e d’indicibile prolissità. Fui impaurito quando udii un preambolo spaventosamente retorico, mal scritto e pochissimo pensato, che pretendeva essere una dichiarazione di princìpî, che, prescindendo da tutti gli altri errori, portava a qualcosa di impossibile, a una specie di governo centrale delle classi lavoratrici europee.

[Marx, Lettere, novembre 1864]

Sono curioso di vedere l’indirizzo ai lavoratori: deve essere davvero un’opera d’arte, dopo quello che mi scrivi su quella gente. È bene però che di nuovo noi si venga in rapporto con persone che almeno rappresentano la loro classe: che tra i lavoratori, in special modo italiani, finalmente la si faccia finita col “dio e popolo”.

[Engels, Lettera a Marx, novembre 1864] (no. 70 – 2.1999)

 

 

La contraddizione che investe tutta questa Costituzione sta nel fatto che le classi la cui schiavitù sociale essa deve eternare – proletariato, contadini, piccoli borghesi – sono messe, mediante il suffragio universale, nel possesso della forza politica, mentre alla classe il cui vecchio potere sociale essa sanziona, alla borghesia, sottrae le garanzie politiche di questo potere. Ne costringe il dominio politico entro forme democratiche le quali facilitano a ogni momento la vittoria delle classi nemiche e pongono in questione le basi stesse della società borghese. Dalle une esige che non avanzino dall’emancipazione politica all’emancipazione sociale, dall’altra che non retroceda dalla restaurazione sociale alla restaurazione politica.

Ma, di fronte alle conseguenze implicite nella natura asociale di questa vita della società civile borghese, di questa proprietà privata, di questo commercio, di questa industria, di questo reciproco saccheggio tra i vari settori della borghesia, di fronte a tali conseguenze l’impotenza non è che la legge naturale dell’amministrazione. Infatti queste lacerazioni, queste nefandezze, questo schiavismo della società borghese, sono il fondamento naturale su cui poggia lo stato moderno. Lo stato si fonda sulla contraddizione tra la vita pubblica e la vita privata, tra gli interessi generali e gli interessi particolari. L’amministrazione deve perciò limitarsi a un’attività formale e negativa, poiché dove comincia la vita civile della società borghese, là appunto cessa il suo potere.

La contraddizione tra la destinazione e la buona volontà della amministrazione, da un lato, e gli strumenti e le possibilità di cui dispone, dall’altro, non può essere eliminata dallo stato senza che questo elimini se stesso, giacché lo stato si fonda su questa contraddizione. Se lo stato moderno volesse eliminare l’impotenza della sua amministrazione, dovrebbe eliminare se stesso, giacché lo stato esiste solo in opposizione a sé medesimo. Nessun vivente, tuttavia, ritiene che le deficienze della sua esistenza abbiano il loro fondamento nell’essenza della sua vita, ma che risiedano in circostanze ad essa esterne. Il suicidio è contro natura. Pertanto lo stato non può credere all’intrinseca impotenza della sua amministrazione, cioè alla sua propria impotenza. Non può avvedersi che di deficienze formali, casuali, e cercare di porvi rimedio.

 [Karl Marx] (no. 71 – 4.1999)

 

 

Non tutti i popoli contano nella storia del mondo. Ognuno, secondo il suo proprio principio, ha il suo punto, il suo momento. Il suo turno non viene a caso. Ciò che l’esperienza e la storia insegnano è che i popoli e i governi non hanno mai imparato nulla dalla storia, né hanno mai agito secondo gli insegnamenti che se ne sarebbero potuti trarre. Ogni epoca ha circostanze così peculiari che vi si possono prendere decisioni solo in base a essa. Lo spirito determinato di un popolo è limitato, la sua indipendenza è qualcosa di subordinato: esso trapassa nella storia del mondo, le cui vicende sono rappresentate dalla dialettica degli spiriti dei vari popoli particolari. I loro destini e i loro fatti, nel rapporto che essi hanno l’uno verso l’altro, sono la dialettica fenomenica di questi spiriti, dalla quale lo spirito universale, lo spirito del mondo, tanto produce sé medesimo come illimitato, quanto è esso stesso a esercitare nei loro confronti il suo diritto – e il suo diritto è il più alto di tutti, nella storia universale come giudizio universale. Il rapporto tra stati è oscillante, non esiste un pretore che lo dirima. Il pretore supremo è unicamente lo spirito universale che è in sé e per sé lo spirito del mondo.

Lo spirito dei vari popoli, ciascuno come singolo e naturale in una determinazione qualitativa, è destinato a riempire solo un grado e a eseguire solo un còmpito nell’azione totale. Il biasimo può concernere soltanto il presupporre rappresentazioni o pensieri arbitrari, e voler trovare a essi conformi gli avvenimenti e rappresentarli in tal modo. La volontà degli spiriti degli altri popoli particolari non ha alcun diritto: quel popolo è il dominatore del mondo. Ma altresì lo spirito universale oltrepassa poi, alla stregua di un grado particolare, quel che di volta in volta è la sua proprietà, e abbandona allora quel popolo al suo destino e alla sua condanna.

Lo spirito del mondo ha dato all’epoca l’ordine di avanzare, travolgendo ogni ostacolo, e con un movimento impercettibile come quello del sole. Innumerevoli truppe leggere, nemiche e amiche, gli volteggiano intorno; la maggior parte di esse non sa affatto che cosa sia in gioco, e semplicemente riceve colpi in testa come da una mano invisibile. Che la ragione si serva di tali strumenti possiamo chiamarla la sua astuzia, poiché, mentre lascia che costoro compiano i loro sforzi con tutto il furore della passione, essa non solo si mantiene illesa, ma anzi produce se stessa.

Talvolta lo spirito non appare in modo manifesto, ma si aggira sotto terra. Dello spirito che lo chiama ora verso un luogo, ora verso l’altro, Amleto dice: “tu sei per me una brava talpa”, perché lo spirito continua a scavare sotto terra e così completa la sua opera.

[Georg Wilhelm Friedrich Hegel] (no. 72 – 6.1999)

 

 

I contemporanei, i quali hanno permesso che le cose accadessero, pospongano il diritto di ridere al dovere di piangere. I fatti più inverosimili sono accaduti: ho dipinto ciò che altri si sono limitati a fare. I più inverosimili discorsi sono stati pronunciati parola per parola; le più crude invenzioni sono citazioni. Le frasi, la cui follia è impressa indelebilmente nell’orecchio, si fanno musica della vita. Il documento è raffigurazione; le cronache si levano come figure, le figure finiscono come articoli di fondo; all’elzeviro è stata data una bocca che lo recita come un monologo; le frasi fatte stanno su due gambe – mentre agli uomini magari ne rimaneva soltanto una.

Persone vissute al di sotto dell’umanità e ad essa sopravvissute vengono riprodotte in ombre e marionette, quali protagoniste e portavoce di un presente che non possiede carne ma sangue, non sangue ma inchiostro, e ridotte alla formula del loro attivo non essere. Larve e lemuri, maschere del tragico carnevale, portano nomi viventi, poiché così ha da essere e perché proprio in questa temporalità regolata dal caso nulla è casuale. Ciò non dà ad alcuno il diritto di considerarla una faccenda locale.

Non c’è da aspettarsi che un presente nel quale ciò poté accadere consideri l’orrore fattosi parola altro che uno scherzo, e prenda ciò che ha appena vissuto, cui anzi è sopravvissuto, per una cosa diversa da un’invenzione. Un'invenzione su un tema che esso stesso proibisce. Perché al di sopra di tutta la vergogna della guerra sta quella degli uomini di non volerne più nulla sapere, accettando che ci sia, ma non che ci sia stata. A quelli che l’hanno vissuta essa è sopravvissuta.

Com’è profondamente comprensibile il disincanto di un’epoca la quale, mai capace di vivere qualcosa e di rappresentarlo, non è scossa neppure dal proprio crollo, e tuttavia ha abbastanza spirito di autoconservazione da tapparsi le orecchie davanti al fonografo delle proprie melodie eroiche. Perché che ci sarà la guerra appare meno inconcepibile che a ogni altro proprio a coloro cui lo slogan “c’è la guerra” ha permesso e coperto ogni vergogna, mentre il monito “c’è stata la guerra!” disturba il ben meritato riposo dei superstiti. Si sono illusi di conquistare il mercato internazionale – lo scopo per il quale sono nati – con un’armatura da cavaliere: ora devono accontentarsi di un affare ben peggiore: venderla al mercato delle pulci. In questo clima si provi a parlar loro di guerra! E c’è da temere che anche un futuro generato dai lombi di un presente così selvaggio, nonostante la maggiore distanza, sia privo di una maggior forza di comprensione.

[Karl Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità] (no.73 – 8.1999)

 

 

Gli scritti di Marx e di Engels furono mai letti per intero da nessuno, il quale si trovasse fuori della schiera dei prossimi amici e adepti, e quindi dei seguaci e degli interpreti diretti degli autori stessi? Furono mai quegli scritti fatti tutti oggetto di commento e di illustrazione? Intorno a quegli scritti, in brevi parole, non si è formato che assai parzialmente, e qualche volta con modi non pienamente critici, ciò che i neologisti chiamano “ambiente letterario”. C’è molta gente al mondo che abbia la pazienza di mettersi alla ricerca della Miseria della filosofia, o di quel singolare libro che è la Sacra famiglia, o che sia disposta a durare più fatica di quella che non tocchi, in condizioni ordinarie, a qualunque filologo o storico presentemente per leggere e studiare tutti i documenti dell’antico Egitto? Il leggere tutti gli scritti dei fondatori del socialismo scientifico è parso fino a ora come un privilegio da iniziati!

Che meraviglia, dunque, se molti e molti scrittori, e specie tra i pubblicisti, abbiano avuto la tentazione di ritrarre, o da critiche di avversari, o da citazioni incidentali, o da frettolose illazioni ricavate da brani speciali, o da vaghi ricordi, gli elementi per foggiarsi un “marxismo” di loro invenzione e maniera?

Tanto più poi che, col sorgere dei partiti socialisti – che dal più al meno sono in voce di rappresentare un’esplicazione del marxismo, il che a me pare invero designazione inesatta – ai letterati d’ogni maniera si offerse la comoda opportunità di credere o di far credere che, in ogni discorso di propagandista o di deputato, in ogni enunciato di programma, in ogni articolo di giornale, in ogni atto di partito, ci fosse come l’autentica e ortodossa rivelazione della nuova dottrina, esplicantesi nella nuova “chiesa”.

Chi cercherà in quei frammenti ciò che non c’è, e non ci ha da essere, cercherà delle risposte a tutti i quesiti che la scienza storica e la scienza sociale possano mai offrire nella loro vastità e varietà empirica, o una soluzione sommaria dei problemi pratici d’ogni tempo e d’ogni luogo. Di fatti, i dottrinari e i presuntuosi d’ogni genere, che han bisogno degli idoli della mente, i facitori di sistemi classici buoni per l’eternità, i compilatori di manuali e di enciclopedie, cercheranno per torto e per rovescio nel marxismo ciò che esso non ha mai inteso di offrire a nessuno.

[Antonio Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia] (no. 74 – 10.1999)

 

 

Fino a che gli affari vanno bene, la concorrenza esercita, a proposito del tasso generale di profitto, un’azione di fratellanza sulla classe capitalistica che praticamente si ripartisce il bottino comune, in proporzione del rischio assunto da ognuno. Appena non si tratta più di ripartire i profitti, ma di suddividere le perdite, ciascuno cerca di ridurre il più possibile la propria quota parte della perdita, e di riversarla sulle spalle degli altri.

La perdita, per la classe nel suo insieme, è inevitabile, ma quanto di essa ciascuno debba sopportare, in quale misura debba assumersene una parte, diventa allora questione di forza e di astuzia, e la concorrenza si trasforma in una lotta tra fratelli nemici. L’antagonismo tra l’interesse di ogni singolo capitalista e quello della classe capitalistica si manifesta allora nello stesso modo come nel periodo di prosperità si era praticamente affermata, per mezzo della concorrenza, l’identità di tali interessi. I capitalisti che si comportano come dei falsi fratelli quando si fanno concorrenza costituiscono tuttavia una vera massoneria nei confronti della classe operaia nel suo complesso.

[Karl Marx, Il capitale, III.10,15] (no. 75 – 12.1999)

 

 

L’accresciuta domanda di capitale monetario ha le sue cause nel corso stesso del processo di produzione. Ma qualunque siano queste cause, è la richiesta di capitale monetario che fa salire il tasso d’interesse, il “valore” del capitale monetario. Se si intende dire che il “valore” del capitale aumenta perché è aumentato, allora ciò è una semplice tautologia. Se invece con “valore del capitale” si intende l’aumento del tasso di profitto come causa dell’aumento del tasso d’interesse, la cosa risulta subito sbagliata.

La domanda di capitale monetario, e quindi il “valore del capitale”, possono accrescersi nonostante la diminuzione del profitto. In realtà esiste una concatenazione tra la crisi e il tasso d’interesse. Il timore di esaurire le riserve aggiunge un panico finanziario alle crisi. Ci si trova in presenza di un’eccessiva ampiezza delle operazioni in proporzione dei mezzi a disposizione.

Eccessivi investimenti, sovraproduzione, affari truffaldini, speculazione, eccessive importazioni, e così via, si tramutano in crisi. Coloro che hanno importato in eccedenza hanno merci che diventano pressoché invendibili: non è quindi affatto la mancanza di banconote che impedisce di convertire in denaro le merci al vecchio prezzo. Per non parlare di quei signori che hanno investito il loro “capitale di circolazione” in titoli, facendo ricorso al credito per rimpiazzare tale capitale nei loro affari “legittimi”.

Tutto ciò, per lorsignori, si spiega con un “senso morale dell’accresciuto valore del proprio denaro”. Ma a questo accresciuto valore del capitale monetario corrisponde direttamente, d’altro lato, il diminuito valore monetario del capitale reale (capitale-merce e captale produttivo). Il valore del capitale in questa forma aumenta perché il valore del capitale nell’altra forma diminuisce. Ma i “monetaristi” cercano di identificare questi due valori di due tipi diversi di capitale in un unico valore del capitale in generale.

Nulla può caratterizzare l’idiozia della borghesia attuale meglio del rispetto con cui essa venera la “logica” dei miliardari, questi aristocratici da letamaio.

[Karl Marx, Il Capitale, III.26] (no. 76 – 2.2000)

 

 

Voler conoscere prima che si conosca è assurdo, non meno d’imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell’acqua. Questa affermazione farebbe il paio con l’altra, che noi non potessimo mangiare prima di aver acquisito la conoscenza delle qualità chimiche, botaniche o zoologiche dei mezzi di nutrizione. Si vuol avere una rappresentazione nota e ordinaria: alla coscienza sembra come se, col toglierle il mondo della rappresentazione, le sia tolto il terreno, che era suo fermo e abituale sostegno. Si stimano perciò meraviglie di comprensibilità quegli scrittori, predicatori, oratori, ecc., che ai loro lettori o ascoltatori offrono cose che essi già sanno a mente, che sono loro familiari e che si comprendono da sé.

Ora, la riflessione fa, in ogni caso, almeno questo: trasforma i sentimenti, le rappresentazioni, ecc., in pensieri. Alla filosofia tocca spesso lo spregio che anche coloro che non si sono affaticati in essa, s’immaginano e dicono di comprendere naturalmente di che cosa si tratti. Si ammette che le altre scienze occorra averle studiate per conoscerle. Solo pel filosofare non sarebbero richiesti né studio, né apprendimento, né fatica.

Si separa sentimento e pensiero da presentarli come opposti, anzi nemici. Ma altro è avere sentimenti e rappresentazioni, determinati e compenetrati dal pensiero, e altro è avere pensieri sopra di essi. Della relazione tra immediatezza e mediazione nella coscienza, qui bisogna solo richiamar l’attenzione sul punto, in linea preliminare, che se anche i due momenti appaiono come distinti, nessuno dei due può mancare, e che essi sono in connessione inscindibile. Giacché la mediazione è principio e passaggio a un secondo termine, in modo che questo secondo solo in tanto è in quanto vi si è giunti da un qualcosa che è altro rispetto a esso, mediante siffatta negazione ed elevazione. Questo svolgimento è semplicemente un accogliere il contenuto con le sue semplici determinazioni date, seguendo la necessità della cosa stessa: la filosofia deve così il suo svolgimento alle scienze empiriche, mentre essa dà al loro contenuto la forma essenziale della libertà del pensiero, e la garanzia della necessità, in luogo della semplice attestazione del dato e del fatto percepito.

La dottrina che la dialettica sia la natura stessa del pensiero, che esso come intelletto debba impigliarsi nella negazione di sé medesimo, nella contraddizione, costituisce uno dei punti principali della Logica.

[G.W.F. Hegel, Enciclopedia (prefazione)] (no. 77 – 4.2000)

 

 

Nel 1902 fu pubblicata a Londra l’opera dell’economista inglese J. A. Hobson, intitolata Imperialismo. In essa l’autore, che condivide le teorie del socialriformismo borghese e del pacifismo – una concezione, cioè, sostanzialmente identica a quella dell’ex “marxista” Kautsky – fa un’ottima e circostanziata esposizione delle fondamentali caratteristiche economiche e politiche dell’imperialismo. Nel 1910 comparve a Vienna l’opera di Rudolph Hilferding – ex “marxista”, commilitone di Kautsky, e uno dei rappresentanti principali della politica borghese e riformista in seno al partito socialista – intitolata Il capitale finanziario. Quest’opera – nonostante l’erroneità dei concetti dell’autore nella teoria della moneta, e nonostante una certa tendenza dell’autore a conciliare il marxismo con l’opportunismo (ha fatto un passo indietro rispetto al social-liberale Hobson, pacifista e riformista aperto e dichiarato) – offre una preziosa analisi sulla recentissima fase di sviluppo del capitalismo.

Hobson – al quale non si può rimproverare alcuna predilizione per l’“ortodossia marxista” – molto più giustamente di Kautsky prende in considerazione due concrete peculiarità “storiche” del moderno imperialismo: 1. la concorrenza di diversi imperialismi; 2. la prevalenza del finanziere sul commerciante. Occorre notare che fin dal 1902 Hobson notò l’esistenza di “imperialisti fabiani”. Negli Usa la guerra imperialista del 1898 contro la Spagna suscitò l’opposizione degli “antimperialisti”, degli ultimi mohicani della democrazia borghese. Ma finché la loro politica non osò riconoscere il legame indissolubile dell’imperialismo con i trust e per conseguenza anche con le basi del capitalismo, non osò unirsi alle forze generate dal grande capitalismo e dal suo sviluppo, essa rimase allo stato di “pio desiderio”. Anche Hobson, nella sua critica dell’imperialismo, assume una posizione analoga. Hobson precorre Kautsky nel dichiararsi contro l’“inevi­tabilità dell'imperialismo” e nell’appellarsi alla necessità di “elevare [in regime capitalistico!] la capacità di consumo della popolazione”. Il punto di vista piccolo-borghese nella critica dell’imperialismo, dell’onnipotenza delle banche, dell’oligarchia finanziaria, ecc., è condiviso anche da altri scrittori. Il social-liberale Hobson non vede che una resistenza all’imperialismo può essere opposta soltanto dal proletariato rivoluzionario e soltanto sotto forma di una rivoluzione sociale. Non per nulla è un social-liberale!

[Vladimir Ilic Lenin] (no. 78 – 6.2000)

 

 

Immaginate un piccolo numero di uomini che lotti contro un male esacerbante e mostruoso, di cui una massa assopita di uomini non ha coscienza o verso il quale è indifferente. Qual è lo scopo principale di chi combatte?

1) Destare il maggior numero possibile di dormienti;

2) illuminarli sui compiti della loro lotta e sulle sue condizioni;

3) organizzarli in modo da creare una forza capace di conseguire la vittoria;

4) insegnar loro ad utilizzare in modo giusto i frutti della vittoria.

È naturale che il punto 1 deve precedere i punti 2-4, che senza il primo non sono realizzabili.

Ed ecco che il piccolo numero di uomini sveglia tutti, stimola tutti.

I loro sforzi, anche grazie allo sviluppo della vita stessa, vengono coronati dal successo. La massa è desta. Allora si comincia a vedere che una parte di essa ha interesse a conservare il male e ha intenzione o di sostenerlo scientemente o di mantenere quei suoi aspetti, quelle sue parti che sono vantaggiosi per determinati gruppi di destati.

Non è allora naturale che i combattenti, i banditori della lotta, i suscitatori, i campanari della rivoluzione, combattano contro quegli individui desti che essi stessi hanno scosso? Non è naturale allora che i combattenti non sprechino più le loro forze per scuotere “tutti”, ma concentrino la loro attenzione su coloro che si sono dimostrati capaci di tre cose?

In primo luogo, di destarsi; in secondo luogo, di accettare l’idea della lotta conseguente; in terzo luogo, di combattere seriamente e fino in fondo.

Chi da lungo tempo partecipa al movimento rivoluzionario si abitua alla lotta politica fra le diverse correnti, acquisisce egli stesso determinate opinioni. È, naturalmente, propenso a supporre che anche gli altri ne abbiano e ritiene che essi possono appartenere a questo o a quel “partito” basandosi su questa o su quella opinione su un problema particolare (oppure sulla mancanza di opinioni).

È indubbio che nelle assemblee popolari è bene che l’agitatore, oltre a tener conto del punto di vista “politico” e “pedagogico”, si metta nei panni degli ascoltatori, spieghi più che non “attacchi”, ecc. Gli eccessi non sono mai buoni, ma se dovessimo scegliere preferiremmo la ristretta e intollerante determinatezza alla mite e cedevole indeterminatezza.

[Vladimir Ilic Lenin, 1905] (no. 79 – 8.2000)

 

 

A CHI SI È ALLINEATO

Per non perdere il proprio pane

in tempi di crescente oppressione

molti decidono di non dire più

la verità sui crimini del regime, compiuti

perpetuando lo sfruttamento, ma

di non diffondere nemmeno le menzogne del regime, quindi

di non svelare niente ma

neanche di abbellire niente. Chi procede così

sembra soltanto riaffermare di essere deciso

anche in tempi di crescente oppressione

a non perdere la sua faccia; ma in realtà

è soltanto deciso

a non perdere il proprio pane. Sì, questa sua decisione

di non dire cosa alcuna non vera gli serve d’ora in poi

per tacere la verità. Ma questo

può venir praticato solo per poco tempo. E anche in quel tempo

mentre incedono ancora per pubblici uffici e redazioni,

per laboratori e cortili di fabbriche come coloro

dalla cui bocca non esce cosa non vera

già cominciano a far danno. Chi non batte ciglio

alla vista di sanguinosi delitti conferisce loro propriamente

l’apparenza delle cose naturali. Designa

il crimine atroce come alcunché di scarsa rilevanza quale è

la pioggia e, come la pioggia, altrettanto inevitabile.

Già con il suo silenzio sostiene così

i criminali, ma presto

si accorgerà che, se non vuole perdere il proprio pane

non solo deve tacere la verità ma anche

dire la menzogna. Non senza clemenza

gli oppressori accolgono chi è pronto

a non perdere il proprio pane.

Non incede costui come chi è venale e corrotto

perché nulla gli è stato dato e invece

nulla, soltanto, ha perduto.

Quando il panegirista

levandosi dalla tavola del potente schiude il grugno

e fra i denti scorgiamo

i resti del pasto, al panegirico suo

noi diamo ascolto dubitosi.

Ma il panegirico di colui

che ieri ancora derideva e non era invitato alla cena della vittoria

vale di più. Egli è

pur l’amico degli oppressi. Lo conoscono.

Quel che egli dice, è.

E quel che non dice, non è.

E ora egli dice che non c’è

oppressione alcuna.

La cosa migliore è che l’assassino mandi

il fratello dell’assassinato

– che egli avrà pagato – perché confermi

che, suo fratello, è stata

una tegola a ucciderlo. Perché la semplice menzogna

non troppo a lungo aiuta chi non vuol perdere

il proprio pane. Ce ne sono troppi

della sua specie. Presto costui

finisce nell’inesorabile gara di quanti

non vogliono perdere il proprio pane; la volontà di mentire non basta.

Capacità ci vuole, si richiede passione.

Il desiderio di non perdere il pane

si confonde al desiderio di conferire un senso

con arte particolare alle chiacchiere più insulse, di

dire, nonostante tutto, l’indicibile.

Aggiungi che a lui più che ad ogni altro

tocca ammucchiare lodi al cospetto degli oppressori, perché su lui

grava il sospetto di avere in altri tempi

offeso l’oppressione. Così

i conoscitori della verità diventano i più feroci mentitori.

E tutto questo va avanti solo

finché qualcuno non sopraggiunge, ecco, a denunciarli

per pregressa onestà, per decenza d’un tempo: e allora

perdono il proprio pane.

[Bertolt Brecht – radio Mosca 1935] (no. 80 – 10.2000)

 

 

È non meno – se non più – importante per il lavoro che dovrà essere svolto dal materialismo militante, l’alleanza con i rappresentanti delle moderne scienze naturali, che inclinano verso il materialismo e non temono di difenderlo e propagandarlo contro i tentennamenti filosofici in direzione dell’idealismo e dello scetticismo, di moda nella cosiddetta “società colta”. Non si deve dimenticare che proprio dal processo di radicale rottura attraversato dalle scienze naturali moderne nascono continuamente scuole e correnti filosofiche reazionarie grandi e piccole. Tali studiosi troveranno nell’interpretazione materialistica della dialettica di Hegel una serie di risposte a quelle questioni filosofiche che spingono gli intellettuali ammiratori della moda borghese a slittare verso la reazione.

E per affrontare questo fenomeno con cognizione di causa dobbiamo comprendere che in mancanza di una base filosofica solida non vi sono scienze naturali né materialismo che possano resistere all’invadenza delle idee borghesi. Per raggiungere questo obiettivo, i collaboratori della rivista Sotto la bandiera del marxismo debbono organizzare uno studio sistematico della dialettica di Hegel dal punto di vista materialistico, vale a dire della dialettica che Marx ha applicato praticamente nel suo Capitale e nei suoi scritti storici e politici. Naturalmente, il lavoro necessario per tale studio, per tale interpretazione e per tale propaganda della dialettica hegeliana è estremamente difficile, e indubbiamente le prime esperienze in questo campo comporteranno degli errori. Ma soltanto chi non fa nulla non sbaglia.

Ispirandoci al modo in cui Marx applicò la dialettica di Hegel intesa in senso materialistico, noi possiamo e dobbiamo sviluppare questa dialettica sotto ogni aspetto, riprodurre nella rivista brani delle principali opere di Hegel, interpretandole con uno spirito materialistico e commentandoli con esempi di applicazione marxiana della dialettica, nonché con esempi di dialettica ripresi dal campo delle relazioni economiche, che la storia recente e specialmente la moderna guerra imperialistica e la rivoluzione forniscono in abbondanza. Il gruppo di redattori e di collaboratori della rivista deve essere una specie di società degli amici materialisti della dialettica hegeliana.

[Vladimir Ilic Lenin, Sul significato del materialismo militante (1922)] (no. 81 – 12.2000)

 

 

Rivoluzionari radicali in apparenza, e in realtà critici individualisti estremamente non-rivoluzionari o avversari della rivoluzione, mettono insieme quell’anima critica col credere definitivamente alla propria infallibilità, e raggiungono una definitiva soddisfazione di se stessi. La via per essere uomo è difficilissima, e naturalmente ancora di più lo è quella per essere un rivoluzionario: è facile diventare di “destra” se non si comprende che la rivoluzione è una cosa amara, mescolata di sporcizia e di sangue, non amabile e perfetta come pensano i poeti. Mentre è semplice distruggere, costruire è fastidioso. Quindi è facile per tutti coloro che nutrono sogni romantici sulla rivoluzione rimanere delusi quando la conoscono più da vicino. Dopo la rivoluzione le cose saranno più difficili di adesso.

Così accade che i rivoluzionari sulla carta alla vigilia della rivoluzione, i più radicali, i più accaniti, quando la rivoluzione si avvicina si strappino la maschera – una maschera inconsapevole. Onestamente, quando sento di rivoluzioni in luoghi lontani, di rivoluzioni fatte da sconosciuti, veramente provo una certa gioia; ma se la rivoluzione arriva accanto a me, e se a fare la rivoluzione sono miei amici, la mia gioia non è più tanta. Perciò non mi resta che imitare il meraviglioso antico metodo di fingermi muto, e di non domandare né udire.

[Lu Hsün, Sulla rivoluzione] (no. 82 – 2.2001)

 

 

Sotto il dominio dell’imperialismo è impossibile ammaestrare le masse a provare “amore per l’umanità”, così da arrivare, fra sorrisetti e giunger di mani, a “un mondo in generale accordo”; nello stesso modo, sotto il potere di nemici della rivoluzione non è assolutamente possibile parlare o agire in modo che tutta la maggioranza acquisti una coscienza corretta. Perciò ogni volta che si forma un esercito rivoluzionario, in genere i militanti hanno pressappoco in comune solo l’intenzione di opporsi alle condizioni presenti, mentre gli scopi ultimi divergono all’estremo. Si lotta per la società, per un gruppo, per l’amata, o per se stessi, o semplicemente per suicidarsi. Ma l’esercito rivoluzionario procede lo stesso. Infatti nell’avanzata una pallottola lanciata da un individualista o dall’appartenente a un gruppo uccide ugualmente; e se l’uno o l’altro combattente viene ucciso o ferito, in entrambi i casi diminuisce ugualmente un po’ la forza dell’esercito. Ma poiché gli scopi ultimi non sono gli stessi, nel corso dell’avanzata chi abbandona i ranghi, chi decade, chi si perde, chi cambia; per tanto che non vi siano ostacoli all’avanzata, man mano che si procede, questo esercito diventerà sempre più puro e selezionato.

Chi va al fronte e fa la sentinella (benché non gli abbiano ancora insegnato neppure a tirare col fucile), è molto più realista dei grandi scrittori che abbracciandosi le ginocchia intonano lamentazioni, o prendono la penna soffocando di indignazione. Volere che i militanti di oggi abbiano tutti una coscienza chiara e siano forti come l’acciaio, non solo è una fantasia utopistica, ma diventa anche un ricatto contrario ai principî. Vi sono rivoluzionari radicali in apparenza, decadenti senza ideali né capacità definite, che si abbandonano alla ricerca di un piacere momentaneo; già sazi dei piaceri noti, cercano continuamente stimoli nuovi, e li vogliono anche acuti per provarci gusto.

Anche la rivoluzione è uno di questi stimoli nuovi dei decadenti. Come un goloso rimpinzato di ghiottonerie, che il gusto ha sazio e lo stomaco indebolito, ha bisogno di mangiare roba piccante come il pepe, che gli sprema un po’ di sudore, per mandar giù mezza tazza di riso. In fin dei conti, essi sono ancora quelli che preferiscono le condizioni presenti. Quando parlano da critici, impiegano a piacere qualsiasi cosa per confutarne un’altra. Quando intendono confutare la solidarietà, fanno ricorso alla lotta per l’esistenza; quando vogliono confutare la lotta per l’esistenza, fanno ricorso alla solidarietà. Per opporsi al pacifismo ricorrono alla lotta di classe, per opporsi alla lotta di classe sostengono l’amore per l’umanità. Se il contraddittore è un idealista, la loro posizione è materialistica, fino a quando, per discutere con un materialista, si trasformano in idealisti.

[Lu Hsün] (no. 83 – 4.2001)

 

 

Il bell’inferno perduto. Sognavo di essere sdraiato sul mio letto tutto solo, a fianco dell’inferno. La musica inebriante dei gemiti flebili ma regolari dei dannati, mischiati al crepitio delle fiamme, al ribollire dell’olio e al ticchettio dei forconi d’acciaio, proclamava di fronte ai “tre mondi” che la pace regnava nel reame dabbasso. Un uomo stava davanti a me, grande, bello, dall’aspetto benevolo, e irraggiava luce da tutta la sua persona; ma io sapevo che era il demonio.

– È la fine! la fine di tutto! I poveri dannati hanno perso il loro bell’inferno.

Era indignato, quindi si sedette vicino a me per raccontarmi una storia che conosceva bene.

– In quel tempo in cui il cielo e la terra divennero colore del miele, il demonio sconfisse dio e si impadronì del potere assoluto. Governava il cielo, la terra e l’inferno. Andò di persona all’inferno, vi si installò nel centro e l’intensa luce che emanava da lui illuminò tutti gli abitanti del luogo. Da lungo tempo nell’inferno c’era rilassatezza: gli alberi avevano perso il loro slancio, l’olio fumante non bolliva più. Talvolta i grandi fuochi rilasciavano un filino di fumo grigio e lontano faceva ancora delle gettate qualche mandragola, dai fiori minuscoli, pallidi e pietosi. Nessuno stupore, poiché il terreno era stato bruciato in un modo spaventoso e impoverito.

“Dato che l’olio si era raffreddato e quasi spento il fuoco, i dannati ritrovarono il loro buon senso e, dalla luce che emanava il demonio, scòrsero i fiorellini così pietosamente pallidi che ne furono colpiti. Il mondo degli uomini rivenne loro bruscamente in mente e, dopo averci sognato sopra non si sa per quanti anni, emisero uno spaventoso grido di rivolta nei confronti dell’umanità.

Gli uomini accórsero, parlarono di giustizia, poi fecero guerra al demonio. Più fragoroso del tuono, il tumulto della battaglia si estese per tutti e tre i mondi. Grazie ad abili stratagemmi e trucchi raffinati, gli uomini giunsero a cacciare il demonio dal suo regno. Lo stendardo dell’umanità venne issatosulla porta dell’inferno in séguito alla vittoria finale.

Mentre i dannati gioivano, arrivò l’emissario degli uomini per riorganizzare l’inferno. Egli vi si installò nel centro con la maestà tutta umana di cui era investito e si mise a governare sui dannati. Allorché emisero il loro secondo grido di rivolta contro l’inferno, vennero accusati di essere traditori dell’umanità. Condannati alla dannazione eterna furono relegati in mezzo agli alberi.

Gli uomini esercitarono il loro potere assoluto sull’inferno con maggiore autorità del demonio. Conferirono la funzione suprema a Ah Pang, il carceriere dalla testa di bue, e rimisero in piedi le rovine. Riaccesero anche i fuochi, affilarono le lame della montagna di spade e modificarono completamente l’aspetto dell’inferno, togliendo così di mezzo la sua atmosfera decadente. I fiori della mandragola sfiorirono, l’olio bolliva di nuovo, le spade tagliavano di nuovo, i fuochi scoppiettavano di nuovo, i dannati si rimisero a gemere e a contorcersi, e nessuno di loro ebbe più il tempo di sognare il bell’inferno perduto.

L’umanità aveva trionfato, il demonio era sconfitto ...

Amico, vedo che mette in dubbio le mie parole. Lei è un uomo, è vero. Bisognerà che mi rivolga alla bestie selvagge e ai dannati ...”.

[Lu Hsün] (no. 84 – 6.2001)

 

 

Il valore di tutte le merci (incluso il lavoro) è determinato dai loro costi di produzione, cioè dal tempo di lavoro richiesto per la loro produzione.

Le determinazioni che valgono per la produzione in generale devono essere isolate proprio affinché per l’unità – che deriva già dal fatto che il soggetto (l’umanità) e l’oggetto (la natura) sono i medesimi – non venga poi dimenticata la differenza essenziale. In questa dimenticanza consiste appunto tutta la saggezza degli economisti moderni che dimostrano l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali esistenti.

Secondo gli economisti, la produzione, a differenza della distribuzione, va inquadrata in leggi di natura eterne e indipendenti dalla storia, in cui poi i rapporti borghesi vengono interpolati del tutto surrettiziamente. Non è che produzione, distribuzione, scambio e consumo siano identici, ma rappresentano tutti delle articolazioni di una totalità. La produzione assume l’egemonia tanto su se stessa, nella sua determinazione antitetica, quanto sugli altri momenti.

Gli economisti borghesi vedono che con la polizia moderna si può produrre meglio che, a es., con il diritto del più forte: dimenticano solo che anche il diritto del più forte è un diritto che continua sotto altra forma anche nel loro “stato di diritto”. Per gli economisti prosaici considerare l’umanità in astratto e la società come un unico soggetto significa considerarle in modo falso.

 In tutte le forme di società vi è una determinata produzione che decide del rango e dell’influenza di tutte gli altri momenti. Nella società, il rapporto tra il produttore e il prodotto dipende dai rapporti in cui questi si trova con altri individui. La società non consiste di individui, bensì esprime la somma dei rapporti in cui questi individui stanno l’uno rispetto all’altro. Trascurare le differenze che esprimono il rapporto sociale (borghese) è come dire che, dal punto di vista della società, sono tutti uomini, o che non esiste alcuna differenza tra capitalisti e lavoratori salariati – una differenza che appunto esiste solo dal punto di vista della società.

Secondo la concezione più superficiale, la distribuzione si presenta come distribuzione dei prodotti e lontana dalla produzione e quasi autonoma. Ma, prima di essere distribuzione dei prodotti, essa è distribuzione degli strumenti di produzione e distribuzione dei membri della società tra i differenti generi di produzione. La distribuzione dei prodotti non è evidentemente che un risultato di questa distribuzione che è compresa nel processo di produzione stesso e che determina la struttura della produzione.

L’atto finale del consumo, che è inteso non solo come termine finale ma anche come scopo finale, sta propriamente al di fuori dell’economia. È una nozione tradizionale che in certi periodi si sia vissuto soltanto di rapina. Ma, per poter rubare, deve esserci qualcosa da rubare, e quindi produzione: una nazione di speculatori di borsa, a es., non può essere rapinata allo stesso modo di una nazione di vaccari. Le questioni sollevate si riducono tutte, in ultima istanza, al modo in cui le condizioni storiche generali incidono sulla produzione e al rapporto che questa ha con il movimento storico in genere.

[Karl Marx, Lineamenti, q.M, I, II] ( no.85 – 8.2001)

 

 

L’uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto col suo operare. Si può quasi dire che egli ha due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria), una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi compagni nella trasformazione pratica della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha ereditato dal passato e ha accolto senza critica. Tuttavia questa concezione “verbale” non è senza conseguenze: essa riannoda a un gruppo sociale determinato, influisce nella condotta morale, nell’indirizzo della volontà, in modo più o meno energico, che può giungere fino a un punto in cui la contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica.

La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale”. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche “dirigente. Ci può e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell’andata al potere e non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione efficace. La comprensione critica di se stessi avviene quindi attraverso una lotta di “egemonie” politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica, per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale. Il fatto dell’egemonia presuppone indubbiamente che si sia tenuto conto degli interessi e delle tendenze dei gruppi sui quali l’egemonia verrà esercitata, che si formi un certo equilibrio di compromesso.

La coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima fase per una ulteriore e progressiva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si unificano. Anche l’unità di teoria e pratica non è quindi un dato di fatto meccanico, ma un divenire storico, che ha la sua fase elementare e primitiva nel senso di “distinzione”, di “distacco”, di indipendenza appena istintivo, e progredisce fino al possesso reale e completo di una concezione del mondo coerente e unitaria. Ecco perché è da mettere in rilievo come lo sviluppo politico del concetto di egemonia [da parte di Lenin] rappresenta un grande progresso filosofico oltre che politico-pratico, perché necessariamente coinvolge e suppone un’unità intellettuale e un’etica conforme a una concezione del reale che ha superato il senso comune ed è diventata, sia pure entro limiti ancora ristretti, critica. Il marxismo concepisce la realtà dei rapporti umani di conoscenza come elemento di “egemonia” politica.

 [Antonio Gramsci, Quaderni del carcere] (no.86 – 10.2001)

 

 

DIFFICOLTÀ DI RICONOSCERE LA VIOLENZA

Molti sono oggi disposti a combattere la violenza impiegata contro gli inermi. Ma sanno anche riconoscerla, la violenza?

Alcuni atti di violenza sono facili da riconoscere. Quando si calpestano degli uomini per la forma del loro naso o per il colore dei loro capelli, la violenza è palese ai più. Anche quando si rinchiudono degli uomini in carceri senz’aria, si vede la violenza all’opera.

Ma noi vediamo dappertutto uomini che non appaiono meno sfigurati che se fossero stati battuti con verghe d’acciaio, uomini che a trent’anni sembrano vecchi, eppure non è visibile violenza alcuna. Uomini che abitano anni e anni in stamberghe non più accoglienti delle carceri, né per essi vi è più possibilità d’uscirne che di uscire dalle carceri. Vero è che davanti a queste porte non ci sono carcerieri.

Coloro cui si infligge tale violenza sono infinitamente di più di coloro che in questo o quel giorno vengono fustigati o gettati in questo o quel carcere.

[Bertolt Brecht, Me-ti] (no.87 – 12.2001)

 

 

Il capitale viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro, se il denaroviene al mondo con una voglia di sangue in faccia. Tanta molis erat il parto delle “eterne leggi di natura” del modo di produzione capitalistico, il portare a termine il processo di separazione tra lavoratori e condizioni di lavoro, il trasformare a un polo i mezzi sociali di produzione e di sussistenza in capitale, e il trasformare al polo opposto la massa popolare in lavoratori salariati – in “liberi poveri che lavorano” [labour­ing poor] – questa opera d’arte della storia moderna. La “schiavitù ” velata dei lavoratori salariati aveva bisogno del piedistallo della schiavitù sans phrase nel nuovo mondo.

Dopo aver esaminato la creazione di proletari ex lege a mezzo della violenza, la disciplina sanguinaria che trasforma i proletari ex lege in lavoratori salariati, la sudicia azione di alta politica che aumenta con operazioni di polizia il grado di sfruttamento del lavoro e con esso l’accumulazione del capitale, si pone la domanda: di dove vengono originariamente i capitalisti?

La popolazione, resa vagabonda, veniva spinta, con leggi tra il grottesco e il terroristico, a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato.

Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all'altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L'organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell'offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sul lavoratore. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose il lavoratore può rimanere affidato alle “leggi naturali della produzione”, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse.

[K. Marx, Il capitale, libro I, L’accumulazione originaria] (no.88 – 2.2002)

 

 

In questa crisi la sovraproduzione è stata generale come non lo era stata mai prima. Il bello è questo, e avrà delle conseguenze enormi. La forma sotto la quale la sovraproduzione si nasconde è sempre , più o meno l’estensione del credito; ma questa volta, in modo particolare, sono gli imbrogli con i titoli. Il sistema di far denaro mediante titoli “futuri”, attraverso banche o investitori istituzionali che pratichino “affari di cambio”, e di coprirli prima della scadenza, o anche no, secondo come si mettono le cose, è la regola. Tutti gli investitori istituzionali lo praticano. Questo sistema è stato spinto all’estremo; dove imperversano questi imbrogli su titoli, molti agenzie, trattarie in questa linea, sono andate in malora per questo.

Si fa in questo modo: i messeri, invece di pagare cash [in contanti], trattava titoli futuri [futures] e su di essi pagava gli interessi: questo sistema si sviluppa nella stessa misura in cui crescono i prezzi. Insomma, ciascuno ha lavorato oltre le proprie forze, ha overtraded [commerciato al di sopra delle proprie capacità]. Se tuttavia “overtrading” non è proprio sinonimo di sovraproduzione, però è identico nella sostanza.

Un’impresa che possieda un certo capitale, ha in esso la misura della sua capacità di produzione, di commercio e di consumo. Se questo capitale, attraverso gli imbrogli sui titoli fa un affare che presuppone un capitale stimato, a es., in una volta e mezzo, aumenta la produzione del 50%; il consumo sale anche grazie alla prosperità, ma in misura di gran lunga inferiore, diciamo del 25%. Alla fine di un qualsiasi periodo si verifica necessariamente un’accumulazione di merci superiore del 25% al bisogno bona fide, cioè a quello medio anche di un periodo di prosperità. Basterebbe questo a provocare lo scoppio della crisi, anche se il mercato monetario, l’indice del commercio, non la segnalava già in precedenza.

Si lasci dunque che venga il crash e si vedrà che, oltre a questo 25%, un altro 25% almeno dello stock di tutte le merci diventa una droga per il mercato. Questo verificarsi della sovraproduzione in seguito all’esten­sione del credito e all’eccesso di commercio lo si può studiare in tutti i suoi particolari nella crisi attuale. Non c’è nulla di nuovo nella cosa in sé, ma nella chiarezza straordinaria in cui ora essa si sviluppa.

L’enorme massa di capitale eccedente nel mercato è del resto una cosa stranissima ed è una nuova prova di quali enormi dimensioni abbia preso tutto l’insieme. Non mi stupirebbe affatto se questa eccedenza di float­ing capital [capitale fluttuante], già prima che si siano sviluppate le altre fasi della crisi, provocasse una nuova speculazione sulle azioni. Questa eccedenza di capitale disponibile ha anche certamente contribuito per la sua parte a mantenere in efficienza la speculazione e porta le cose al punto che alcuni investitori istituzionali, superato il panico, possano reclamare un posto tra i più solidi istituti del mondo.

[(riscritto) da Friedrich Engels, Lettere a Marx, 11.12.1857 – 6.1.1858] (no.89 – 4.2002)

 

 

L’ironia della storia capovolge ogni cosa. I partiti dell’ordine trovano la loro rovina nell’ordinamento legale che essi stessi hanno creato. Essi gridano disperatamente: la legalità ci uccide, la legalità è la nostra morte, mentre noi – i “rivoluzionari” – in questa legalità ci facciamo i muscoli forti e le guance fiorenti, e prosperiamo che è un piacere. E se non commetteremo noi la pazzia di lasciarci trascinare alla lotta di strada per far loro piacere, alla fine non rimarrà loro altro che spezzare essi stessi questa legalità divenuta loro così fatale.

Per il momento essi fanno nuove leggi contro la sovversione. Tutto è di nuovo capovolto. Ma facciano pure le loro leggi contro i sovversivi; le rendano pure ancora più gravi; rendano pure di gomma elastica tutto il codice penale; non otterranno altro che una prova in più della loro impotenza. Per mettere sul serio alle strette il comunismo dovranno prendere ancora ben altre misure. Alla sovversione comunista, che per il momento vive nell’osservanza delle leggi, essi possono opporre solo la sovversione propria del partito dell’ordine, la quale non può vivere senza violare le leggi.

“Uno spettro s’aggira per l’Europa” – lo spettro del comunismo. Quale partito d’opposizione non è stato tacciato di “comunismo” da suoi avversari al governo; quale partito d’opposizione non ha rilanciato l’infa­mante accusa di “comunismo” tanto sugli uomini più progrediti dell’opposizione stessa, quanto sui propri avversari reazionari? È ormai tempo che i comunisti si contrappongano alla favola dello “spettro del comunismo”. Il burocrate e il generale hanno indicato ai partiti dell’ordine la sola via seguendo la quale forse potranno ancora aver ragione dei lavoratori, che decisamente non si lasciano più trascinare alla lotta di strada. Violazione della costituzione, dittatura, ritorno all’assolutismo, regis voluntas suprema lex!

[Friedrich Engels, Introduzione 1892 alle Lotte di classe in Francia

e Prefazione 1848 (con Marx) del Manifesto del partito comunista] (no.90 – 6.2002)

 

 

La crisi. Dalla concezione che l’accumulazione (l’aumento della produzione in generale) è determinata dal consumo, e dall’errata spiegazione della realizzazione del prodotto sociale complessivo (ridotto alle quote del reddito spettanti rispettivamente ai lavoratori e ai capitalisti) è scaturita in modo naturale e inevitabile la tesi che le crisi si spiegano con uno squilibrio tra la produzione e il consumo. Da ciò – dall’identità tra il reddito nazionale e la produzione nazionale – deriva la teoria sulle crisi che vuole stabilire un equilibrio tra produzione e reddito: ne consegue naturalmente la concezione che la crisi è soltanto il risultato della rottura di questo equilibrio, il risultato di una produzione eccessiva che ha superato il consumo. Si pone così in primo piano il sottoconsumo della massa del popolo, dei lavoratori.

Viceversa, le crisi sono un tratto caratteristico di un solo regime: quello capitalistico. La teoria marxista spiega le crisi con un’altra contraddizione, e precisamente con la contraddizione tra il carattere sociale della produzione (resa sociale dal capitalismo) e il modo privato, individuale dell’appropriazione. La profonda differenza tra queste teorie potrebbe sembrare tanto chiara da non aver bisogno di altre spiegazioni. Tuttavia dobbiamo soffermarci su di essa più particolareggiatamente, perché proprio i “sottoconsumisti” cercano di cancellare questa differenza e di confondere le cose. Le due teorie di cui parliamo dànno spiegazioni affatto diverse delle crisi. Una le spiega con la contraddizione fra la produzione e il consumo della classe lavoratrice, l’altra con la contraddizione tra il carattere sociale della produzione e il carattere privato dell’appropriazione. La prima vede, quindi, la radice del fenomeno fuori della produzione (di qui gli attacchi contro coloro ai quali si rimprovera di ignorare il consumo, di occuparsi esclusivamente della produzione), la seconda vede la radice del fenomeno nelle condizioni della produzione.

In breve: la prima spiega le crisi con il sottoconsumo, la seconda con l’anarchia della produzione. Pertanto, le due teorie, pur spiegando le crisi con una contraddizione della struttura stessa dell’economia, divergono radicalmente. La prima non ha fatto progredire di uno iota l’analisi scientifica di queste contraddizioni e, in taluni casi, ha compiuto un passo indietro rispetto ai classici; in secondo luogo, si dissimula così l’incapacità di condurre un’analisi (e in parte la riluttanza a farlo) dietro la morale piccolo-borghese che propugna la necessità di adeguare il reddito nazionale alle spese, la produzione al consumo, ecc.

[da V.I.Lenin, Il romanticismo economico] (no.91 – 8.2002)

 

 

PAROLE PER SALICI

I salici son piante acquatiche

pencolanti sull’orlo di stagni e fossati.

Nascono assiepandosi nell’ombra

lungo un’acqua corrente di un verde sapone.

Scagliano in alto le loro parabole

di sottili comete ricadenti, s’infittiscono

chiome pettinate.

Altro è la vista che la definizione

spremuta dentro il torchio artificiale.

I salici bevono umido alle rive ombrose,

qui bisogna venire

dove le loro famiglie improvvisano accordi

iterando filature.

Alle sponde di stagni e fossati

alla vista di cosa che esiste.

I salici son piante acquatiche.

[Gianfranco Ciabatti, Preavvisi al reo] (no.92 – 10.2002)

 

 

Questa contraddizione tra le forze produttive e la forma di relazioni, che si è già manifestata più volte nella storia fino a oggi, senza però comprometterne la base, dovette esplodere ogni volta in una rivoluzione, assumendo in pari tempo diverse forme accessorie, come totalità di collisioni, come collisione di diverse classi, contraddizione della coscienza, lotta ideologica, lotta politica, ecc. Da un punto di vista limitato si può isolare una di queste forme accessorie e considerarla come la base di quelle rivoluzioni, ciò che è tanto più facile in quanto gli individui da cui procedevano le rivoluzioni si facevano essi stessi delle illusioni sulla propria attività, a seconda del loro grado di cultura e dello stadio dello sviluppo storico.

Secondo la nostra concezione, dunque, tutte le collisioni della storia hanno la loro origine nella contraddizione tra le forze produttive e i rapporti sociali. D'altronde, non è necessario che per provocare delle collisioni in un paese questa contraddizione sia spinta all’estremo in questo paese stesso. La concorrenza con paesi industrialmente più progrediti, provocata dall’allargamento delle relazioni internazionali, è sufficiente per generare una contraddizione analoga anche nei paesi con industria meno sviluppata.

La concorrenza isola gli individui, non solo i borghesi, ma ancor più i proletari, ponendoli gli uni di fronte agli altri, benché li raccolga insieme. Perciò passa molto tempo prima che questi individui possano unirsi, senza tener conto che i mezzi necessari per questa unione – se non deve essere puramente locale – le grandi città industriali e le comunicazioni rapide e a basso prezzo, devono essere prima prodotti dalla grande industria; e perciò non è possibile vincere, se non dopo una lunga lotta, tutte le forze organizzate contro questi individui che vivono isolati e in condizioni che riproducono l’isolamento. Esigere il contrario, vorrebbe dire esigere che la concorrenza non debba esistere in quest’epoca storica determinata, o che gli individui debbano cavarsi dalla testa situazioni sulle quali essi, come individui isolati, non hanno alcun controllo.

[Friedrich Engels - Karl Marx, L’ideologia tedesca, 4 (1845)] (no.93 – 12.2002)

 

 

L’ultima consolazione degli economisti è che il paese venga sfruttato da capitalisti non stranieri, ma nazionali. “Se dovete essere sfruttati in ogni caso, è meglio che lo facciano i vostri compatrioti e non gli stranieri”. La filantropia degli economisti si riassume in queste parole: è meglio essere sfruttati dai propri compatrioti che da stranieri. La classe lavoratrice accetterà sempre questa soluzione? Io credo di no.

Coloro che producono tutto il benessere e gli agî dei ricchi non si contenteranno di quella magra consolazione. Chiederanno vantaggi più concreti in cambio dei loro prodotti concreti. Questa soluzione, bisogna ammetterlo, è indubbiamente molto patriottica, ma anche un po’ troppo ascetica e spiritualistica per uomini la cui unica occupazione sta nella produzione delle ricchezze, del bene materiale.

Ma gli economisti diranno: “In questo modo, dopo tutto, manteniamo almeno lo stato attuale della società. Bene o male assicuriamo un’occupazione al lavoratore e impediamo che egli sia gettato sul lastrico dalla concorrenza straniera”. La conservazione dello stato attuale è dunque il miglior risultato al quale possano arrivare gli economisti nel caso più favorevole. Bene, ma per la classe lavoratrice non si tratta di mantenere lo stato attuale, bensì di mutarlo nel suo opposto.

Agli economisti resta un’ultima risorsa. Diranno che non sono affatto contrari a una riforma sociale all’interno, ma che la prima cosa da fare, per assicurare il successo, è di sventare ogni pericolo derivante dalla concorrenza straniera. È un argomento molto attraente, ma sotto la sua apparenza plausibile si cela una contraddizione molto singolare. Il sistema protezionistico, mentre fornisce armi al capitale di un paese contro il capitale di paesi stranieri, mentre rafforza il capitale contro gli stranieri, crede che il capitale così armato, così rafforzato, sarà debole, impotente e inerme di fronte alla classe lavoratrice.

In fin dei conti ciò significherebbe fare appello alla filantropia del capitale, come se il capitale in quanto tale potesse essere filantropo; ciò significherebbe appellarsi alla misericordia del capitale come se il capitale, in sé, potesse mai essere misericordioso. Ma, in generale, le riforme sociali non possono mai essere attuate mediante la debolezza del forte: esse devono essere e sono ottenute dalla forza del debole.

Ecco che cos’è la fraternità che il libero scambio fa nascere fra le varie classi di una sola e medesima nazione. La fraternità che il libero scambio stabilirebbe fra le varie nazioni della terra non sarebbe molto più fraterna. Designare col nome di “fraternità universale” lo sfruttamento giunto al suo stadio internazionale, è un’idea che poteva avere origine solo in seno alla borghesia. Tutti i fenomeni di distruzione che la libera concorrenza fa sorgere all’interno di un paese si riproducono in proporzioni più gigantesche sul mercato mondiale.

[Karl Marx, Sul libero scambio (1847)] (no.94 – 2.2003)

 

 

È uno dei paesi più ricchi, più liberi e più avanzati del mondo. La febbre degli armamenti ha da molto tempo invaso la “società” e il governo, proprio come quelli francese, tedesco, ecc. Ed ecco che la stampa cita adesso dati interessantissimi che rivelano l’astuto “meccanismo” capitalistico degli armamenti. Le sue imprese godono di una fama mondiale. Esso e altri paesi spendono centinaia e migliaia di milioni per preparare la guerra; e tutto questo si fa naturalmente nell’interesse esclusivo della pace, della salvaguardia della cultura, della patria, della civiltà, ecc.

E tra gli azionisti e i direttori delle imprese, delle fabbriche, ecc. ci sono militari e famosissimi uomini di stato di tutti e due i partiti. Una pioggia d’oro cade direttamente nelle tasche dei politici borghesi, che costituiscono una compatta cricca internazionale, la quale incita i popoli a competere in fatto di armamenti e tosa questi popoli creduli, stolti, ottusi e sottomessi come si tosano le pecore!

Gli armamenti sono considerati una questione nazionale, patriottica; si presume che tutti mantengano rigorosamente il segreto. Ma imprese, fabbriche, ecc. sono stabilimenti internazionali nei quali i capitalisti dei vari paesi, in buon accordo, ingannano e scorticano fino all’osso il “pubblico” dei vari paesi, costruendo armi così per l’uno contro l’altro, come per il secondo contro il primo.

Furbo meccanismo capitalistico! Civiltà, ordine, cultura, pace; e rapina di centinaia di milioni da parte di faccendieri e affaristi, del capitale destinato all’industria delle armi. La celebre ditta di un paese ha succursali nel paese nemico. Gli azionisti e i direttori di questa ditta (per mezzo dei giornali venduti e dei “faccendieri” corrotti dal parlamento, poco importa di quale partito) tentano di scagliare un paese contro l’altro. Quanto al profitto, lo riscuotono sia dagli operai di un paese che da quelli dell’altro, e scorticano il popolo dei due paesi.

I ministri e i deputati dei due partiti partecipano quasi tutti a queste ditte. Una mano lava l’altra. Il figlio del “grande” ministro è direttore di una ditta. Il contrammiraglio, noto specialista navale e alto funzionario di quel dipartimento, passa al servizio di una fabbrica d’armi, con uno stipendio più alto di quello del primo ministro.

Lo stesso, naturalmente, avviene in tutti i paesi capitalistici. Il governo è un comitato di commessi della classe dei capitalisti che viene pagato bene. I commessi sono essi stessi degli azionisti. E tutti insieme tosano le pecorelle al frastuono di reboanti discorsi sul “patriottismo”.

 [da V.I. Lenin, Gli armamenti e il capitalismo, 1913] (no.95 – 4.2003)

 

 

SOLDATI

I soldati, sotto forma di operazioni strategiche e tattiche, difendono la pelle e forniscono lavoro all’apparato distruttivo, come quando sgobbando fornivano lavoro all’apparato produttivo.

[Bertolt Brecht, Diario di lavoro, 15.8.1944]

Cosa fate fratelli? – Un carro di ferro.

E con queste lamiere qui accanto.

Proiettili che squarciano le corazze di ferro.

E perché tutto questo, fratelli? – Per vivere, non altro.

Sulla tua città eccoci arrivati,

donna che trepidi per i tuoi bambini!

Te e loro abbiamo scelto per bersagli,

è per paura, se ci chiedi i motivi.

Ecco un diavolo, sì, ma un povero diavolo!

Rido perché so che altri piange.

Sono un piazzista di biancheria,

ma ora morte e miseria sono il mio articolo.

Ci mandano i loro bombardieri ma la fame

che ci aizzano contro è più antica;

per guadagnarci un po’ di soldi per il pane

siamo disposti a rischiare la vita.

Quelli che vedete qui, coperti di fango,

come se fossero già nella tomba, ahimé – davvero

non sono morti, dormono soltanto.

Ma se non dormissero, non sarebbero svegli lo stesso.

Guardate questi elmi di vinti! E non quando

alla fine ce li hanno sbattuti a terra

fu l’ora della nostra amara disfatta.

Fu quando noi obbedimmo e li mettemmo in testa.

Il fratellino del tuo nemico, portacelo

via dalla battaglia, dove loro ti mandano. Insieme

con tuo figlio, soldato, potrebbe discutere un giorno

su come vanno a finire le guerre.

La guerra che verrà

non è la prima. Prima

ci sono state altre guerre.

Alla fine dell’ultima

c’erano vincitori e vinti.

Fra i vinti la povera gente

faceva la fame. Fra i vincitori

faceva la fame la povera gente egualmente.

Ah, perfino il lupo

che mostra le zanne

ha bisogno di una tana!

[Bertolt Brecht, L’abicì della guerra, Breviario tedesco] (no.96 – 6.2003)

 

 

Un popolo fa progressi in sé, ha il suo sviluppo e il suo tramonto. Ciò che innanzitutto si incontra è qui la categoria della cultura, della sua esagerazione e della sua degenerazione: quest’ultima è per un popolo prodotto o fonte della sua rovina. L’uomo colto è quello che sa imporre a tutto il suo agire lo stampo dell’universalità, quello che ha rinunciato alla sua particolarità e agisce secondo princìpi universali. La cultura è forma del pensare; più in particolare, vi è implicito il fatto che l’uomo si sappia frenare, che non agisca solo secondo le sue inclinazioni e brame, e invece si raccolga in se stesso. Tenendo conto dei vari aspetti, l’uomo colto agisce concretamente; è abituato a procedere secondo impostazioni e fini universali. Quando si dice cultura si determina con ciò il semplice fatto che a un contenuto venga impresso il carattere dell’universale.

L’uomo si identifica con la serie delle sue azioni. Ci si immagina, è vero, che l’intenzione possa essere qualcosa di eccellente, anche se le azioni non debbano approdare a nulla. E certamente può avvenire, in singoli casi, che l’uomo dissimuli; ma ciò è qualcosa di affatto parziale. Il vero è che l’esteriore non è diverso dall’interiore. Io ho interesse a una cosa solo in quanto mi è ancora nascosta o necessaria per il mio scopo, e questo scopo non è ancora raggiunto. L’uomo non educato, invece, nonostante la sua buona intenzione, può, in quanto tiene d’occhio solo l’aspetto principale della cosa, danneggiarne una dozzina di altri. Quando dunque il popolo si è sviluppato pienamente e ha raggiunto il suo fine, il suo più profondo interesse viene meno.

Lo spirito di un popolo è un individuo naturale; come tale, fiorisce, vigoreggia, decresce e muore. La morte naturale di un popolo si può manifestare sotto forma di nullità politica. È ciò che chiamiamo l’abitudi­ne. L’abitudine è un agire privo di contrasto, a cui non può restare che la durata formale. Così individui, così popoli muoiono di morte naturale. Le antiche città dell’impero cessarono di esistere senza accorgersi del momento in cui ciò accadde. Un popolo si può trovare assai bene in questo stato di morte.

Lo spirito particolare di un popolo soggiace alla transitorietà, tramonta, perde la sua importanza per la storia del mondo. E così la sua morte naturale appare anche come uccisione di se stesso. Così le scienze e la rovina, il declino di un popolo, vanno sempre di pari passo. Il particolare è qualcosa di finito. È il particolare, in cui un elemento si spossa combattendo contro l’altro, e una parte va in rovina. Ma appunto dalla lotta, dal venir meno del particolare, risulta l’universale.

[G.W.F.Hegel, Filosofia della storia] (no.97 – 8.2003)

 

 

Il Bello, il Sacro, l’Eterno, la Religione, l’Amore, sono l’esca ritenuta adatta a stuzzicar la voglia di abboccare. Non il concetto, ma l’estasi. Un certo affannoso e molto zelante lavorìo per sollevare il genere umano dall’abbrutimento, quasi che gli uomini siano sul punto di appagarsi come i vermi, di polvere e d’acqua. Il sentimento è l’ottusa regione indeterminata dello spirito. La sensazione è ciò che c’è di più insignificante e di meno vero, è la forma del lavorare ottuso dello spirito nella sua individualità priva di coscienza e dell’intelletto. Questo sapere immediato dell’essere delle cose esterne è illusione ed errore; nel sensibile come tale non è verità alcuna, l’essere di queste cose estrinseche è piuttosto un’apparenza .

Le impressioni in quanto tali possono essere considerate come metafore di pensieri e nozioni. Ma avere tali concezioni non significa apprezzarne il significato intellettivo, i pensieri e le nozioni razionali che a esse corrispondono. Al contrario, una cosa è avere pensieri e nozioni intelligenti, altra è sapere quali impressioni, percezioni e sentimenti corrispondano loro. Che l’appello al cuore e alla sensazione sia tale da non dire nulla, o da dirlo malamente, non dovrebbe essere necessario ricordarlo. La sensazione si ha in comune con il bruto.

 [G.W.F.Hegel] (no.98-set.ott.2003)

 

 

Una cosa non bisogna mai perdere di vista: tutto è divenuto monopolio; alcuni rami industriali dominano tutti gli altri e assicurano a chi li sfrutta di più l’impero sul mercato mondiale. Quando si dice aspetto positivo del lavoro salariato, si dice aspetto positivo del capitale (grande industria, concorrenza, mercato mondiale, ecc.) e non occorre spiegare a lungo che, senza questi rapporti e mezzi di produzione, non avremmo visto sorgere le risorse materiali per la liberazione del proletariato. Ciò che il salario ha di più abietto è sapere che la propria attività diventa merce e che il lavoratore stesso sarà di volta in volta vendibile. Il solo rapporto tra datore di lavoro e lavoratore resta ormai lo scambio venale, l’acquisto e la vendita, il rapporto di denaro. Essendo il lavoro divenuto una merce regolata dalla libera concorrenza, si è cercato di produrlo il più possibile a buon mercato, cioè di ridurne al massimo i costi di produzione. Così pure, tutte le attività dette superiori, spirituali, artistiche ecc., essendo divenute articoli di commercio, hanno perduto la loro antica sacralità. É un grande progresso che ormai la schiera di preti, medici, giuristi, ecc., ossia religione, diritto, ecc. non abbiano più corso che secondo il loro valore come merce.

Le obiezioni che muovono gli economisti borghesi contro le associazioni sindacali sono giuste, ma solo dal loro punto di vista. Se per esse si trattasse solo di determinare il salario – e questa è l’apparenza – cioè, se il rapporto tra capitale e lavoro fosse eterno, i sindacati si arenerebbero pietosamente davanti alla necessità delle cose. Ma essi sono un mezzo di unione della classe lavoratrice, per prepararla al capovolgimento di tutta la vecchia società con i suoi antagonismi di classe. Da questo punto di vista, i lavoratori hanno ragione di burlarsi dei pedanti borghesi, che fanno loro il conto del costo in morti, feriti e denaro di questa guerra civile. Chi vuole abbattere il suo avversario non discute con lui le spese di guerra.

I lavoratori meglio pagati sono i primi a organizzare la maggior parte dei sindacati, economizzare sul loro magro salario per coprire le spese del loro movimento, che superano, il più delle volte, i vantaggi economici che essi cercano di ottenere. Alla lunga le associazioni non possono resistere alle leggi della concorrenza, e tutto ciò causa la diminuzione del salario. Se esse riuscissero a mantenere in un dato paese un livello salariale tale che il profitto diminuisse sensibilmente in rapporto al profitto medio di altri paesi, o che il capitale subisse un arresto nel suo sviluppo, il ristagno o la recessione dell’industria, che ne sarebbero la conseguenza, provocherebbero la rovina dei lavoratori con i loro padroni. E se i signori borghesi e i loro economisti, nei loro momenti di filantropia, sono così delicati da calcolare nel minimo salariale, cioè della esistenza, un po’ di the o di rhum o di zucchero e un po’ di carne, è evidente che deve sembrargli al contrario scandaloso e incomprensibile che i lavoratori prelevino da questo minimo una parte delle spese per la loro guerra contro la borghesia e che essi si aspettino dalla loro attività rivoluzionaria la più grande soddisfazione della loro vita.

[Karl Marx, Il salario] (no.99 – 12.2003)

 

 

Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.

 A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze, per l’innanzi, si erano mosse. Tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello stato non possono essere compresi né per se stessi né spiegandoli con la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza, il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del XVIII sec., sotto il termine di “società civile”; l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica.

Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene, e allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre tra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in una parola le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo.

Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale. Una formazione sociale non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive per la quale essa offra spazio sufficiente; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate, in seno alla vecchia società, le condizioni materiali della loro esistenza.

Pertanto l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude la preistoria della società umana.

[Karl Marx, Prefazione a “per la critica dell’economia politica” (1859)] (no.100 – 2.2004)

 

 

“Cercate dapprima cibo e vestimento; e il regno di dio vi arriverà da solo” (Hegel, 1807).

La lotta di classe, che è sempre davanti agli occhi dello storico educato su Marx, è una lotta per le cose rozze e materiali, senza le quali non esistono quelle più fini e spirituali. Ma queste ultime sono presenti, nella lotta di classe, in altra forma che non sia la semplice immagine di una preda destinata al vincitore. Esse vivono, in questa lotta, come fiducia, coraggio, umore, astuzia, impassibilità, e agiscono retroattivamente nella lontananza dei tempi. Esse rimetteranno in questione ogni vittoria che sia toccata nel tempo ai dominatori. Di questa trasformazione, meno appariscente di ogni altra, deve intendersi il materialista storico.

La vera immagine del passato passa di sfuggita. Solo nell’immagine, che balena una volta per tutte nel­l’attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato. Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo. Per il materialismo storico si tratta di fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo. Il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono.

Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere. Per lo storico che voglia rivivere un’epoca, raccomandare di cacciarsi di mente tutto ciò che sa del corso successivo della storia non potrebbe definire meglio il procedimento con cui il materialismo storico ha rotto i ponti. È un procedimento di immedesimazione. La sua origine è la pigrizia del cuore, il fondamento ultimo della tristezza.

La natura di questa tristezza si chiarisce se ci si chiede in chi propriamente “si immedesima” lo storico dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: nel vincitore. Ma i padroni di ogni volta sono gli eredi di tutti quelli che hanno vinto. L’immedesimazione nel vincitore torna quindi ogni volta di vantaggio ai padroni del momento. La fortuna del fascismo, che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso, consiste nello stupore che le cose che viviamo sono “ancora” possibili oggi. La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola.

[Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia] (no.101 – 4.2004)

 

 

La confusione e il rovesciamento di tutte le qualità umane e naturali, la fusione delle cose impossibili – la forza divina – propria del denaro risiede nella sua essenza in quanto è l’essenza estraniata, che espropria e si aliena, dell’uomo come essere generico. Il denaro è il potere alienato dell’umanità. Quello che io non posso come uomo, e quindi quello che le mie forze individuali non possono, lo posso mediante il denaro. Dunque il denaro fa di ognuna di queste forze essenziali qualcosa che esso in sé non è, cioè ne fa il suo contrario.

Il denaro, in quanto è il mezzo e il potere esteriore, cioè nascente non dall’uomo come uomo, né dalla società umana come società, in quanto è il mezzo universale e il potere universale di ridurre la rappresentazione a realtà e la realtà a semplice rappresentazione, trasforma tanto le forze essenziali reali, sia umane che naturali in rappresentazioni meramente astratte e quindi in imperfezioni, in penose fantasie, quanto, d’altra parte, le imperfezioni e le fantasie reali, le forze essenziali realmente impotenti, esistenti soltanto nell’imma­ginazione dell’individuo, in forze essenziali reali e in poteri reali.

Il denaro muta la fedeltà in infedeltà, l’amore in odio, l’odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù, il servo in padrone, il padrone in servo, la stupidità in intelligenza, l’intelligenza in stupidità. Poiché il denaro, in quanto è il concetto esistente e in atto del valore, confonde e inverte ogni cosa, è l’universale confusione e inversione di tutte le qualità naturali ed umane.

Chi può comprare il coraggio, è coraggioso anche se è vile. Siccome il denaro si scambia non con una determinata qualità, né con una cosa determinata, né con alcuna delle forze essenziali dell’uomo, ma con l’intero mondo oggettivo, umano e naturale, esso, dal punto di vista del suo possessore, scambia le caratteristiche e gli oggetti gli uni con gli altri, anche se si contraddicono a vicenda. È la fusione delle cose impossibili; essa costringe gli oggetti contraddittori a baciarsi. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore, fiducia solo con fiducia ecc. Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, deve essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare un’amorosa corrispondenza, il tuo amore è impotente, è un’infelicità.

[Karl Marx, Manoscritti 1844] (no.102 – 6.2004)

 

 

Mi è avvenuto di rimeditare il mio caso e di domandarmi come sarà giudicato da quel mondo della scienza al quale non credo più di appartenere. Non credo che la pratica della scienza possa andar disgiunta dal coraggio. Essa tratta il sapere, che è un prodotto del dubbio; e col procacciare sapere a tutti su ogni cosa, tende a destare il dubbio in tutti. Ora, la gran parte della popolazione è tenuta dai suoi sovrani, dai suoi proprietari di terra, dai suoi preti, in una nebbia madreperlacea di superstizioni e di antiche sentenze, che occulta gli intrighi di costoro.

Codesti uomini egoisti e prepotenti, avidi predatori a proprio vantaggio dei frutti della scienza, si avvidero subito che un freddo occhio scientifico si era posato su una miseria millenaria quanto artificiale, una miseria che chiaramente poteva essere eliminata eliminando loro stessi; e allora sommersero noi sotto un profluvio di minacce e di corruzioni, tale da travolgere gli spiriti deboli. Ma possiamo noi ripudiare la massa e conservarci ugualmente uomini di scienza?

Finché l’umanità continuerà a brancolare nella sua nebbia millenaria di superstizioni e di venerande sentenze, finché sarà troppo ignorante per sviluppare le sue proprie energie, non sarà nemmeno capace di sviluppare le energie della natura che le vengono svelate.

Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l’uomo. E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale. Così stando le cose, il massimo in cui si può sperare è una progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo.

Terribile è il disinganno degli uomini quando scoprono, o credono di scoprire, di essere stati vittime di un’illusione, che il passato è più forte del presente, che i “fatti” non sono per loro ma contro di loro, che la loro epoca, l’epoca nuova, non è ancora sorta. Allora essi soffrono come prima e assai più di prima, perché ai loro sogni hanno sacrificato tante cose di cui ora avvertono la mancanza, si sono spinti troppo avanti ed ora vengono colti di sorpresa, il passato si vendica di loro; e chi era oppresso e sfruttato, una volta soffocata la sua rivolta, diventa un sovversivo, condannato a speciali pene e repressioni.

 [Bertolt Brecht, Vita di Galileo (1943-47)] (no.103 – 8.2004)

 

 

Il Grande Politico dell’età nuova dispone su una mensola un minuscolo Napoleone di gesso e si chiude nel suo ufficio per risolvere un po’ di parole crociate. Ma gli manca sempre qualche casella. Nel frattempo, la continuità della vita è assicurata da un pigro spostarsi dei massacri da una casella all’altra del pianeta.

La Stupidità avvolge questi bruti avvenimenti in una nebbia protettiva: la sua necessità, si sarebbe detto un tempo, è strutturale. Se i crepacci che si aprono tra i fatti non fossero riempiti da una bambagia di frasi fatte, se la schizoidia da laboratorio non fosse occultata dalla convinzione di fare il Bene, e un Bene sempre più progrediente, se il raziocinio devastatore non si ritenesse l’incarnazione del Buon Senso, se … – la macchina si paralizzerebbe, la grande età sperimentale cadrebbe in un improvviso, ottuso silenzio. Il brusio del­l’Opinione serve a impedirlo. È questo l’insuperato combustibile psichico che ormai fa andare avanti la vita. “La vita va avanti”. Più del lecito.

Si aspettavano un’esperienza più grande, e assistettero al disintegrarsi dell’esperienza. Oggi tale parola può soltanto riferirsi a un passato. Altrimenti è sinonimo di orrore. L’esperienza reale della guerra si sarebbe rivelata non troppo lontana dal lavoro di fabbrica, dal “preciso ritmo di lavoro di una turbina alimentata col sangue”. La Mobilitazione Totale è la categoria che è la faccia segreta della disponibilità del “materiale umano” (Jünger). Sotto il segno di questa categoria si pone l’assimilazione definitiva di pace e guerra, la preparazione di una cronaca di guerra civile come prospettiva.

In quella “grande catastrofe”, in primo luogo, il “genio della guerra si era compenetrato con lo spirito del progresso”. E il primo frutto di quell’incontro amoroso era stato il rapido assorbimento della “immagine della guerra come azione armata nella più vasta immagine di un gigantesco processo lavorativo”. Non già la guerra serviva all’industria, ma la guerra stessa era già una forma avanzata di industria. La guerra fondata sulla Mobilitazione Totale era “un atto per mezzo del quale la corrente della vita moderna, con tutta la vasta rete delle sue ramificazioni, grazie a un’unica mossa sul quadrante dei comandi viene convogliata nella grande corrente dell’energia bellica”. Così i giovani guerrieri che andavano al fronte sognando tornei aristocratici, vi incontravano innanzitutto “la democrazia della morte”.

La pace è fondata sul massacro, e la guerra è la serata di beneficenza in cui l’umanità mette in scena ciò che normalmente fa, ma non dice, perché il pubblico si entusiasmi e versi un obolo sufficiente a far progredire il massacro. Ottimista. Ma tutte le guerre sono terminate con una pace. Criticone. Questa no. Questa non si è svolta alla superficie della vita ... no, è imperversata dentro la vita stessa. Il fronte si è esteso a tutto il paese. E vi resterà. E alla vita mutata, se ancora vita ci sarà, si accompagnerà la vecchia condizione di spirito. Il mondo perisce e non lo saprà. Tutto quanto era ieri, lo si sarà dimenticato; l’oggi non si vedrà e non si temerà il domani. Si sarà dimenticato che si è persa la guerra, dimenticato di averla cominciata, dimenticato di averla combattuta. Ecco perché la guerra non finirà. Gli “ultimi giorni dell’umanità” sono i primi giorni del mondo della guerra perpetua.

[da Karl Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, a cura di Roberto Calasso] (no.104 – 10.2004)

 

 

La democrazia a due è molto difficile: Dovremmo determinare il voto in base ai chilogrammi; sarebbe un sistema plausibile, dato che il mio sedere dipende da me, e quindi possiamo supporre che potrei indurlo a votare con me. I democratici sono troppo bonaccioni. Non hanno capito che cosa significhi “democrazia”, in senso letterale: dominio del popolo. Gli articoli o i discorsi dei soliti liberali sono semplicemente infantili.

L’homo sapiens, secondo Marx, fa qualcosa soltanto quando si trova faccia a faccia davanti alla rovina totale: Gli impulsi più elevati glieli si può soltanto estorcere. Le cose giuste, le fa solo in caso di emergenza, quando proprio non si può fare altrimenti. Gli uomini in generale pensano soltanto in caso di estrema necessità. Solo con l’acqua alla gola. La gente ha paura del caos. Pensare a fondo è doloroso. Le persone ragionevoli evitano di farlo, quando possono. In paesi dove il pensare è indispensabile, non ci si può davvero vivere: non ciò che si intende per vivere.

Il piacere del pensare è ampiamente rovinato. Lo sono anzi i piaceri in generale. Prima di tutto costano troppo. Devi pagare per un’occhiata al paesaggio: un bel panorama è una miniera d’oro. Devi pagare perfino per cacare, dato che ti tocca affittare un gabinetto. In America, i pensieri sono equiparati a una qualsiasi merce. Uno dei giornali più influenti scrisse: “Il compito principale del presidente consiste nel vendere la guerra al parlamento e al paese”. Voleva dire: affermare l’idea di andare in guerra. La parola “persuadere” è semplicemente rimpiazzata da quella più calzante: vendere.

Gli stati moderni più nobili e più sensibili volevano una guerra umana: “fate la guerra, ma non contro la popolazione civile!”. Oggi uno stato che vuole incamerarsi un granaio altrui si mette a proclamare con santa indignazione che è costretto ad andare in quel luogo perché lì ci sono proprietari disonesti, oppure ci sono ministri che si accoppiano con le giumente, ciò che disonora il genere umano.

Solo il totale allontanamento dei popoli potrebbe permettere una condotta di guerra ragionevole e il totale sfruttamento delle nuove armi. Una cosa è certa: se non si vuole che la guerra totale resti nel regno dei sogni, si deve trovare una soluzione. Il dilemma è questo: o si elimina la popolazione, o la guerra diventa impossibile. Presto o tardi, ma piuttosto presto che tardi, la scelta deve essere fatta.

Il commercio e l’economia non sono affatto umani, e portano alla guerra: disumana non è solo la guerra. Sono proprio i tentativi dei monopoli di creare un ordine internazionale a condurre alle guerre internazionali. Le guerre non sono altro che tentativi di mantenere la pace. Le guerre “scoppiano”, a quanto si sente dire, quando uno stato e magari anche i suoi alleati sono particolarmente bellicosi. Cioè quando inclinano alla violenza.

Insomma, nessuno stato approva le vere ragioni per cui fa la guerra, anzi le aborre e se ne cerca di migliori. Le ragioni più nobili che si danno per le guerre sono bevute volentieri proprio perché quelle vere, che ci si potrebbe eventualmente immaginare, sono troppo schifose.

[da Bertolt Brecht, Dialogo di profughi (Finlandia, 1940-41)](no.105 – 12.2004)

 

 

La cosiddetta legge finanziaria, in quanto viene sottoposta alla decisione dell’assemblea parlamentare, è essenzialmente un affare di governo; si chiama solo impropriamente una legge, nel senso generale che essa abbraccia un largo campo, anzi l’intero campo dei mezzi esterni del governo. Le finanze, quantunque concernano il complesso dei bisogni, si riferiscono sempre, in conformità della loro natura, ai bisogni particolari e mutevoli, che s’ingenerano sempre di nuovo. Se l’elemento capitale del fabbisogno fosse considerato come permanente – quale è anche di fatto – la determinazione di esso avrebbe meglio la natura di una legge; ma, per essere una legge, dovrebbe essere data una volta per tutte, e non già essere data annualmente, o dopo pochi anni, sempre di nuovo.

La parte mutevole secondo il tempo e le circostanze concerne, infatti, la minima parte dell’importo totale; e tanto meno la determinazione intorno a ciò ha carattere di legge; e tuttavia è, e può essere, solo questa piccola parte mutevole che è disputabile e può venire sottoposta ad una determinazione mutevole ed annuale – quella che porta falsamente il nome ben risonante di approvazione del bilancio; cioè della totalità delle finanze.

Una legge, che si da per un anno e annualmente, appare anche all’ordinario buon senso come inadeguata; giacché il buon senso distingue ciò che è in sé e per sé universale come contenuto di una vera legge, da un’universalità di riflessione, che unisce in modo solamente estrinseco ciò che per natura è una molteplicità. Il nome di una legge per lo stabilimento annuale del fabbisogno finanziario serve solo a mantenere l’illusio­ne – nella presupposta divisione del potere legislativo dal governativo – che tale divisione abbia realmente luogo; e a celare che il potere legislativo in effetti si occupa di veri e propri affari di governo, quando decide intorno alle finanze.

 Ma che l’adunanza delle classi possieda in ciò un mezzo costrittivo verso il governo, e quindi una garanzia verso il torto e la prepotenza, è, da una parte, una parvenza superficiale, poiché le misure finanziarie necessarie per la sussistenza dello stato non possono essere condizionate da qualsiasi altra circostanza, così come il governo non potrebbe concedere e ordinare l’amministrazione della giustizia sempre e soltanto per un tempo limitato. D’altro lato però, le idee di una condizione in cui potrebbe essere utile e indispensabile di aver nelle mani mezzi costrittivi, riposano, da una parte, sulla falsa rappresentazione di una relazione contrattuale tra governo e popolo, e d’altra parte presuppongono la possibilità di una divergenza dello spirito di entrambi, di tal fatta che in essa non è più da pensare a costituzione e governo in genere. Siffatto mezzo costrittivo sarebbe piuttosto lo sconvolgimento e la dissoluzione dello stato, in cui non si troverebbe più governo ma soltanto partiti; e in tale condizione di cose solo la potenza e l’oppressione di un partito per la forza dell’altro gioverebbero.

 [da G.W.F.Hegel, Enciclopedia delle scienze, § 544] (no.106 – 2.2005)

 

 

Vorrei dire qualcosa a proposito di quelle forze che oggi si accingono a soffocare nel sangue e nello sterco la cultura. Quando i delitti si moltiplicano, diventano invisibili. Quando le sofferenze diventano insopportabili, non si odono più grida. Si uccide un uomo e chi guarda vien meno. È fin troppo naturale. Quando i delitti vengono giù come la pioggia, nessuno più grida basta.

Non c’è nessun modo per impedire all’uomo di distogliere lo sguardo dalle atrocità? Ne distoglie lo sguardo perché non vede nessuna possibilità di intervenire. Si può parare il colpo quando si sa quando cade, dove cade e perché e a quale scopo cade. Perché mai si butta a mare come zavorra la cultura, quel tanto di cultura che ci è rimasto; perché mai la vita di milioni di uomini, della maggior parte degli uomini, è stata così immiserita, spogliata e in parte o in tutto annientata?

Alcuni di noi hanno una risposta a questa domanda. Rispondono: per brutalità, un pauroso processo di inconoscibile origine, che è comparso all’improvviso e che forse – si spera – altrettanto all’improvviso scomparirà; alla brutalità bisogna opporre la bontà, bisogna fare appello alle grandi parole, agli scongiuri, ai concetti imperituri: amore della libertà, dignità, giustizia, la cui efficacia è storicamente garantita. Al­l’accusa di essere brutale, il fascismo, imputato di lesa ragione, mette allegramente sotto processo la ragione stessa. Si ripromette grandi cose dalla possibilità di influire sui cervelli e di rafforzare i cuori.

Alla brutalità dei suoi sotterranei adibiti alla tortura aggiunge quella delle sue scuole, dei suoi giornali, dei suoi teatri. Educa tutta la nazione e la educa per tutto il santo giorno. Non ha molto da offrire alla grande maggioranza, quindi ha molto da educare. Non dà da mangiare e deve quindi educare all’autodisciplina. Non riesce a mettere ordine nella sua produzione e ha bisogno di guerre; quindi deve educare al coraggio fisico. Ha bisogno di vittime; quindi deve educare al sacrificio. Anche quelli tra noi che nella brutalità, nella barbarie, scorgono il male peggiore, parlano di educazione alla bontà. Ma la bontà non verrà dall’esigenza di bontà, di una bontà in qualsiasi circostanza, così come la brutalità non viene dalla brutalità, ma dagli affari che senza di essa non si potrebbero fare.

L’uomo buono è indifeso e chi è indifeso viene bastonato a morte, ma con la brutalità si può ottenere tutto. La volgarità si insedia per diecimila anni. La bontà invece ha bisogno di una guardia del corpo: ma non riesce a trovarla.

Compagni, riflettiamo sulle radici del male!

[Bertolt Brecht, Discorso al I congresso internazionale degli scrittori (1935)] (no.107 – 4.2005)

 

 

Lo stato ci si presenta come il primo potere ideologico sugli uomini. La società si crea un organo per la difesa dei suoi interessi comuni contro gli attacchi interni ed esterni. Questo organo è il potere dello Stato. Appena sorto, quest’organo si rende indipendente dalla società, e ciò tanto più quanto più diventa organo di una classe determinata, e realizza in modo diretto il dominio di questa classe.

La lotta della classe oppressa contro la classe dominante diventa necessariamente una lotta politica, che si dirige in primo luogo contro il dominio politico della classe dominante. La coscienza del legame tra questa lotta politica e la sua base economica si attutisce e può anche sparire del tutto. Anche quando ciò non avviene completamente per coloro che vi partecipano, avviene quasi sempre per gli storici. Tra le antiche fonti relative alle lotte interne della repubblica romana, solo Appiano ci dice chiaramente e apertamente di che si trattava in fin dei conti: cioè della proprietà fondiaria.

Ma lo stato, una volta divenuto un potere indipendente dalla società, produce subito una nuova ideologia. Per i politici di professione, per i teorici del diritto pubblico e per i giuristi del diritto privato, infatti, il legame coi fatti economici si perde definitivamente. Poiché in ogni caso singoli fatti economici devono assumere la forma di motivi giuridici per essere sanzionati in forma di legge, e poiché nel sanzionarli in questo modo, com’è naturale, si deve anche tener conto dell’intero sistema giuridico vigente, perciò la forma giuridica deve essere tutto e il contenuto economico nulla. Diritto pubblico e diritto privato vengono trattati come campi autonomi, che si possono e si debbono esporre secondo un sistema, eliminando in modo conseguente tutte le contraddizioni interne.

È dunque provato che, per lo meno nella storia moderna, tutte le lotte politiche sono lotte di classe e tutte le lotte emancipatrici di classe, malgrado la loro forma necessariamente politica – poiché ogni lotta di classe è una lotta politica – si aggirano, in ultima analisi, attorno a un’emancipazione economica. Per lo meno qui, dunque, lo stato, l’ordine politico, è l’elemento subordinato, mentre la società civile, il regno dei rapporti economici, è l’elemento decisivo. La concezione tradizionale vedeva nello stato l’elemento determinante, nella società civile l’elemento da esso determinato. Ciò corrisponde alle apparenze, è il lato formale della cosa. Nella storia moderna la volontà dello stato è determinata, in ultima istanza, dallo sviluppo delle forze produttive e dai rapporti di scambio.

 [Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach (1886)] (no.108 – 6.2005)

 

 

Giornalista è uno che esprime ciò che il lettore ha già pensato per conto suo in una forma di cui senz’altro non tutti i commessi sarebbero capaci. La missione della stampa è diffondere lo spirito e distruggere la ricettività. Le satire che il censore capisce vengono giustamente proibite. La distorsione della realtà nel reportage è il veritiero reportage sulla realtà. I giornali hanno con la vita all’incirca lo stesso rapporto che hanno le cartomanti con la metafisica.

Il parrucchiere racconta le novità, mentre dovrebbe solo pettinare. Il giornalista è pieno di spirito, mentre dovrebbe solo raccontare le novità. Sono due tipi che mirano in alto. Perché scrive certa gente? Perché non ha abbastanza carattere per non scrivere. I giornalisti scrivono perché non hanno niente da dire, e hanno qualcosa da dire perché scrivono. Non avere un pensiero e saperlo esprimere – è questo che fa di uno un giornalista. Il giornalismo ha appestato il mondo col talento, lo storicismo senza nemmeno quello. Spesso lo storico è soltanto un giornalista voltato all’indietro.

Il giornalismo pensa senza il piacere di pensare. Se viene bandito da un posto, l’artista somiglia all’etèra costretta alla prostituzione. Solo che quest’ultima soggiace alla costrizione senza danno. La costrizione al piacere, per lei, può anche dare piacere, per lui solo dispiacere. La prostituzione del corpo ha in comune col giornalismo la capacità di non dover sentire, ma, rispetto a esso, ha in suo vantaggio la capacità di poter sentire. Si profila l’angosciosa questione se il giornalismo non abbia corrotto anche per i tempi futuri la sensibilità per l’arte del linguaggio. E, di fronte a una scrittura che si pente in modo così sanguinoso della propria imperfezione, il pubblico ritiene perfetta la propria capacità di lettura, degenerata al contatto col giornalismo.

Hanno la stampa, hanno la Borsa, ora hanno anche il subconscio!

[Karl Kraus, Aforismi] (no.109 – 8.2005)

 

 

Come si suole parlare della fisionomia di un’epoca o di un paese, così un’epoca si esprime attraverso il suo linguaggio. Si torna sempre a citare la frase di Talleyrand secondo cui la lingua servirebbe a occultare i pensieri del diplomatico (o più in generale di un uomo astuto o ambiguo). Ma qui è vero esattamente il contrario. Ciò che qualcuno vuole occultare, o agli altri, o a se stesso, perfino ciò che racchiude entro di sé inconsciamente, la lingua lo porta alla luce. È in fondo il significato della frase le style c’est l’homme; le asserzioni di una persona possono essere menzognere, ma nello stile del suo linguaggio la sua vera natura si rivela apertamente.

Il nazismo si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente. Di solito si attribuisce un significato puramente estetico e per così dire “innocuo” al distico di Schiller: “La lingua colta che crea e pensa per te”.

Ma la lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico. Se per un tempo sufficientemente lungo al posto di eroico e virtuoso si dice “fanatico”, alla fine si crederà veramente che un fanatico sia un eroe pieno di virtù e che non possa esserci un eroe senza fanatismo. I termini fanatico e fanatismo non sono un’invenzione del Terzo Reich, che ne ha solo modificato il valore e li ha usati in un solo giorno con più frequenza di quanto abbiano fatto altre epoche nel corso di anni.

 Il Terzo Reich ha coniato pochissimi termini nuovi, forse verosimilmente addirittura nessuno. La lingua nazista in molti casi si rifà a una lingua straniera, per il resto quasi sempre al tedesco prehitleriano; però muta il valore delle parole e la loro frequenza, trasforma in patrimonio comune ciò che prima apparteneva a un singolo o a un gruppuscolo, requisisce per il partito ciò che prima era patrimonio comune e in complesso impregna del suo veleno parole, gruppi di parole e struttura delle frasi, asservisce la lingua al suo spaventoso sistema, strappa alla lingua il suo mezzo di propaganda più efficace, più pubblico e più segreto.

La lingua del Terzo Reich è stata veramente totale, con perfetta uniformità ha abbracciato l’intera sua Grande Germania, contaminandola.

[V. Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, 1947] (no.110 – 10.2005)

 

 

L’intelligenza si trova determinata; è questa la sua apparenza dalla quale procede nella sua immediatezza. In quanto sapere, però, l’intelligenza consiste nel porre come suo proprio ciò che è stato trovato. La sua attività ha a che fare con la vuota forma consistente nel trovare la ragione, ed il suo scopo è che il suo concetto sia per essa. In altri termini, il fine dell’intelligenza è di essere ragione per sé, con il che al tempo stesso il contenuto diviene per lei razionale. Quest’attività è il conoscere. L’attività dell’intelligenza appare quindi dapprima come un’attività formale, non riempita, e di conseguenza lo spirito come privo di sapere; si tratta in primo luogo di eliminare questa mancanza di sapere.

 L’intelligenza toglie quindi all’oggetto la forma della contingenza, ne coglie la natura razionale, con ciò la pone soggettivamente, e insieme fa, per converso, della soggettività la forma della razionalità oggettiva. Così il sapere, che è all’inizio astratto, formale, diviene sapere concreto, riempito di contenuto vero, quindi oggettivo. Quando l’intelligenza giunge a questo scopo, che gli è stato posto dal suo concetto, essa è in verità ciò che dapprima si limita a dover essere; vale a dire, il conoscere. Bisogna distinguere quest’ultimo dal mero sapere. Ma lo spirito libero vuole conoscere, cioè non vuole solo sapere che un oggetto è, e cosa esso è in generale come secondo le sue determinazioni contingenti, esteriori, ma vuole sapere in cosa consiste la natura sostanziale determinata dell’oggetto. Questa differenza tra il sapere e il conoscere è qualcosa di completamente familiare al pensiero colto.

L’unità – presente nella sensazione e nel sentimento – immediata, quindi non sviluppata, dello spirito con l’oggetto, è ancora priva di spirito. L’intelligenza supera la semplicità della sensazione, determina il sentito come un negativo di fronte a lei, lo separa così da sé stessa, e lo pone, nel suo essere separato, al tempo stesso come il suo proprio. Solo mediante questa doppia attività del superare e del reintegrare l’unità tra me e l’altro, io giungo a cogliere il contenuto della sensazione. Ciò avviene, dapprima, con l’attenzione. Senza di questa non è possibile alcuna apprensione degli oggetti; solo per suo tramite lo spirito si fa presente nella Cosa, e riceve, certo non ancora conoscenza ma, una nozione della Cosa.

L’attenzione costituisce perciò l’inizio della cultura e richiede uno sforzo, perché se l’uomo vuole cogliere un unico oggetto, deve astrarre da tutti gli altri, persino dalla sua propria persona; reprimendo la propria vanità, invece di lasciar parlare la Cosa si precipita a sentenziare su di essa, deve sprofondarsi ostinatamente nella Cosa, senza interferire con le sue riflessioni; deve lasciarla prevalere in sé, o fissarsi su di essa. L’attenzione implica pertanto la negazione del proprio farsi valere, e l’abbandonarsi alla Cosa.

[G.W.F.Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche] (no.111 – 12.2005)

 

 

Varie legislazioni stabiliscono un massimo di durata del contratto di lavoro. La schiavitù è nascosta; non solo il lavoratore singolo, ma anche la sua famiglia diventano di fatto proprietà di altre persone e delle loro famiglie, a mezzo di anticipi da ripagarsi in lavoro, che si accavallano di generazione in generazione. “Delle mie particolari abilità fisiche e intellettuali, e delle mie particolari possibilità di attività io posso alienare ad un altro un uso limitato nel tempo, poiché esse, dopo questa limitazione, conservano un rapporto esteriore con la mia totalità e universalità. Con l’alienazione di tutto il mio tempo concreto in virtù del lavoro e della totalità della mia produzione, io renderei proprietà di un altro ciò che c’è di sostanziale in essi, la mia attività e realtà universali, la mia personalità” [G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto].

Ogni singolo capitale costituisce soltanto una frazione autonomizzata, dotata, per così dire, di vita individuale, del capitale complessivo sociale, così come ogni singolo capitalista costituisce soltanto un elemento individuale della classe dei capitalisti. Se si dice di considerare la questione dal punto di vista sociale, se si considera, cioè, il prodotto complessivo sociale, che comprende sia la riproduzione del capitale sociale che il consumo individuale, non si deve cadere nella maniera dell’economia borghese e considerare la cosa come se una società a modo capitalistico di produzione, en bloc, considerata come totalità, perda questo suo carattere specifico, storico-economico. Al contrario. Allora ci si trova di fronte al capitalista complessivo. Il capitale complessivo appare come il capitale azionario dell’insieme di tutti i capitali singoli.

Il capitalista singolo, la cui visuale è limitata, crede con ragione che il suo profitto non provenga soltanto dal lavoro impiegato da lui o nel suo ramo di produzione. Fino a che punto questo profitto sia derivato dallo sfruttamento complessivo del lavoro operato dal capitale complessivo, cioè da tutti i capitalisti suoi colleghi, è per lui un assoluto mistero; tanto più che gli stessi teorici borghesi, gli economisti politici, non l’hanno finora svelato. L’individuo qui conta soltanto come elemento di una forza sociale, come atomo di una massa. Ed è in questa maniera che la concorrenza fa valere il carattere sociale della produzione e del consumo. Quanto esposto sta a dimostrare con una precisione che potremmo definire matematica i motivi per cui i capitalisti, i quali si comportano come dei falsi fratelli allorché si fanno concorrenza, rappresentano ugualmente una vera e propria massoneria nei confronti della classe operaia nella sua totalità.

In generale, alla diminuzione del tasso, causata dall’aumento della massa del capitale complessivo impiegato, corrisponde l’aumento della massa del profitto. Qualora si consideri la totalità del capitale variabile della società, il plusvalore che esso produce corrisponde al profitto prodotto. La massa assoluta ed il tasso del plusvalore aumentano parallelamente, la prima essendo aumentata la massa della forza-lavoro impiegata dalla società, il secondo essendosi accresciuto il grado di sfruttamento di questo lavoro.

[Karl Marx, Il capitale, I,4; II,18,20; III,9,10,14] (no.112 – 2.2006)

 

 

Tutta la vita dello Stato e della società è fondata sul tacito presupposto che l’uomo non pensi. Una testa che non si offra in qualsiasi situazione come un capace spazio vuoto non avrà vita facile nel mondo. La base di tutta la vita sociale qui da noi è costituita dal presupposto che l’uomo non riflette. Bisogna essere contenti che venga riconosciuto, almeno teoricamente, il diritto alla corporeità, minacciata ogni momento da un traffico stradale privo di regole. Se si provvedesse armonicamente alle necessità della vita esterna, sarebbe possibile ad ognuno di noi raggiungere sé stessi. Vengo così a sapere, senza averlo richiesto, che cosa avviene nell’intimo dei miei contemporanei. A loro non basta che io veda la loro bruttezza esteriore. In quei cinque minuti di vita che passiamo insieme, io devo essere anche informato su ciò che li agita, rallegra, delude. Questo, e solo questo, è il contenuto della nostra civiltà: la rapidità con cui l’idiozia ci trascina nel suo vortice. Nei rapporti personali lo spirito delude, ma la stupidità è sempre produttiva. E che? l’umanità istupidisce per favorire il progresso meccanico e noi non dovremmo almeno trarne vantaggio? Dovremmo dialogare con la stupidità, quando è possibile sfuggirle con un’automobile?

La nostra civiltà è costituita di tre cassetti, di cui due si chiudono quando il terzo è aperto: lavoro, divertimento e istruzione. I giocolieri cinesi dominano la vita intera con un dito. Avranno dunque gioco facile. La speranza gialla! Spirito umanitario, cultura e libertà sono beni preziosi che sono stati pagati col sangue, l’intelligenza e la dignità umana a un prezzo non sufficientemente alto. Quando i diritti dell’uomo non c’erano ancora, li aveva il privilegiato. Questo era inumano. Poi fu stabilita l’eguaglianza, in quanto si tolsero al privilegiato i diritti dell’uomo.

La politica è effetto di scena. Quando Shakespeare traversava il palcoscenico, per qualsiasi pubblico il rumore delle armi copriva i pensieri. La grandezza di Bismarck, che sapeva dar forma creativamente al materiale politico si misura col metro dell’azione teatrale, sull’effetto delle entrate e delle uscite. E se noi tedeschi temiamo Dio e null’altro al mondo, perfino lui non lo riveriamo certo per la sua personalità ma per il rumore dei suoi tuoni. Politica e teatro: il ritmo è tutto, niente il significato. I calzoni corti in un uomo non sono tanto più comici delle stato adolescenziale in un vecchio, e uno stato che sull’orlo della tomba fa una riforma elettorale, ha diritto ad essere descritto da un marrano della storia del mondo.

[Karl Kraus, Aforismi] (no.113 – 4.2006)

 

 

La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idilliaci sono momenti fondamentali dell’accumulazione originaria. Alle loro calcagna viene la guerra commerciale, con l’orbe terracqueo come teatro.

I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono più o meno in successione cronologica. Alla fine del secolo XVII quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica.

La storia dell’amministrazione coloniale “mostra un quadro insuperabile di tradimenti, corruzioni, assassini e infamie”. Più caratteristico di tutto è il suo sistema del furto di uomini per ottenere schiavi. La gioventù rubata veniva nascosta nelle “prigioni segrete, una più orrenda dell’altra, stipate di sciagurati, vittime della cupidigia e della tirannide, legati in catene, strappati con la violenza alle loro famiglie”. Ecco il doux commerce!

Il trattamento degli indigeni era naturalmente più rabbioso che altrove nelle piantagioni destinate soltanto al commercio di esportazione e nei paesi ricchi a densa popolazione, abbandonati alla rapina e all’assas­sinio. Tuttavia neppure nelle colonie vere e proprie il carattere cristiano dell’accumulazione originaria si smentiva; Quei sobri virtuosi del protestantesimo che sono i puritani della Nuova Inghilterra misero un premio su ogni scalpo d’indiano e per ogni pellirossa prigioniero.

Le società monopolia (Lutero) furono leve potenti della concentrazione del capitale. La colonia assicurava alle manifatture che sbocciavano il mercato di sbocco di un’accumulazione potenziata dal monopolio del mercato. Il tesoro catturato fuori d’Europa direttamente con il saccheggio, l’asservimento, la rapina e l’assassinio rifluiva nella madre patria e qui si trasformava in capitale.

[Karl Marx, Il capitale, I.24, L’accumulazione originaria] (no.114 – 6.2006)

 

 

Non c’è altro vero sovrano che la nazione; non può esserci altro vero legislatore che il popolo; è raro che un popolo si sottometta sinceramente a leggi che gli sono imposte; le amerà, le rispetterà, obbedirà loro, le difenderà come opera propria, se ne è egli stesso l’autore. Le leggi non sono più la volontà arbitraria di uno solo, ma quella di numerosi uomini che si sono consultati intorno alla loro felicità e sicurezza; esse sono vane se non comandano tutti allo stesso modo; sono vane se c’è un solo membro nella società che possa infrangerle impunemente. Il primo punto di un codice, dunque, mi deve istruire sulle precauzioni prese per assicurare alle leggi la loro autorità.

La prima riga di un codice ben fatto deve vincolare il sovrano; deve cominciare così: “Noi, popolo, e noi sovrano di questo popolo, giuriamo congiuntamente queste leggi secondo le quali saremo egualmente giudicati; e se noi, il sovrano, dovessimo cambiarle o infrangerle, divenuti nemico del popolo, è giusto che il popolo sia nostro nemico, che sia sciolto dal giuramento di fedeltà, che ci persegua, che ci deponga e anche ci condanni a morte se il caso lo richiede; e questa è la prima legge del nostro codice. Guai al sovrano che disprezzerà la legge, guai al popolo che tollererà il disprezzo della legge”. Ogni sovrano che si sottragga a questo giuramento si dichiara in anticipo despota e tiranno.

La seconda legge è che i rappresentanti della nazione si riuniranno ogni cinque anni per giudicare se il sovrano si è attenuto esattamente a una legge che ha giurato; stabilire la pena che merita se l’ha trasgredita; confermarlo o deporlo. Popoli, se avete piena autorità sui vostri sovrani, fate un codice: se il vostro sovrano ha piena autorità su di voi, lasciate stare il codice; non fareste che forgiare catene per voi stessi.

Se conserva il regime dispotico per sé e per i suoi successori, faccia il suo codice come gli piace, non ha bisogno del consenso della nazione. Se vi rinunzia, questa rinunzia sia formale; se è sincera, si preoccupi insieme alla nazione dei mezzi più sicuri per impedire al dispotismo di rinascere, e si legga nel primo capitolo la rovina ineluttabile di chi ambirà in avvenire all’autorità arbitraria.

Si può discutere se dobbiamo porre le istituzioni politiche sotto la sanzione della religione. Non mi piace fare entrare negli atti di sovranità persone che predicano di un essere superiore al sovrano, a cui fanno dire tutto ciò che piace loro. Non mi piace fare di una questione di ragione una questione di fanatismo. Non mi piace fare di una questione di convinzione una questione di fede. Non mi piace dare peso e considerazione a quanti parlano in nome dell’onnipotente. La religione è un sostegno che finisce sempre per far rovinare la casa. L’esperienza di tutti i tempi e di tutti i luoghi ha dimostrato il pericolo per il trono della vicinanza dell’altare.

[Denis Diderot, Osservazioni sull’istruzione per la redazione delle leggi (1773)] (no.115 – 8.2006)

 

 

 “La Comune – scrisse Marx – non doveva essere un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Invece di decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante dovesse rappresentare e opprimere il popolo nel parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in comuni così come il suffragio individuale serve a ogni altro imprenditore privato per cercare i lavoratori e gli organizzatori della sua azienda”.

Questa mirabile critica del parlamentarismo, fatta nel 1871, appartiene oggi anch’essa, grazie al dominio del socialsciovinismo e dell’opportunismo, alle “parole dimenticate” del marxismo. Ministri e parlamentari di professione, traditori del proletariato e socialisti “d’affari” dei nostri tempi hanno abbandonato agli anarchici il monopolio della critica al parlamentarismo e hanno qualificato di “anarchismo” qualsiasi critica del parlamentarismo! Nulla di strano che il proletariato dei paesi parlamentari “progrediti”, disgustato alla vista di “socialisti” abbia riversato sempre più spesso le sue simpatie sull’anarco-sindacalismo, per quanto questo sia fratello dell’opportunismo. Decidere una volta ogni qualche anno qual membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo nel parlamento: ecco la vera essenza del parlamentarismo borghese, anche nelle repubbliche più democratiche. Ma se si pone la questione dello stato, se si considera il parlamentarismo come una delle istituzioni dello stato, dal punto di vista dei compiti del proletariato, dove è la via per uscire dal parlamentarismo? Come si può farne a meno?

Senza dubbio non è nel distruggere le istituzioni rappresentative e il principio dell’eleggibilità, ma nel trasformare queste istituzioni rappresentative da mulini di parole in organismi che “lavorino” realmente. Un organismo “non parlamentare, ma di lavoro”: questo colpisce direttamente voi, moderni parlamentari e “cagnolini” parlamentari della socialdemocrazia! Il vero lavoro di “stato” si compie tra le quinte, e sono i ministeri, le cancellerie, gli stati maggiori che lo compiono. Nei parlamenti non si fa altro che chiacchierare, con lo scopo determinato di turlupinare il “popolino”. Gli eroi del putrido filisteismo sono riusciti a incancrenire persino i soviet, trasformandoli in mulini di parole sul tipo del parlamentarismo borghese più rivoltante. Nei soviet i signori ministri “socialisti” ingannano con la loro fraseologia e le loro risoluzioni. Nel governo si balla una quadriglia permanente, da un lato, per sistemare a turno attorno alla “torta” dei posticini remunerativi e onorifici il più gran numero possibile diparlamentari; d’altro lato, per “attirare l’attenzione” del popolo. E nelle cancellerie, negli stati maggiori “si sbrigano” le faccende “dello stato.

[Vladimir Ilic Lenin, Stato e rivoluzione] (no.116 – 10.2006)

 

 

I preti sono dei custodi delle leggi ancora più sospetti dei magistrati; in nessuna parte del mondo si è riusciti senza violenza a ridurli alla condizione di semplici cittadini; hanno spesso osato dire che non dipendevano che da Dio, e non hanno mai smesso di pensarlo. Ovunque hanno preteso ad una giurisdizione speciale, ovunque hanno preteso al diritto di legare o sciogliere dal giuramento; renderli depositari di questo diritto significa aderire alle loro pretese; non si può umiliare a sufficienza una specie di uomini che santificano il delitto quando vogliono; non si può diffidare troppo della sola specie di uomini che ha conservato il privilegio regale di parlare ai popoli riuniti in nome del signore dell’universo. Mai i disordini della società sono così gravi, come quando i sobillatori possono servirsi del pretesto della religione, per mascherare i loro disegni.

Prima o poi il trono viene occupato da un superstizioso, cioè prima o poi si afferma il regno dei preti, ed è allora che i popoli giungono al culmine della infelicità. II prete, la cui dottrina è piena di assurdità, tende di nascosto a coltivare l’ignoranza: la ragione è nemica della fede, e la fede è il fondamento dello stato, della fortuna, della stima del prete. Quale è l’uomo con un po’ di buon senso che rivolgendo uno sguardo imparziale su tutte le religioni della terra non vi riconosca un insieme di stravaganti menzogne, un sistema dove i ranghi sono cosi ordinati: Dio, il sacerdozio, la monarchia, il popolo. La religione non è priva di spiacevoli conseguenze anche nello stato democratico. Degradate finché potete un sistema menzognero che vi degrada. Un vizio comune a tutte le corporazioni è tendere al primato; questo vizio è meno nascosto, più violento, più pericoloso nel sacerdozio che in nessun altro.

Quali sono i due principi che gli imprime in particolare? La rinuncia alla sua ragione, la sottomissione assoluta alla religione; l’intolleranza e la sua perfetta indipendenza da ogni specie di autorità, eccetto quella di Dio. Tutto ciò che lui dice in mille modi si riduce a queste parole: non siete niente davanti a Dio, siete il signore assoluto dei popoli; ma fa eccezione per se stesso. Ogni prete è un pugnale la cui impugnatura è in mano a Dio, o meglio che Dio è un pugnale la cui impugnatura è in mano a ciascun prete. I filosofi non hanno ucciso né preti né re perché non hanno né confessionali né pulpiti; perché non seducono in segreto né predicano ai popoli riuniti.

Non mi piace dare peso e considerazione a quanti parlano in nome dell’onnipotente. Non mi piace fare di una questione di ragione una questione di fanatismo.

[Denis Diderot, Osservazioni sull’istru­zione per la redazione delle leggi (1773)] (no.117 – 12.2006)

 

 

Il capitalismo non sarebbe capitalismo se il proletariato “puro” non fosse attorniato da una folla eccezionalmente variopinta di tipi intermedi tra il proletario e il semiproletario (che solo in parte si procura i mezzi di sussistenza vendendo la propria forza-lavoro), tra il semiproletario e il piccolo contadino (e il piccolo artigiano, il piccolo padrone in genere), tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc., e se in seno al proletariato non vi fossero divisioni più o meno sviluppate per regione, per mestiere, talvolta per religione. Da tutto questo deriva la necessità – che è necessità assoluta, incondizionata – per l’avanguardia del proletariato, per la parte cosciente di esso, per il partito comunista, di manovrare, di stringere accordi, di stipulare compromessi con i diversi gruppi di proletari, con i diversi partiti di operai e di piccoli padroni.

Tutto sta nel sapere impiegare questa tattica allo scopo di elevare, e non di abbassare, il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e di vincere. Bisogna notare, tra l’alro che la vittoria dei bolscevichi ha richiesto, non solo prima della rivoluzione dell’ottobre 1917, ma anche dopo di essa, l’applicazione di una tattica di manovre, di accordi, di compromessi, naturalmente tali da agevolare, consolidare, rafforzare la vittoria dei bolscevichi.

I democratici piccolo-borghesi oscillano inevitabilmente tra la borghesia e il proletariato, tra la democrazia borghese e il sistema socialista, tra il riformismo e la rivoluzione, tra la simpatia per gli operai e il timore della dittatura proletaria, ecc. La giusta tattica dei comunisti deve consistere nell’utilizzare queste oscillazioni e non nell’ignorarle, e la loro utilizzazione esige che si facciano concessioni agli elementi che si spostano verso il proletariato nel momento e nella misura in cui si stanno spostando e impone che si lotti al tempo stesso contro gli elementi che si orientano invece verso la borghesia.

Per effetto della nostra applicazione di una tattica giusta la democrazie piccolo-borghese ha cominciato e continua tuttora a disgregarsi sempre più: i capi ostinatamente opportunisti vengono isolati, mentre gli operai migliori, i migliori elementi dellla democrazia piccolo-borghese, passano nel nostro campo. Si tratta di un processo lungo, e la frettolosa “decisione” – “nessun compromesso, nessuna manovra” – può soltanto recar danno all’aumento dell’influenza e all’accumulazione delle forze del proletariato rivoluzionario.

 

[Vladimir Ilic Lenin, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, §8 – Nessun compromesso? (1920)] (no.118 – 3.2007)

 

 

Un giorno un giovin cavaliere andò, per un affare di cuore, a sfidare un vecchio soldato ancora nel vigore delle forze, ricevendone questa risposta: “Le medaglie che porto mi dànno il diritto di essere calmo (e – aggiungo io, Ciabatti – di non accettare la sfida). L’episodio è riferito nel romanzo Eros del Giovanni Verga preverista, ma mi è venuto subito calzante, in piena epoca postmoderna, appena ho letto la lettera di dimissioni del redattore.

Del quale non posso che chiedermi: cosa gli è successo? Ormai siamo alla psicologia del profondo. Non so cosa scrivere a lui. Perché, penso, dovrei scrivergli questo: per mettermi al servizio di compagni come lui, e scrivere qualche colonna rispettosa del pensiero di tutti (e solo rivolta contro il nemico), ho dovuto combattere e scrivere per poco meno di trent’anni.

E potrei aggiungere una cosa ancora: che per raggiungere la dignità di una virgola da presentare in pubblico bisogna lavorare sodo, ma sodo. A meno che non si tratti dei documenti di un consiglio rivoluzionario (di lavoratori ecc.): ma non mi pare sia questo il caso.

E con questo dimetto i miei panni dimessi. Son disponibile per lavorare, “meno ma meglio”, con i pochi che, capaci di mantenere gli impegni e di imparare e di impegnarsi, ci stanno. Saluti comunisti

[Gianfranco Ciabatti, 28.5.1987]

La folla è il gregge senza idee, che riceve pensieri e sentimenti dalla classe dominante. Finché il socialismo non si è fatto spiritualmente strada tra le masse, il plauso della folla non può che andare a gente senza partito o a oppositori del socialismo, allorché solo un’esigua mi­noranza della classe operaia si sia innalzata sino al socialismo. E tra gli stessi socialisti quelli che lo sono nel senso scientifico del Manifesto comunista sono a loro volta una mi­noranza. La grande maggioranza degli operai, quelli almeno che si sono destati alla vita politica, sono ancora avvolti nelle nebbie di aspirazioni e di frasi sentimentali. Il plauso della folla, la popolarità è la prova che si è sulla falsa via.

Guai a chi si perde nei vuoti giri di parole: phraseur – parolaio; odiare a morte i politicanti da strapazzo e la loro ciarlataneria. Pensare con rigore logico ed esprimere chiaramente i pensieri: ciò impone di studiare. Studiare, studiare! Mentre altri architettano piani per sovvertire il mondo e giorno dopo giorno, sera dopo sera s’inebriano con l’oppio del “domani è la volta buona!”, noi “demonî”, “banditi”, “feccia dell’u­manità” cerchiamo di approfondire la nostra preparazione e di approntare armi e munizioni per le lotte future. La politica è studio. I libri sono strumenti di lavoro e non oggetti di lusso. Sono i miei schiavi e devono ubbidire alla mia volontà. La scienza non deve essere uno svago egoistico: coloro che hanno la fortuna di potersi dedicare a studi scientifici devono anche essere i primi a mettere le loro cognizioni al servizio del­l’umanità: “Lavorare per il mondo”.

[Marx (1865), da Paul Lafargue 1890)] (no.119 – 6.2007)

 

 

In periodi di depressione la domanda del capitale da prestito è domanda di mezzi di pagamento e niente altro; in nessun caso è domanda di denaro come mezzo di acquisto. La domanda di mezzi di pagamento è una semplice domanda di convertibilità in denaro, quando i commercianti e i produttori possono offrire delle garanzie sufficienti; è una domanda di capitale monetario quando ciò non si verifica, cioè un anticipo di mezzi di pagamento dà loro la forma monetaria equivalente che loro manca.

Coloro che dicono che esiste semplicemente una carenza di mezzi di pagamento hanno soltanto in mente quelle persone che posseggono garanzie bona fide (effetti garantiti da merce), o sono dei pazzi che credono sia dovere e facoltà di una banca trasformare, con pezzi di carta, tutti gli speculatori falliti in capitalisti solidi e solvibili. Coloro che dicono che esiste una semplice carenza di capitale, fanno puramente un gioco di parole, oppure si riferiscono esclusivamente a quegli avventurieri del credito che ora sono di fatto messi in condizioni di non poter più a lungo ottenere capitale altrui con il quale portare avanti i loro affari e pretendono che la banca non soltanto li aiuti a restituire il capitale perduto, ma li metta per di più in grado di continuare le loro speculazioni fraudolente, poiché in tali periodi vi è una massa di capitale inconvertibile in seguito alla sovraimportazione e alla sovraproduzione.

È un principio fondamentale della produzione capitalistica che il denaro si contrappone alla merce quale forma autonoma del valore, cosicché diventa la merce universale in contrapposizione a tutte le altre merci. In periodi di depressione, quando il credito si restringe oppure cessa del tutto, il denaro improvvisamente si contrappone in assoluto a tutte le merci quale unico mezzo di pagamento e autentica forma di esistenza del valore. Di qui la svalorizzazione generale delle merci, la difficoltà, anzi l’impossibilità di trasformarle in denaro, ossia nella loro forma puramente fantastica.

In secondo luogo, la moneta di credito stessa è denaro unicamente nella misura in cui rappresenta, in assoluto, nel suo valore nominale, il denaro effettivo. Di qui misure coercitive, aumento del tasso d’interesse ecc. al fine di assicurare le condizioni di convertibilità nell’interesse di trafficanti di denaro. Ma la causa prima si trova nel fondamento stesso del sistema di produzione. Una svalorizzazione della moneta di credito scuoterebbe tutti i rapporti esistenti. Il valore delle merci viene quindi sacrificato al fine di salvaguardare l’esistenza immaginaria e indipendente di questo valore nel denaro.

[Karl Marx, Il capitale, III.32] (no.120 – 9.2007)

 

 

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo  è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo [anche quello attuale, benché dissimulato – ndr]. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono “ancora” pos­sibili nel ventesimo [ma anche nel  ventunesimo] secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessu­na conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.

Gli oggetti, che la regola dei conventi dava in meditazione ai fratelli, avevano il compito di distoglierli dal mondo e dalle sue faccende. Il pensiero che svolgiamo qui nasce da una determinazione analoga. Esso si propone – nel momento in cui i politici, nei quali avevano sperato gli avversari del fascismo, giacciono a terra e ribadiscono la disfatta col tradimento della loro causa – di liberare l’infante politico mondiale dalle pastoie in cui l’hanno avviluppato. La considerazione muove dal fatto che la cieca fede nel progresso di quei politici, la loro fiducia nella loro “base di massa”, e infine il loro servile inquadramento in un apparato incontrollabile, non erano che tre aspetti della stessa cosa. Essa cerca di dare l’idea di quanto deve costare, al nostro pensiero abituale, una concezione della storia che eviti ogni complicità con quella a cui quei politici continuano ad attenersi.

Il conformismo, che è sempre stato di casa nella socialdemocrazia [“ma anche” ... nella attuale “democrazia” da social-partito nuovo], non riguarda solo la sua tattica politica, ma anche le sue idee economiche. Ed è una delle cause del suo sfacelo successivo. Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’opi­nione di nuotare con la corrente. Lo sviluppo tecnico era il filo della corrente con cui credeva di nuotare. Di qui c’era solo un passo all’il­lusione che il lavoro di fabbrica, trovandosi nella direzione del progresso tecnico, fosse già un’azione politica. La vecchia morale protestante del lavoro celebrava la sua resurrezione – in forma secolarizzata – fra i lavoratori tedeschi. Il programma di Gotha reca già tracce di questa confusione. Esso definisce il lavoro come “la fonte di ogni ricchezza e di ogni cultura”. Allarmato, Marx ribatté che l’uomo non possiede altra proprietà che la sua forza-lavoro, “non può non essere lo schiavo degli altri uomini che si sono resi proprietari”.

[Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, 1921] (no.121 – 12.2007)

 

 

Marullo: O voi peggiori delle inerti cose ed ora vi prendete vacanza. ed ora i fiori date lungo il cammin di quei che giunge in trionfo nel sangue di Pompeo?

Flavio: Andrò a cacciar dalle vie la plebe. Oltre gli umani sguardi, altrimenti, ei salirebbe e tutti ci manterrebbe in un servil terrore.

Bruto: Cosa è questo clamore? Io ben pavento che il popol scelga Cesare per re ... Abbandonarmi possan gli Dei se il nome dell’onore non ami più di quel che morte io tema.

Cassio: Se mai fossi un volgare burlone, se con vani giuramenti l’o­nor mio proclamassi a ogni nuovo venuto, se credeste ch’io lusinghi le genti e fra le braccia le stringa e do­po le calunni, o pure se supponete che alla sala tutta nel calor di un convito io mi offra, allora dite pure ch’io son pe­ricoloso! Amico, questo stretto mon­do come un gigante egli scavalca e noi deboli umani, sotto le alte gambe passiam guardando intorno per trovare le nostre tombe inonorate. Spes­so gli uomini son di lor fato signori. Non è Bruto, la colpa nelle nostre stelle se siamo sottomessi, è in noi.

Cesare: Io voglio a me d’intorno uo­mini grassi dalla faccia lucente e che la notte dormano. Cassio che è là giù, lo sguardo ha sparuto e famelico. Egli pensa troppo e costoro son pericolosi. Egli molto legge, egli è un profondo osservatore e chiaramente ei vede nelle azion degli uomini.

Cicerone: E in vero tempi son questi assai strani, ma l’uomo può interpretar le cose a suo talento fuor d’ogni senso che esse hanno.

Casca: Anch’io lo posso (scuoter la tirannia) poi che ogni schiavo in man reca la forza d’infrangere i suoi lacci.

Cassio: E perché mai sarebbe dunque Cesare un tiranno? Io so che non sarebbe un lupo se non vedesse pecore i romani né un leone sarebbe se cerbiatti non fossero i romani.

Cesare: La ragione è la mia volontà.

Bruto: Incoronarlo? E d’altra parte, sarebbe come dargli un dardo col quale a suo voler possa far danno... E noi dobbiamo pur prevenirlo.  Tutti i giorni cresce la forza del nemico e giunti al sommo noi siamo pronti invece a declinare. V’è negli affari umani una sagliente marea che pre­sa al suo passar, conduce alla fortuna e, se mancata, tutto il viaggio di lor vita costringe alla bassura e alla miseria. Tale è il pieno mar che navighiamo. Ed ora seguir dobbiamo la corrente in fino a che ci serva o rovinar l’impresa.

Antonio: Bruto fu dei romani tutti il più nobile: tutti i congiurati, salvo lui, così han fatto per invidia verso il gran Cesare e lui solo pensava al ben comune e al pubblico interesse unendosi con loro. La sua vita fu generosa e gli elementi tutti così commisti in lui che la Natura potrebbe sollevarsi e proclamare a tutto quanto il mondo: Egli fu un uomo!

[William Shakespeare, Giulio Cesare] (no.122 – 3.2008)

 

 

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia.

L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza.

Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.

Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’ eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente.

Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche per que­sto: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto ad ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’ attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’ è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano.

Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

[Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917] (no.123 – 6.2008)

 

 

Amico lettore, il desiderio che provo che tu possa trarre profitto dalla lettura di questo scritto mi ha spinto ad ammonirti di stare attento a non lasciare che il tuo spirito s’inebri con le scienze elaborate in solitario da una teoria fantasiosa, o rubata da qualche libro composto andando dietro all’immaginazione di gente che non ha messo in pratica assolutamente nulla, e di guardarti dal credere alle opinioni di coloro che affermano e sostengono che è dalla teoria che si genera la pratica. Coloro che insegnano simile dottrina ricorrono a un argomento infondato, dichiarando che è necessario immaginare e plasmare nello spirito la cosa che si vuol fare prima di tradurla in realtà.

Se si desse il caso che qualcuno riuscisse a realizzare le sue immaginazioni, mi chinerei davanti a lui e alle sue opinioni. Siamo, però, molto distanti da ciò. Se le cose concepite dallo spirito potessero essere concretizzate, quelli che cercano la pietra filosofale farebbero cose molto belle e non vivrebbero nell’illusio ne per cinquanta anni tentando di incontrarla, come hanno fatto molti. Se la teoria racchiusa nella testa dei generali potesse essere tradotta in pratica, essi non perderebbero nemmeno una battaglia. Oso persino dire a quelli che sostengono opinioni così confuse che loro non saprebbero fare un paio di scarpe, e nemmeno un tacco, anche conoscendo tutte le teorie del mondo.

Ci tengo a cominciare così per chiudere la bocca di quelli che dicono: com’è possibile che un uomo possa sapere qualcosa e parlare di fenomeni naturali senza aver visto i libri latini dei filosofi? Tale giudizio ha ragion d’essere nei miei riguardi, giacché è grazie alla pratica che provo, in diversi punti, la falsità della teoria di vari filosofi, finanche di quella dei più famosi e antichi, come ognuno può vedere e capire in meno di due ore qualora voglia accettare la fatica di venire dove possono essere viste cose meravigliose, che servono a testimoniare e comprovare i miei scritti, perché qualsiasi persona possa istruirsi da sé.

Posso assicurare che in pochissime ore, certamente il primo giorno, imparerai più filosofia naturale sui dati relativi alle cose contenute in questo libro di quanta ne apprenderesti in cinquant’anni leggendo le teorie e le opinioni dei filosofi antichi. Alcuni nemici della scienza derideranno gli astrologi, dicendo: dov’è la scala per la quale sono saliti ai cieli per conoscere la posizione degli astri? A questo riguardo, non mi lascio contagiare da simile scherno, giacché, provando le mie ragioni per iscritto, mi contento della vista, dell’udito e del tatto. Ragion per cui da me non ci sarà spazio per i calunniatori.

[Descartes, Discours admirables] (no.124 – 9.2008)

 

 

Oggi il più grande come il più piccolo banchiere adopera la sua astuzia anche nelle minime cose; mercanteggia le arti, la beneficenza, l’amore, mercanteggerebbe col papa un’assoluzione.

Uno sbirro, qualsiasi grado occupi nella macchina della polizia, non può, come non lo potrebbe un forzato, ritornare a una cosiddetta professione onesta e libera. Una volta segnati, una volta immatricolati, gli informatori e i condannati prendono, come i sacerdoti, un marchio indelebile. Se mai un uomo deve sentire l’utilità, le dolcezze dell’ami­cizia non è forse il lebbroso morale che la folla chiama delatore, il popolino spia e l’amministrazione agente? La polizia politica, come quella giudiziaria, prendeva i suoi uomini soprattutto fra gli agenti conosciuti, immatricolati, soliti, i quali sono i soldati di quella forza segreta così necessaria ai governi, nonostante le chiacchiere dei filantropi o dei moralisti spiccioli.

Noi banchieri per cui gli uomini sono carte, non dobbiamo mai essere giocati da essi! Qualsiasi nuovo accaparramento rappresenta u­na nuova diseguaglianza nella ripartizione generale. Ciò che lo stato chiede, restituisce; ma ciò che una banca prende, tiene. Costringere gli Stati europei a emettere dei prestiti al dieci o al venti per cento con i capitali del pubblico, ricattare in grande le industrie impadronendosi delle materie prime, gettare all’i­deatore di un affare una corda per sostenerlo a fior d’acqua finché non si sia ripescata la sua impresa asfissiata, insomma tutte queste battaglie di scudi guadagnati costituiscono l’alta politica finanziaria.

Certo in quelle battaglie i banchieri, come i conquistatori, corrono pericoli; ma così pochi sono in grado di sostenere simili lotte, che il gregge non ha niente a che vederci. Oggi la concorrenza ha limitato i profitti, sicché qualsiasi ricchezza troppo rapidamente acquisita o è l’effetto di un caso e di una scoperta, o il risultato di un furto legale.

Il male deriva dalle leggi politiche. Si è proclamato il regno del denaro, il successo diventa pertanto la ragione suprema di un’epoca atea. La corruzione delle alte sfere, malgrado gli splendidi risultati, è infinitamente più laida delle corruzioni ignobili e quasi personali degli strati inferiori, di cui alcuni particolari servono da nota comica, un comico terribile se volete, in questa “scena” Il governo, che si spaventa di qualsiasi idea nuova, ha esiliato dal teatro gli elementi del comico attuale. Creare necessità terribili, scavare la mina, mettervi la polvere e nel momento critico, dire al complice: “Fai un cenno del capo, tutto salta!”.

[Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane, 1839] (no.125 – 12.2008)

 

 

Maitland. Signore, lei ha parlato a lungo di una quantità di doveri che avremmo verso l’uomo, ma cosa diremo, signore dei nostri doveri verso Dio? Non ci dovranno più essere chiese né luoghi di culto nella comunità?

Holyoake. Davvero io non vorrei mescolare la religione con un argo­mento di carattere economico e prettamente laico. Ma cercherò di rispondere con franchezza alla domanda. Il nostro debito pubblico consolidato è una macina da mulino legata al collo del povero e la nostra chiesa insieme alle istituzioni religiose ci costano circa venti milioni di sterline all’anno. Il culto è troppo costoso. E allora io mi rivolgo al vostro cervello ed alle vostre tasche: non siamo troppo poveri per permetterci un Dio? Se i poveri costassero altrettanto allo Stato, accadrebbe loro come agli impiegati: dovrebbero lavorare a mezza paga. E finché dureranno le nostre attuali ristrettezze, sarebbe più sensato comportarci allo stesso modo con Dio.

Narratore. Il giorno seguente sul giornale della città, apparve il seguente trafiletto “Martedì sera, un individuo di nome Holyoake, ha tenuto una conferenza sul Socialismo o, com’è stato meglio definito, sul demonismo, al “Mechanics Institute”. Dopo aver ripetutamente attaccato la Chiesa e la religione in genere, un membro della lega contro l’alcoolismo, di nome Maitland, si è alzato in piedi e ha detto che il conferenziere aveva parlato a lungo dei nostri doveri verso l’uomo ma aveva omesso di menzionare i nostri doveri verso Dio. Il socialista ha replicato che riteneva che noi tutti fossimo troppo poveri per permettercene una.

Cognato. “I magistrati hanno preso visione dell’articolo succitato ed hanno espresso l’opinione che questo fosse un caso evidente di vilipendio della religione.

Magistrato. La legge non vieta di nutrire certe personali convinzioni, purché ci si astenga dal propagarle. E quando uomini simili continueranno a dire che Dio non esiste o che la religione del Paese è una farsa ed un inganno, i magistrati non si lasceranno intimorire da nessuna gazzarra.

Holyoake  è sul banco degli imputati.

Erskine. Ogni uomo ha la libertà di esporre le proprie opinioni, purché entro i limiti della decenza e della moderazione.

Holyoake. Allora questa libertà è uno scherzo, la parola moderazione significa soltanto ciò che l’autorità costituita considera corretto. Io mi trovo qui per essere stato più onesto di quanto la legge permetta. Le armi critiche sono negate solo a coloro che attaccano l’opinione della maggioranza. Quello che definite Cristianesimo non è il Cristianesimo, ma il lavoro fatto dalle vostre chiese per duemila anni. È fatto di passività e sottomissione.

Capo dei giurati. Colpevole.

[John Osborne, Materia di scandalo e preoccupazione, Londra 1959] (no.126 – 3.2009)

 

 

1° maggio 1891

Auguri a un nuovo giornale socialista della povera stampa operaia: il “Martello”. Come ci fosse da battere non solo sulla dura cervice dei borghesi spadroneggianti, ma anche sull’intelligenza intiepidita di quegli operai, che sono incapaci del sentimento di classe.

Toccò a me l’ingrato ufficio di ricordare più volte che la disoccupazione, “non altrimenti che il salario minimo e il lavoro-merce, la miseria crescente, tutte queste vergogne della presente società, sono conseguenze inevitabili del principio della concorrenza, che a sua volta deriva fatalmente dalla proprietà individuale esplicantesi nel metodo capitalistico della produzione”.

Col diritto al lavoro, negazione recisa della concorrenza, i socialisti intendono di ferir nel vivo tutto il sistema liberale; ma essi sanno bene che quel principio “è privo d’ogni senso, finché durano la concorrenza e lo Stato borghese, e finché la socializzazione dei mezzi di produzione è di là da venire. Non si parte da quello cui bisogna arrivare”.

[Rispetto all’opposizione contro i provvedimenti finanziari, chiamata ribellione degli scheletri:] ma perché da tanto fermento contro le nuove tasse, non viene fuori alla Camera un’opposizione seria, positiva?

E conchiudevo a un di presso così: “Quella festa è un segnale e una promessa: quella festa è un patto e un augurio. Non è più il tempo delle cospirazioni e delle sommosse. Quella festa vuol dire solidarietà universale, ma pubblicamente, al­l’aperto: vuol dire l’effetto pratico e maturo della Internazionale di gloriosa memoria: vuol dire resistenza organizzata, ma di veri operai, non mescolati a caso ai radicalucci e ai piccoli borghesi, di veri operai non ingannati dai politicanti, non fuorviati dai mestatori, non confusi coi turbolenti senza scopo e coi figuranti di dimostrazioni: vuol dire, che chi conosce la via che gli tocca di percorrere, ne sa anche le varie e successive stazioni. La riduzione delle otto ore, se universale e sistematica, limita i tristi effetti della concorrenza, diminuisce i disoccupati, restringe lo sfruttamento, e segna un piccolo passo sulla lunga e faticosa via della socializzazione del capitale”.

[Non, come] certi programmi politici promettono, per convertire inavvedutamente in una dubbia e meschina garanzia di diritto privato un principio, che ha ragione e fondamento nell’ambito soltanto delle cause e degli effetti collettivi della produzione.

“Il salariato è una forma di schiavitù; il salariato deve finire; il salariato finirà”. Ma non finirà con comizi, con voti, con sbandierate e con tumulti.

[Antonio Labriola, Roma 1. 5. 1891] (no.127 – 6.2009)

 

 

Persistente è il tentativo di assicurare il sistema scolastico all’im­perialismo mascherato da patriottismo. Catturare l’infanzia del paese, meccanizzare il suo libero gioco nella routine dell’esercitazione militare, colti­vare le sopravvivenze selvagge della combattività, avvelenare la sua prima comprensione della storia con false idee e pseudo-eroi, e di conseguenza con la denigrazione e l’ignoranza di ogni lezione del passato veramente vitale e nobile, subordinare gli interessi dell’u­manità a quelli del “paese” (e con facile deduzione a quelli dell’”io”), alimentare l’orgoglio sempre arrogante della razza che porta a disprezzare le altre nazioni: in questo modo avviare i bambini alla vita con false misure di valore e chiamarlo patriot­tismo è il più scorretto abuso di educazione che sia possibile immaginare. Tutta­via il potere della chiesa e dello stato sull’istruzione primaria è volto coerente­mente a questo scopo, mentre la mescolanza di clericalismo e accademismo au­tocratico che domina l’istruzione, e i massimi centri della cultura, le università, corrono il pericolo di una nuova distorsione della libertà di indagine e di espressione.

Un nuovo tipo di “pio fondatore” minaccia la libertà intellet­tuale. Le università, invero, sono i difensori fedeli della ortodossia religiosa, coloro che reprimono la scienza, falsificano la storia, e pla­smano la filosofia in modo da preservare gli interessi della chiesa e del potere: i servizi resi al “conservatorismo” in molti casi possono essere conside­rati casuali; forse solo in filosofia e in economia vi è un potente e generale pre­giudizio, ma anche questo potrebbe essere corretto se vi fossero forti personalità autonome e indipendenti. Inoltre, è inutile accusare di disonestà insegnanti che normalmente pensano e insegnano il meglio che possono.

Tuttavia resta il fatto che l’insegnamento effettivo è scelto e controllato, ovunque si trovi utile selezione e controllo, dagli interessi economici che utiliz­zano gli interessi accademici costituiti. Non si può seguire la storia della teoria economica e politica senza riconoscere che la selezione e il rifiuto di determinate idee, ipotesi e formule, la loro organizzazione in scuo­le e tendenze di pensiero, e la propaganda di esse nel mondo intellettuale, sono state chiaramente orientate dalla pressione degli interessi di classe. È nell’economia politica, a causa del suo vertere sugli affari e sulla politica, che si trova l’esempio più probante, dissimulando gli interessi costituiti rispetto a quelli delle classi lavoratrici.

“Chi deve insegnare? Che cosa deve insegnare? Come deve insegnare?”

[J.A.Hobson, Imperialismo (1902)] (no.128 – 9.2009)

 

 

 

SULLA LIBERTÀ DI STAMPA

Nell’accusare il governo francese di “aver reso impossibile la libera espressione di opinione in Francia tramite la stampa e i rappresentanti nazionali”, Bismarck evidentemente intendeva fare solo dello spirito.

Su espresso ordine di Bismarck, i signori Bebel e Liebknecht sono stati arrestati, con l’accusa di alto tradimento, semplicemente perché hanno osato compiere il loro dovere quali rappresentanti nazionali tedeschi, cioè protestare nel parlamento contro l’annessione dell’Alsazia e della Lorena, votare contro nuovi sussidi di guerra, esprimere la loro solidarietà alla repubblica francese e denunciare il tentativo di trasformare la Germania in una caserma prussiana. Per aver espresso le stesse opinioni i membri del comitato socialdemocratico sono stati trattati come dei galeotti e stanno ancora subendo un finto processo per alto tradimento.

La stessa sorte è capitata a numerosi lavoratori che diffondevano l’in­dirizzo socialdemocratico. Con pretesti simili, il vice-direttore del Volkstaat di Lipsia è processato per alto tradimento. Le riunioni dei lavoratori tedeschi in favore di una pace onorevole con la Francia vengono quotidianamente disperse dalla polizia. Secondo la dottrina ufficiale prussiana, ogni tedesco “che tenti di contrastare gli scopi potenziali della guerra prussiana in Francia” è colpevole di alto tradimento. Se il signor Gambetta e compagnia fossero, come gli Hœnzollern, obbligati a reprimere violentemente l’opinio­ne popolare, dovrebbero soltanto applicare il metodo prussiano e, con la scusa della guerra, proclamare lo stato d’assedio per tutta la Francia. Il governo prussiano si sente costretto a mantenere rigorosamente lo stato d’assedio, cioè la forma di dispotismo militare più brutale e più ripugnante, la sospensione di ogni legge. Il territorio è infestato da circa un milione di invasori tedeschi.

Considerate questo e quel quadro! La Germania, comunque, si è dimostrata un campo troppo piccolo per l’amore onnicomprensivo di Bismarck per l’opinione indipendente. Sarebbe uno sbaglio credere che queste procedure poliziesche siano dovute solo al parossismo della febbre bellica. Sono invece la vera applicazione metodica dei principi della legge prussiana. Esiste in realtà una strana clausola nel codice di procedura penale prussiano in forza della quale ogni straniero, per le sue azioni o per i suoi scritti, nel suo paese o in qualsiasi altro paese straniero, può essere processato per “oltraggio al re di Prussia” e per “alto tradimento contro la Prussia”.

[Karl Marx, Daily News, 19 gennaio 1871 - alla vigilia della Comune di Parigi] (no.129 – 12.2009)

 

 

Giolitti, che a prima vista sembra il dittatore della maggioranza, in realtà è il servo e lo strumento dei deputati della maggioranza; i quali intanto gli hanno conferito la dittatura, in quanto sanno che questa dittatura sarà esercitata a tutela dei loro interessi. È il loro capo: dunque deve servirli. L’unità d’Italia, nel cinismo e nella corruzione, è fatta. Della corruzione è difficile avere le prove. Spiegare agli ingenui perché i deputati d’Estrema Sinistra in genere  e i radicali in ispecie non daranno mai battaglia sinceramente ed energicamente contro il giolittismo: i metodi giolittiani serviranno domani, non appena costituito il grande ministero democratico-mas­sonico-giolittico, anche ai candidati d’Estrema Sinistra.

Quando i reati commessi vengono denunciati in forma così precisa  che l’on. Giolitti non possa decentemente ridurre ogni difesa a qualche spiritosità maccheronica, la quale mandi in visibilio la maggioranza e tenga luogo di risposta trionfatrice; – quando insomma i suoi accusatori lo mettono con le spalle al muro e gl’impediscono di cavarsela con giochi di bussolotti e gianduiate, l’on. Giolitti subito indossa i paramenti del moralista contristato, e deplora che i costumi politici non sieno abbastanza progrediti, e predice che solo col tempo, migliorando l’educazione delle masse, gl’inconvenienti attuali spariranno, e arriva finanche a proporre disegni di legge allo scopo di moralizzare le operazioni elettorali. E gli applaudono quei deputati e gli affaristi di tutte le regioni d’Italia, sparsi in tutti i gruppi della Camera, dall’Estrema Destra all’Estrema Sinistra, che han bisogno di far massa coi deputati meridionali per costituire quella maggioranza, in cui l’affarismo trova le condizioni per liberamente svilupparsi. Nel Mezzogiorno la moltitudine lavoratrice è tenuta con la massima diligenza fuori del diritto elettorale; le lotte politiche si riducono in ogni collegio a contrasti di poche centinaia di elettori organizzati in clientele sfruttatrici; in queste battaglie è facile la vittoria alla prepotenza e alla corruzione. Ecco dove incominciano le responsabilità personali e consapevoli dell’on. Giolitti, il quale approfitta delle miserevoli condizioni del Mezzogiorno per legare a sé la massa dei deputati meridionali: dà a costoro “carta bianca” nelle amministrazioni locali; mette, nelle elezioni, al loro servizio la mala vita e la questura; assicura ad essi e ai loro clienti la più incondizionata impunità; lascia che cadano in prescrizione i processi elettorali e interviene con amnistie al momento opportuno; mantiene in ufficio i sindaci condannati per reati; premia i colpevoli con decorazioni; non punisce mai i delegati delinquenti; approfondisce e consolida la violenza e la corruzione, dove rampollano spontanee dalle miserie locali.

[Gaetano Salvemini, Il ministro della malavita, 1909] (no.130 – 3.2010)

 

 

I medici non possono far nulla per impedire le malattie. Essi hanno influsso sullo stato solo in quanto possono ottenere dei guadagni per gli sfruttatori; talvolta questo può accadere mediante provvedimenti utili agli uomini, ma altrettanto o più spesso mediante provvedimenti che sono loro dannosi. I medici dicono che sui loro tavoli tutti gli uomini sembrano loro uguali. Ai medici si spedisce il malato in uno stato che non è il suo solito: in forma di un corpo nudo, privo di occupazioni, senza un passato e un futuro determinati. Non viene eliminata la causa della malattia, ma tutt’al più l’effetto di questa causa, cioè appunto la malattia.

Il filosofo Me-ti si intratteneva con alcuni medici sulle cattive condizioni dello stato e li esortò a collaborare alla loro soppressione. Essi rifiutarono adducendo il motivo che non erano uomini politici. Al che egli replicò narrando la storia seguente: il medico Shin-fu prese parte alla guerra dell’imperatore. Egli lavorava come medico in diversi ospedali militari, e la sua opera fu esemplare. Interrogato sullo scopo della guerra cui partecipava, diceva: come medico non posso giudicarla, come medico io vedo solo uomini mutilati, non colonie redditizie. Richiesto del suo atteggiamento nei confronti degli scritti del sovversivo Ki-en, che respingeva la guerra, la conquista, l’obbedienza dei soldati, l’impero e la bassa mercede dei contadini, egli rispose soltanto: come filosofo potrei avere un’opinione in proposito, come uomo politico potrei combattere l’impero, come soldato potrei rifiutarmi di obbedire o di uccidere il nemico, come contadino potrei trovare troppo bassa la mia mercede, ma come medico non posso far nulla di tutto questo, posso fare solo quello che tutti costoro non possono, e cioè guarire ferite.

Purtuttavia si dice che una volta, in una certa occasione, Shin-fu abbia abbandonato questo punto di vista elevato e coerente. Durante la conquista da parte del nemico di una città in cui si trovava il suo ospedale, si dice che sia fuggito precipitosamente per non essere ucciso. Si dice che, travestito, come contadino sia riuscito a passare attraverso le linee nemiche, come aggredito abbia ucciso delle persone e come filosofo abbia risposto ad alcuni che gli rimproveravano il suo comportamento: come faccio a continuare a prestare la mia opera come medico, se vengo ucciso come uomo?

Quando morì Ka-meh, il pensatore dell’azione, sulle colonne trionfali e­rano ancora scritti i nomi dei macellatori anziché quelli dei medici; le opere erano designate con il nome di chi le aveva godute, non di chi le aveva create. La posizione dei medici si rivela nel modo più chiaro in guerra. Essi non possono far nulla per impedire la guerra, possono soltanto rappezzare le membra sfracellate. E nelle nostre città la guerra c’è sempre.

[Bertolt Brecht, Me-ti] (no.131 – 6.2010)

 

 

Dal punto di vista sociologico, la contraddizione si rivela qui nel fatto che, benché solo la forma della società borghese porti la lotta di classe a manifestarsi nella sua purezza, benché sia stata la borghesia a fissarla come un dato di fatto nella storia, essa deve far di tutto, sia sul piano della teoria che su quello della praxis, perché questo dato di fatto scompaia dalla coscienza sociale; considerando la cosa dal punto di vista ideologico, noi cogliamo la stessa frattura quando vediamo che lo sviluppo della borghesia sopprime qualsiasi individualità.

Tutte queste contraddizioni, la cui serie non è affatto esaurita da questi esempi, ma potrebbe essere continuata all'infinito, sono soltanto un riflesso delle contraddi­zioni del capitalismo stesso, secondo la forma che esse assu­mono, rispecchiandosi nella coscienza di classe borghese, in corrispondenza con la sua posizione nel processo complessivo di produzione. Queste contraddizioni si presentano perciò, nella coscienza di classe della borghesia, come con­traddizioni dialettiche e non come pura e semplice incapacità di com­prendere le contraddizioni del pro­prio ordinamento sociale. Infatti il capitalismo è, da un lato, il primo ordinamento di produzione che tende ad una completa assimila­zione economica della società nella sua interezza, e di conseguenza la borghesia dovrebbe essere in grado, a partire da questo punto centrale di possedere una coscienza (attribuita di diritto) della totalità del processo di produzione. D'altro lato, per via della posizione che occupa nella produzione e degli interessi che determinano il suo agire, alla classe capitalistica è impossibile dominare — anche teoricamente — il proprio ordinamento di produzione.

Solo in apparenza, per il capitalismo, la produzione è il punto centrale della coscienza di classe e quindi solo in apparenza essa rappresenta il punto di vista della comprensione teorica. Il capitalista, che produce appunto merci e non beni, tutto preso nel processo di valorizzazione — che è per lui decisivo — possiede necessariamente per la considerazione dei fenomeni economici, un punto di vista a partire dal quale i fenomeni più importanti diventano in genere inavvertibili. Nel rapporto capitalistico stesso il principio individuale e il principio sociale, quindi la funzione del capitale come proprietà privata e la sua funzione economico-oggettiva, si trovano in un insolubile contrasto dialettico. “Il capitale non è — dice il manifesto comunista — un potere personale, è un potere sociale”.

[Gyorgy Lukács, Storia e coscienza di classe] (no.132 – 9.2010)

 

 

Funerale dell’agitatore

Si può cantare anche
nei tempi oscuri?
Si canterà lo stesso.
Si canterà l’oscurità dei tempi ...

Qui, in questo zinco
sta un uomo morto,
o le sue gambe o la sua testa,
o di lui anche qualcosa di meno,
o nulla, perché era
un agitatore.

Fu riconosciuto fondamento del male.
Sotterratelo. È meglio che
solo la moglie vada con lui allo scorticatoio.
Chi altri ci vada
è segnato.

Quel che è lì dentro
a tante cose vi ha aizzati:
a saziarvi
e a dormire all’asciutto
e a dar da mangiare ai figlioli
e a non mollare di un passo
e alla solidarietà con tutti
gli oppressi simili a voi, e
a pensare.

Quel che è lì dentro vi ha detto
che ci vuole un altro sistema nella produzione
e che voi, le masse del lavoro, milioni,
dovete prendere il potere.
Per voi, prima, non andrà mai meglio.

E siccome quel che è lì dentro ha parlato così,
l’hanno messo lì dentro e dev’essere sotterrato,
l’agitatore che vi ha aizzati.
E chi parlerà di saziarsi
e chi di voi vorrà dormire all’asciutto
e chi di voi non mollerà d’un passo
e chi di voi vorrà dar da mangiare ai figli
e chi pensa e si dice solidale
con tutti coloro che sono oppressi,
quello, da ora fino all’eternità,
dovrà essere chiuso nella cassa di zinco
come questo che è qui,
perché agitatore, e sarà sotterrato.

[Bertolt Brecht, Poesie e canzoni] (no.133 – 12.2010)]

 

 

Durante il periodo della repubblica parlamentare, il potere statale divenne lo strumento di guerra esercitato dalla classe degli sfruttatori contro la massa produttrice del popolo. La condizione di vita per la repubblica parlamentare era dunque la continuazione di una guerra, esattamente l’opposto dello stesso “ordine”. Questo poteva essere solo uno stato di cose convulso, eccezionale. Era impossibile come normale forma politica di società, intollerabile perfino per la massa della classe media. Quando tutti gli elementi di resistenza popolare furono abbattuti, la repubblica parlamentare doveva scomparire e cedere il passo davanti al secondo Impero.

L’Impero, che dichiarava di sostenersi sulla maggioranza produttrice della nazione, apparentemente al di fuori del terreno della lotta di classe, l’Impero che esercitava il potere di stato come una forza superiore alle classi dominanti e a quelle dominate, che imponeva a entrambe un armistizio (riducendo al silenzio la forma politica della lotta di classe), che spogliava il potere di stato della sua forma diretta di dispotismo di classe col porre un freno al potere parlamentare, e quindi direttamente politico delle classi sfruttatrici, era la solo possibile forma statale in grado di assicurare al vecchio ordine sociale una proroga di vita. Esso fu dunque acclamato come il “salvatore dell’ordine” e per venti anni fu oggetto di ammirazione da parte degli aspiranti schiavisti del mondo.

Sotto il suo dominio, coincidente con i mutamenti introdotti nel mercato mondiale, prese piede un’orgia di speculazione borsistica, di truffe finanziarie, di avventure di società per azioni, che ha condotto a una rapida centralizzazione del capitale grazie all’espropriazione delle classi medie e allargando lo iato tra la classe capitalistica e la classe operaia. Tutta la turpitudine del regime capitalistico diede libero sfogo alle sue tendenze innate, fu lasciato libero senza impedimenti.

Nello stesso tempo un’orgia di lussuosa dissolutezza, uno splendore di meretricio, un pandemonio di tutte le basse passioni delle classi superiori. Questa forma finale del potere governativo ne era contemporaneamente la più prostituita, un indecente saccheggio delle risorse dello stato da parte di una banda di avventurieri, un focolaio di un immenso debito pubblico, la gloria della prostituzione, una vita fittizia di false pretese. Il potere governativo con tutto il suo ciarpame che lo copre dalla testa ai piedi, immerso nella melma. Questo era il potere statale nella sua forma ultima e più prostituita, nella sua suprema e più vile realtà. Quanto al parlamentarismo era stato ucciso dal suo stesso trionfo e dall’Impero.

[Karl Marx, Primo abbozzo per "La guerra civile"] (no.134 – 3.2011)]

 

 

I “diritti dell’uomo” vengono in quanto tali distinti dai diritti del cittadino. Chi è l’homme distinto dal citoyen? Nient’altro che il membro della società civile, che viene chiamato “uomo,” uomo senz’altro, dal rapporto dello stato politico con la società civile, dall’essenza dell’emancipazione politica. Innanzitutto constatiamo il fatto che i cosiddetti diritti dell’uomo, come distinti dai diritti del cittadino, non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità. La libertà è il diritto di fare ed esercitare tutto ciò che non nuoce ad altri, la libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su stessa, dell’isolamento dell’uomo dall’uomo: il diritto dell’individuo limitato a se stesso.

L’utilizzazione pratica del diritto dell’uomo alla libertà è il diritto dell’uomo alla proprietà privata. dunque il diritto di godere arbitrariamente – senza riguardo agli altri uomini, indipendentemente dalla società, della propria sostanza e di disporre di essa – il diritto dell’egoismo. Quella libertà individuale, come questa utilizzazione della medesima, costituiscono il fondamento della società civile. Essa lascia che ogni uomo trovi nell’altro uomo non già la realizzazione, ma piuttosto il limite della sua libertà. L’égalité, nel suo significato non politico, non è altro che l’uguaglianza della libertà sopra descritta.

La sicurezza è il più alto concetto sociale della società civile – il concetto della polizia – che l’intera società esiste unicamente per garantire a ciascuno dei suoi membri la conservazione della sua persona, dei suoi diritti e della sua proprietà. In tal senso Hegel chiama la società civile “lo stato del bisogno e dell’intelletto”. La sicurezza è l’assicurazione del suo egoismo. Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoistico, membro della società civile, il suo interesse privato e il suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Non l’uomo inteso come specie; la stessa vita della specie, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L’unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e l’interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica, il diritto dell’uomo egoista, isolato dal suo simile e dalla comunità politica che viene abbassata dagli emancipatori politici addirittura a mero mezzo per la conservazione di questi cosiddetti “diritti dell’uomo: il citoyen viene considerato servo dell’homme egoista; infine non l’uomo come citoyen, bensì l’uomo come bourgeois viene preso per l’uomo vero e proprio.

[Karl Marx, Sulla questione ebraica] (no.135 – 6.2011)

 

 

Alla proprietà privata moderna corrisponde lo stato moderno, che attraverso le imposte è stato a poco a poco comperato dai detentori della proprietà privata, e con il sistema del debito pubblico è caduto intera­mente nelle loro mani, e la cui esistenza ha finito col dipendere del tutto, nell’ascesa o nella caduta dei titoli di stato in borsa, dal credito commerciale che gli assegnano i detentori della proprietà privata. Per il solo fatto che è una classe, la borghesia è costretta a organizzarsi nazionalmente, non più localmente, e a dare una forma generale al suo interesse medio. Attraverso l’eman­cipazione della proprietà privata dalla comunità, lo stato è pervenuto a un’esistenza particolare, accanto e al di fuori della società civile; ma esso non è altro che la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità, tanto verso l’e­sterno che verso l’interno, al fine di garantire reciprocamente la loro proprietà e i loro interessi.

L’indipendenza dello stato oggi non si trova più che in quei paesi dove ordini non si sono ancora sviluppati in classi, dove gli ordini esercitano ancora una funzione ed esiste una mescolanza, per cui nessuna parte della popolazione può arrivare a dominare le altre. L’esempio più perfetto di stato moderno è il nordamerica. Lo stato esiste in virtù della proprietà privata, e ciò è passato anche nella coscienza comune. Poiché lo stato è la forma in cui gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi comuni e in cui si riassume l’intera società civile di un’epoca, ne segue che tutte le istituzioni comuni passano attraverso l’intermediario dello stato e ricevono una forma politica. Di qui l’illusione che la legge riposi sulla volontà e anzi sulla volontà strappata dalla sua base reale, sulla volontà libera.

Allo stesso modo, il diritto a sua volta viene ridotto alla legge. Il diritto privato si sviluppa contemporaneamente alla proprietà privata dalla dissoluzione della comunità naturale. Nel diritto privato i rapporti di proprietà esistenti sono espressi co­me risultato della volontà generale. Il proprietario privato, se non vuole veder passare la sua proprietà in mani altrui, poiché in realtà la cosa, considerata unicamente in rapporto alla sua volontà, non è affatto una cosa soltanto nello scambio e indipendentemente dal diritto diventa una cosa, diventa proprietà reale (un rapporto, che i filosofi chiamano un’idea). Questa illusione giuridica che riduce il diritto alla pura volontà conduce necessariamente a questo, nello sviluppo ulteriore dei rapporti di proprietà, che ciascuno può avere un titolo giuridico a una cosa senza avere realmente la cosa.

[Engels-Marx, L’ideologia tedesca] (no.136 – 9.2011)

 

 

Una vera riforma, secondo il vecchio significato inglese della parola, non crea alcunché di nuovo e neanche abolisce alcunché di vecchio. Mira a conservare il vecchio sistema dandogli una forma più razionale e insegnandogli, per così dire, nuove maniere. Questo è il mistero della “saggezza ereditaria” della legislazione oligarchica, nel rendere ereditari gli abusi, rinfrescandoli ogni tanto con una trasfusione di sangue nuovo. E ora conoscete uno dei più importanti e giganteschi progetti finanziari che siamo mai stati presentatati.

Non esiste forse in generale più grande impostura della cosiddetta finanza. Le operazioni più semplici relative al bilancio e al debito pubblico sono ammantate dagli adepti di questa "scienza occulta" in una terminologia astrusa, che nasconde le basse manovre per cui si creano titoli di varie denominazioni, la conversione di vecchi titoli in nuovi, la diminuzione degli interessi e l’au­mento del capitale nominale, l’au­mento dell’interesse e la diminuzione del capitale, rateizzazione di premi, dividendi straordinari, azioni privilegiate, distinzione tra vitalizi convertibili e non convertibili, artificiosa graduazione delle possibilità di trasferire i diversi titoli, in modo tale che il pubblico rimane sconcertato da questa odiosa scolastica borsistica e dalla spaventosa complessità dei particolari, mentre con ognuna di siffatte nuove operazioni finanziarie si offre agli usurai la possibilità, che essi afferrano prontamente, di allargare la loro sinistra e predatoria attività. In tutta questa confusione di conversioni, permute, combinazioni, l’economia non vede tanto un’operazione di politica finanziaria quanto una semplice que­stione di aritmetica o della vuota fraseologia.

[Il ministro del tesoro e delle finanze del governo di coalizione] è indubbiamente un maestro in questa sorta di alchimia finanziaria. "Mai la sottigliezza e il genio del più accorto dei [teologi] casisti hanno saputo divisare un marchingegno più complesso e abile per ottenere un risultato così insignificante. Vi è in san Tommaso d’Aquino un capitolo in cui si disquisisce sul problema di quanti angeli potrebbero danzare sulla punta di un ago. È stato un dei più raffinati prodotti del genio umano. Riconosco nelle proposte del ministro qualcosa di simile a quella mente eccelsa" [Disraeli]. Ora, per raggiungere questo scopo, egli crea un fondo molto limitato a interesse ridotto e aumenta il capitale, e titoli in numero illimitato a un tasso di rendimento più alto. Per sbarazzarsi dell’ostacolo di legge per questi ultimi, che esige un preavviso di dodici mesi, preferisce una legge che impegna i quarant’anni a venire. Se riuscisse nella sua impresa, toglierebbe a due generazioni qualsiasi possibilità favorevole dal punto di vista finanziario.

[K.Marx, Operazioni di governo, 1853] (no.137 – 12.2011)